riproduciamo il testo seguente per mancanza di uno studio
approfondito su Perosa,
le situazioni sono simili
Maurizia Palestro
Aspetti, problemi, vite vissute
dell'emigrazione veneta nel Biellese del Novecento*
"l'impegno", a.
XXIII, n. 1, giugno 2003
© Istituto per la storia della Resistenza e della società
contemporanea nelle province di Biella e Vercelli.
È consentito l'utilizzo solo citando la fonte.
È sufficiente sfogliare l'elenco telefonico per accorgersi di
quanti cognomi veneti oggi compaiano tra gli abbonati residenti
nei comuni biellesi, dove nei decenni passati le opportunità
lavorative hanno attirato gente dal Nord-Est, oltre che dal
Meridione. Sono facilmente riconoscibili quelli terminanti in
consonante, come Galvan o Predebon, così come quelli derivanti da
toponimi, quali Vicentini e Visentin.
Triveroha molte famiglie con cognomi veneti: tra gli altri 14
Bonato, 3 Bordignon, 10 Boscardin, 5 Caldana, 4 Cantele, 18 Colpo,
5 Corradin, 7 Covolo, 14 Crestani, 17 Dalle Nogare, 5 Furlan, 20
Pizzato, 9 Rodighiero, 19 Ronzani, 7 Scalcon, 8 Zampese.
Scendendo a Coggiola troviamo invece: 3 Cantele, 1 Colpo, 3 Covolo,
4 Crestani, 1 Facchin, 3 Galvan, 2 Nichele. A Pray, paese
confinante, la situazione è simile: 2 Bonato, 3 Caberlon, 1
Cantele, 3 Cogo, 4 Crestani, 3 Dalle Nogare, 2 Galvan, 3 Merlin, 1
Pezzin, 1 Pizzato, 3 Rodighiero, 1 Ronzani e 8 Zanello. Anche
spostandosi di qualche chilometro la presenza dei veneti emerge,
ad esempio a Valle Mosso, altro comune interessato
dall'immigrazione: 1 Boscardin, 16 Crestani, 4 Cortese, 4 Mason, 3
Pezzin, 13 Pizzato e 2 Rodighiero.
In realtà la presenza dei veneti è diffusa nel mondo, non solo
nel Biellese, in quanto la loro regione fu interessata
dall'emigrazione. In anni lontani la gente veneta dovette
abbandonare la propria casa e recarsi altrove, all'estero
inizialmente e poi verso il triangolo industriale del Nord-Ovest.
Tra le altre nazioni europee mete di tali spostamenti il Belgio
ebbe un ruolo particolare a causa della legge varata il 19 ottobre
1945, oggi difficile da capire e da accettare. Un'intesa fra il
governo italiano e quello belga stipulava l'impegno del secondo a
dare ventiquattro quintali di carbone fossile l'anno per ogni
italiano che andava ad estrarlo, in miniere dove nessun altro
voleva lavorare. Il 23 giugno dell'anno seguente l'accordo fu
ampliato sottoscrivendo l'invio in Belgio di 50.000 italiani, di
cui 23.000 provenivano dal territorio vicentino1.
Erano tempi duri e la rabbia dei veneti era molta, come si legge
anche nella poesia "I va in Merica" di Berto
Barbarani: Porca Italia - i bastemia - andemo via!
Questo fenomeno non caratterizzò tanto gli anni a cavallo fra
Ottocento e Novecento, ma si protrasse soprattutto nei decenni
successivi. I veneti emigrarono non solo verso l'estero, ma anche
verso il Biellese, il Vercellese e la Lomellina. A metà anni
cinquanta la risicoltura attirava numerosa forza-lavoro perché
localmente aveva a disposizione solo il 3 per cento del fabbisogno
di manodopera necessaria per le due stagioni.
In quel periodo i piemontesi, infatti, lavoravano nelle fabbriche;
a Biella, nei 450 lanifici, cotonifici e maglifici, per ogni 100
biellesi c'erano 160 posti di lavoro disponibili.
