MILITANTI |
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registrazione serata ( VEDI IN fondo pagina)
Venerdì 18 marzo 2011, ore 18 Teatro del Lavoro, via Chiappero 12.
Pinerolo Presentazione del libro MILITANTI.
Un’antropologia politica del Novecento. Punto Rosso Editore di
Franco Milanesi
ne
discutono con l’autore Luca
Rastello, scrittore e giornalista Andrea
Ughetto, traduttore e libraio I militanti politici hanno
percorso l’intera storia del XX secolo, impegnando pensiero,
volontà e azione al fine di trasformare il mondo.
Gran parte della politica novecentesca si è radicata sul terreno, al
tempo stesso materiale e ideale, delle soggettività militanti e dei movimenti
di massa che ne hanno accolto e articolato l’agire. Ripercorrere i tratti e il
significato di questa diffusa figura antropologica significa interrogarsi sulle
possibilità attuali del rifiuto, della ribellione, dell’alterità. Franco Milanesi (Torino, 1956) ha studiato il dissenso nel PCd’I e le espressioni del comunismo eretico europeo tra le due guerre. Si è addottorato in Studi Politici presso l’Università di Torino con una tesi sul Nazionalbolscevismo e la Rivoluzione Conservatrice. Collabora con alcune riviste storiche e filosofiche.
registrazione serata/ preferibile l'ascolto in cuffia- audio- SOTTO: 1- Andrea Ughetto
scarica http://www.alpcub.com/1andrea_militanti_18marzo2011.mp3 ----------------------------------------------- 2- Luca Rastello
scarica http://www.alpcub.com/2luca_militanti_18marzo2011.mp3 --------------------------------------- 2. Franco Milanesi e dibattito
scarica http://www.alpcub.com/3franco_militanti_18marzo2011.mp3 RECENSIONE
DI MARIO DELLACQUA Nato
sul magmatico pianeta del ribellismo antiborghese, il miles è un
prodotto originale del secolo scorso. Può essere per la classe o per la
nazione, ma subito si è presentato come ambigua miscela tra ispirazione
elitaria e febbrile tensione divulgativa. All'alba è intraprendente
scalata della parte che prima del tramonto ambisce già ad
assorbire e a compendiare il tutto. E' professione fredda e
passione accanita. E' separazione del privilegio o dell'eroismo, o
immersione pauperistica nell'umiltà dell'anonimato. E' carisma e proliferazione di “misere lotte” tra capi “per
la visibilità del potere”. E' guerra e scuola di civilizzazione del
conflitto. E' pretesa di convertire e di possedere la verità. E' cinismo
o odio gramsciano per gli indifferenti e il loro “piagnisteo da
eterni innocenti”. E' spirito sacerdotale e gerarchia da caserma. E'
esercizio di previsione e ribellione al destino. E' conflitto
distributivo, ma anche tensione verso una nuova umanità, non solo
richiesta del proletario che dice al borghese di alzarsi per potersi
sedere allo stesso tavolo. Proiettata
alla trasformazione e non ridotta alla sapiente gestione burocratica
dell'esistente, questa militanza novecentesca riabilita l'ideologia,
intesa come “un insieme fortemente connesso di insofferenze per il
reale, di volontà di azione e di continua tensione teorica” votata
ad un perenne “inquieto cercare”.
Franco Milanesi sembra volerci dire che l'armonia fra oggi e
domani, fra rivendicazione e rivoluzione, fra democrazia rappresentativa e
democrazia diretta sia stata effettivamente alla nostra portata nella
breve stagione a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta. Ma
non è stata solo la rivoluzione dall'alto del capitale sulla via della
globalizzazione a interrompere il sogno. Nelle pieghe di quella generosità
si era insediato un micidiale gene distruttivo che Milanesi analizza con
spietato disincanto. Il partito si è trasformato da mezzo in fine
divenendo per i militanti un soggetto semisacralizzato. Il dissenso si è
trasformato in eresia e il confronto interno in “ricerca di
eliminazione delle deviazioni”. L'identità non è più ciò che sa
far lottare e stare insieme gli sconosciuti, ma “reductio ad unum
della pluralità”. Lo stalinismo, una delle “grandi ossessioni
della politica moderna”, è stato una “sistematica eliminazione
del particolare concreto a favore dell'universale astratto”.