Un posto in azienda garantiva ottime opportunità, uno stipendio
tutto l'anno e un lavoro meno massacrante di quello nei campi. Si
può quindi dire che gli abitanti del Biellese svuotarono
letteralmente le campagne. Ciao Baragia (le grandi risaie
fra Vercelli, Biella e Novara) 'nduma a travajè a Biela è
il verso di una canzone popolare che ben fa capire la situazione
di allora.
Fu proprio in relazione a queste carenze che la manodopera
femminile proveniente dal Veneto si rivelò un serbatoio
fondamentale per l'economia locale. Le giovani immigrate si
accontentavano di paghe irrisorie. Quelle delle mondine erano pari
a un terzo del salario dei braccianti biellesi e venivano
accompagnate da un "regalo" in natura, cioè dieci
chilogrammi di riso a fine stagione2.
Vennero a lavorare nelle risaie convogli interi di giovani
prosperose, sane e belle, da Rovigo, Vicenza e Padova, alloggiate
in grandi capannoni dove dormivano su materassi a terra, una
accanto all'altra. Venivano nutrite con pranzi sobri nei campi e
minestroni di riso alla sera, per poi andare a coricarsi ed essere
pronte alle nove ore di lavoro del giorno dopo, con le schiene
piegate e l'acqua fino al ginocchio3.
Ma nel Biellese giunsero anche gli uomini, impiegati in diversi
settori: fecero gli stagionali per gli impresari edili o andarono
a lavorare nelle aziende tessili. Alcuni lasciarono il Veneto a
causa delle due guerre mondiali, che là ebbero conseguenze molto
pesanti.
Qualunque fosse la spinta o il percorso seguito, le vicende degli
emigranti veneti nel Biellese si inseriscono in un contesto molto
ampio: la grande emigrazione del Novecento, che coinvolse tutta
l'Europa, con spostamenti all'interno degli stati, fra gli stati e
fra un continente e l'altro. Veneti e piemontesi migrarono anche
al di là dell'oceano, oltre che nei paesi europei più
sviluppati.
I motivi che spingevano famiglie intere ad abbandonare la propria
casa e le radici erano simili - fame e mancanza di lavoro - e
uguali anche le difficoltà da affrontare: trovare alloggio,
lavoro, integrarsi nella società di arrivo nonostante la lingua e
gli atteggiamenti razzistici4.
I movimenti migratori interni, che interessarono l'Italia nel
secolo scorso, avvennero per la capacità di alcune regioni di
mantenere il passo con il progresso che in quegli anni caratterizzò
i principali paesi d'Europa; in particolare il Settentrione riuscì
a trascinare il resto del paese in quella fase di sviluppo. Tra le
regioni-guida un ruolo di primaria importanza fu senz'altro
rivestito dal Piemonte, che per tale motivo divenne meta
privilegiata di persone che attraversarono la penisola in cerca di
lavoro, dal Meridione al Ferrarese, senza dimenticare il Veneto,
oggetto di studio in questa ricerca.
In realtà anche il Nord-Ovest fu coinvolto nell'emigrazione e più
di due milioni di piemontesi andarono all'estero nell'intervallo
di tempo compreso tra il 1870 e il 1970; fu un esodo massiccio e
dalle radici antiche, il cui primo rilevamento ufficiale risale
però solo al 1876. Si trattò di un movimento oscillatorio,
diverso da quello avvenuto nel resto d'Italia (in continuo
aumento) e diretto soprattutto verso la Francia, l'Argentina, il
Brasile e gli Stati Uniti. In generale era caratterizzato da un
alto tasso di mascolinità5.
Le cause erano molteplici. Se da una parte aumentavano le
fabbriche e il loro peso sull'economia italiana, dall'altra le
zone montane entravano in crisi6:
l'agricoltura aveva cessato di essere una fonte di sostentamento
sufficiente e poche erano le attività presenti in grado di
sostituirla. Inoltre la guerra aveva causato ingenti danni al
rivestimento arboreo, cui si aggiunsero quelli provocati dalle
alluvioni.
Anche i distretti rurali subirono un graduale spopolamento, a
causa dei redditi scarsi, di un'eccessiva frammentazione delle
aziende e della reazione di chiusura che i giovani manifestarono
nei confronti dei mestieri tradizionali. Così, tra il 1951 e il
1961, gli addetti all'agricoltura erano ormai scesi con una
flessione del 30 per cento, con un incremento delle piccole e
medie imprese7.
La mobilità del mercato del lavoro aveva determinato lo
spostamento di consistenti nuclei di persone dalla vita nei campi
verso altre occupazioni. A tutto ciò bisogna poi aggiungere lo
scarso aumento demografico che il Piemonte registrò tra il 1936 e
il 1951, pari al 2,7 per cento: un aumento che, senza l'afflusso
di manodopera a Torino e nelle altre zone avanzate della regione,
sarebbe stato ancora più basso8.
Il regresso degli indici di natalità nelle zone di montagna si
accompagnò a un massiccio esodo e solo nelle province di Novara e
Vercelli, fra la Valdossola, la Valsesia e l'alto Biellese, la
popolazione era cresciuta, mentre aumentava la presenza delle
industrie.
L'insieme di questi fattori fu una grossa spinta per i flussi
migratori, ma la prima guerra mondiale fece da freno, nonostante
gli sbocchi francesi e svizzeri fossero rimasti aperti anche
durante il conflitto, con un aumento della quota femminile. In
seguito la politica antimigratoria, applicata tra il 1930 e il
1942, rese i valori di uscita molto bassi.
Oltre ad essere una regione di partenza però, il Piemonte era
diventato anche un luogo di accoglienza per le masse provenienti
dalle zone più misere della penisola, grazie alla nascita e allo
sviluppo delle industrie che divennero veri elementi propulsivi
della realtà economica e sociale.
Lo sviluppo industriale
L'immagine tradizionale dell'Italia del progresso, nel corso del
Novecento, fu quella del "triangolo industriale", di cui
Torino costituiva il vertice più orientato alla produzione. La
presenza della Fiat, lì insediata dal 1899, ne fece la capitale
del settore automobilistico, trainando l'intera industria
meccanica in un vero e proprio periodo aureo, che raggiunse il suo
apice negli anni cinquanta, grazie allo svolgersi in loco
dell'intero ciclo tecnologico.
Fecero da corollario nuove imprese per macchinari e mezzi di
produzione, per la fabbricazione di beni intermedi come gomma e
plastica, con una forte spinta dell'occupazione. La città di
Torino in quegli anni conobbe una grossa espansione urbana,
arrivando a 1.971.000 unità nel 1968. Contemporaneamente salì
l'indice dell'occupazione industriale, raggiungendo nel 1969 il 59
per cento9.
Non solo Torino: anche altre aree di provincia emersero nel secolo
scorso, pur essendo diverse dal modello città-fabbrica che la
Fiat aveva imposto al capoluogo10.
Ad esempio Ivrea divenne importante per la presenza dell'Olivetti,
azienda produttrice di macchine per scrivere diventate celebri in
tutto il mondo. Il suo titolare, Adriano Olivetti, cercò comunque
di integrare la fabbrica con l'agricoltura e l'organizzazione
urbana, al fine di coordinare i luoghi di lavoro e i servizi11.
Nella zona di Alba, invece, molti abbandonarono l'agricoltura per
entrare nella fabbrica della Ferrero, produttrice di cioccolato e,
in misura minore, nelle aziende tessili.
In seguito a tali sviluppi, durante gli anni sessanta Torino fu
percepita e studiata quale esempio macroscopico, in positivo e in
negativo, dei fenomeni migratori (soprattutto dal Sud) che
sconvolsero il quadro demografico e sociale delle città
industriali.
L'integrazione e la ristrutturazione produttiva causarono
successivamente un calo di manodopera e un movimento di ritorno
verso i paesi di origine, ma il fenomeno migratorio aveva comunque
generato situazioni che posero il Piemonte e le sue città
principali al livello dei maggiori centri europei12.