Amaramente Koestler concludeva che “tutti i nostri principi erano
giusti, ma i risultati sono sbagliati. Abbiamo portato al popolo la libertà
ed essa appare nelle nostre mani come una sferza”. Ma lo
stalinismo si è anche europeizzato concretizzandosi nella scorciatoia
tragica della violenza “che non è perdita di contatto tra fini e
mezzi – osserva Milanesi – ma si regge sull'idea di un loro
rapporto immediato” per cui burocrate e terrorista “appaiono
l'uno il sogno dell'altro”. Tutto vero e dolorosissimo, anche se non
bisogna esagerare per non cadere nella rete di chi punta a una comoda
demolizione in blocco del comunismo, con la scusa della scontata condanna dello
stalinismo. I conti non tornano. Basterebbe fare un giro nella Romagna di
fine Ottocento e si scoprirebbe che da quelle parti socialisti e anarchici
arrivarono da soli al delitto politico per eliminare il nemico interno
senza bisogno di aspettare gli illustri esempi forniti nei decenni
successivi dalle conclamate emergenze sovietiche. E quando, a metà degli
anni Sessanta, Bruno Storti seppe degli incontri segreti fra Lama e
Macario e volle stroncare i fermenti unitari dei metalmeccanici, trovò
sulla sua strada Cesare Delpiano e Vincenzo Scotti che lo accusarono di
aver importato il centralismo democratico nella Cisl: difficile partorire
un'accusa più infamante, per quei tempi e per quegli ambienti. Dunque,
non facciamo i furbi, perchè la lotta politica offre sempre alla portata
di tutti una scorciatoia burocratica e amministrativa utile a tappare la
bocca all'opposizione interna. Meglio rendersi conto dei rischi che si
corrono - avrebbe detto il commissario Kim di Italo Calvino - marciando
troppo a ridosso di quella ruota che rischia di schiacciarci. E
oggi? C'è ancora chi si attarda a discutere per decidere solennemente che
il ruolo di un partito è vivo solo se autonomo, cioè solo se certificato
in soldoni dalla presenza di eletti in Parlamento con il contrassegno non
contrattato con i concorrenti più vicini. In tanto squallore stiamo
precipitando. E' così che la militanza è scaduta a “non senso e
solitudine” . E' così che la politica è divenuta una “parcellizzata
pratica di gestione locale, bersaglio della lamentatio, oppure
oggetto di interesse transitorio, rivolto a qualche personaggio che
attraversa lo spazio pubblico”. Lavoro morto che schiaccia lavoro
vivo, aggiungo io. Energie dissipate. Saggiamente Milanesi scrive che non
si deve attendere “il tempo di un futuro radioso, ma è il tempo che
attende il soggetto e lo sollecita” al pensiero e all'azione.
L'importante è non cedere “alle sirene adattative che sollecitano
alla passività”. L'importante è non lasciarsi soggiogare dalle “litanie
sull'invecchiamento degli strumenti interpretativi” che risuonano
noiosamente come “giustificazione all'inazione”. L'importante
è guidare il passaggio “dall'agonico citius, altius, fortius (più
velocemente, più in alto, con più forza) al lentius, profundius,
suavius (più lentamente, più in profondità, con più dolcezza)” di
cui parlava Alex Langer. In altri termini, vorrei dire: col tempo, dal
basso e con gli altri. Vittorio
Foa ha scritto nella sua Gerusalemme rimandata che “se si vuole
salvare l'idea del cambiamento, la stessa Gerusalemme, bisogna rileggere
il presente, scorgere in esso il futuro, non separare più il domani
dall'oggi, riscoprire Gerusalemme attorno a noi, dentro di noi”. Non
dobbiamo consumarci nell'attesa del Messia, perchè è da una vita che il
Messia aspetta noi. F.
MILANESI, Militanti Un'antropologia politica del novecento,
Edizioni Punto Rosso, Milano 2010. Franco
Milanesi, Militanti. Un’antropologia
politica del novecento, Milano, Punto Rosso, 2010, pp. 160, euro 12.00 Il
compito che l’autore si è assunto non è tanto quello di descrivere un
fenomeno, quanto quello di coglierne l’essenza, cioè un modo di leggere e
interpretare quanto la fattualità storica del novecento ha prodotto, in questo
caso riferita al tema della militanza politica. Argomento che in queste pagine
trova una sua definizione e collocazione che lo consegna alla storia
estrapolandone la sua antropologia, come recita fin dal titolo. Muove quindi da
un assunto importante. Vuole delineare le ragioni che motivarono quell’andare
verso la politica «come impegno esistenziale». Non tanto e non solo i
sentimenti di chi fa politica militante, ma l'insorgere dei motivi che spingono
l'individuo a «donare corpo, intelligenza, emozioni alla politica». Militanza,
quindi intesa non come impegno temporaneo o separato dal proprio essere sociale,
ma come totalità di vita. Separandosi,
per quanto possibile, dal presentismo storico, che riduce e imbriglia il passato
osservandolo con la miopia del presente, l’autore intende ridare libertà alla
storia, sfidando quello che, se visto dal presente, appare, nel caso della
militanza, come un fenomeno assurdo, una sfida al buonsenso conformista
dell’oggi nei confronti di un impegno politico totalizzante. Ciò detto una
prima distinzione è da farsi. Quella militanza politica si caratterizzò per
una tipica avversione al far politica come professione, cioè come
amministrazione dell’ordine sociale e istituzionale dell’esistente, tipica
dell’ordinamento borghese, una classe che, conquistato il potere, può porsi
il problema “tecnico” di come gestirlo. Essa si caratterizzò, invece, per
la contestazione all’ordine precostituito, presentandosi come alterità e
rivendicazione della possibilità, ideale e materiale, di una nuova forma
sociale. Si lotta per un ideale, per ciò che non c’è ancora. Il
militante politico novecentesco si differenzia quindi dall’uomo politico
borghese, la sua è una lotta per un'alternativa di sistema e, come tale, si
dispiega in un campo ampio dell’agire non distinguendo il piano politico da
quello economico e antropologico: «tutta l’intera esistenza viene svolta in
questa dimensione, tutto, non solo l’attività politica in senso stretto ma
l’intera gamma dei valori, i gusti, gli affetti, le relazioni assumono questa
coloritura e questo senso». La militanza politica è impegno quotidiano, occupa
ogni angolo della vita dell’individuo, dà un senso all’indignazione e alla
ribellione trasformandole in progetto rivoluzionario nel tempo storico. Quel
fare politica dava “un piacere” derivante dal senso di controllo e dal
governo delle cose, da recupero di una coscienza di appartenenza collettiva: la
classe, il gruppo, il partito, la condivisione del divenire. Alla politica i
militanti si davano con gioia in una sorta di dissipazione delle proprie energie
intellettuali e di se stessi. Sulla
militanza ha influito negativamente lo stalinismo, inteso come il momento in cui
un partito diventa il fine o lo strumento del potere. Il militante poteva stare
in un partito finché esso era considerato uno strumento per la trasformazione
sociale, ma se il partito diventava un fine o si faceva Stato, la militanza
perdeva il significato originario poiché, trasformandosi da mezzo a fine, la
vita dell’organizzazione tendeva a rendersi autonoma dalle sue stesse finalità
politiche. In
questo senso molti tratti della militanza sessantottina, sono comprensibili se
considerati come reazione all’involuzione staliniana della militanza. Una
lotta per allargamento spontaneo dello scontro sociale che investe tutti gli
aspetti della totalità sociale, una guerriglia continua più che uno guerra
frontale antisistemica. Una ridefinizione del carattere della politica e del
modo di farla che si innesta, originariamente su una rivolta generazionale fuori
e dentro le classi sociali. Non
potevano mancare, al termine dell’analisi, alcune brevi e pertinenti
osservazioni sull’oggi, così diverso da quel passato, dove la politica è
tornata da essere “un far carriera” in un gioco che non ha alcuna finalità
oltre l’amministrazione dell’esistente. La politica come prospettiva e
costruzione dell’alternativa, non dell’alternanza, è disattivata, derisa,
presentata come “assurda” e o “fanatica”. Un grigio realismo
tecnocratico e “ammucchiante” domina su un mondo multiculturale e
individualista. C’è ancora spazio per un modo non amministrativo di far
politica? L’autore crede di sì. Diego Giachetti
in 'Sù la testa'
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