Le conseguenze si notarono in ambito demografico e nella geografia
urbana: lo sviluppo dell'industria chimica e meccanica esigeva
un'integrazione funzionale sempre maggiore, con una forte tendenza
all'agglomerazione, a cui si aggiunsero i bisogni residenziali dei
nuovi arrivati.
Il settore tessile
Come si è appena detto, l'asse produttivo si spostò dalle
attività rurali, legate all'agricoltura, a quelle industriali,
con l'esplosione negli anni cinquanta delle piccole e medie
imprese. Soprattutto nel settore tessile la ripresa economica segnò
la comparsa di nuovi gruppi imprenditoriali e un'ampia
mobilitazione di forza-lavoro13.
Dall'alto Novarese al Biellese la dispersione di attività
industriali causò la nascita di piccoli laboratori insediati in
aree rurali o presso famiglie con sistemi molecolari di lavoro a
domicilio; in seguito si trasformarono in imprese coinvolte nei
mercati internazionali14.
L'industria laniera non ebbe un andamento lineare: all'inizio del
Novecento conobbe un grande sviluppo, con l'allontanamento dalla
tradizionale gestione diretta, con l'avvento di capitali inglesi e
l'ampliamento verso mercati poveri (Grecia, India e Argentina)15.
Ma il suo cammino verso gli anni di grande successo fu
contrassegnato da fasi alternate di espansione e di crisi, in
concomitanza coi maggiori avvenimenti su scala internazionale. La
fase più cruciale coincise con il ventennio fascista, durante il
quale il settore tessile perse la sua posizione dominante,
arretrando a favore di altri settori, che in anni di guerra
servivano direttamente lo Stato.
Il regime attuò una politica di interventismo economico; fu
istituito l'Iri (Istituto per la ricostruzione industriale), sorse
l'economia a capitale misto, pubblico e privato, ma ciononostante
le aziende tessili, come quelle di abbigliamento e di
trasformazione di prodotti alimentari, ristagnarono, pur
continuando ad occupare una numerosa manodopera16.
Teresio Gamaccio, a tal proposito, distingue tre periodi
nell'evoluzione del settore laniero. Il primo, che comprende gli
anni fra il 1918 e il 1926, fu caratterizzato dal problema della
ristrutturazione degli impianti e dalla ricerca di uno sbocco sui
mercati esteri. Seguì l'intervallo di tempo compreso tra il 1926
e il 1933, segnato da una grave crisi produttiva, dovuta
all'allineamento della lira a "quota 90" e alla chiusura
del mercato estero per il tracollo di Wall Street. Non va infatti
dimenticata l'importanza che l'esportazione ha sempre avuto per le
fabbriche tessili. Le difficoltà allora non furono superate con
un maggior dinamismo imprenditoriale, bensì con una restrizione
delle paghe e con l'aumento delle ore lavorative. Infine il
periodo tra il 1934 e il 1943, con un progressivo allontanamento
fra le industrie e la condotta politica: in quegli anni il governo
aveva imposto l'uso di fibre artificiali per il mercato interno,
per cui la maggior parte degli imprenditori dovette ricorrere alle
lane nazionali, note per la scarsa qualità e i prezzi elevati17.
Il bisogno di manodopera
I ritmi più ravvicinati del turn over, la tendenza delle
imprese a concentrare la ricerca di nuove maestranze
esclusivamente fra i lavoratori uomini dai venti ai quarant'anni,
ossia in quella fascia di età in cui si stava esaurendo la
disponibilità di offerta tra i residenti, furono le cause
principali di un flusso migratorio ampio, proveniente dalle aree
più depresse dell'Italia settentrionale e dal Mezzogiorno18.
Dal Sud giunsero in Piemonte schiere di contadini, artigiani
impoveriti, giovani senza lavoro e intere famiglie. Questa
regione, secondo i dati Istat per gli anni compresi fra il 1952 e
il 1969, ebbe dunque un saldo attivo (di oltre 800.000 unità) fra
iscrizioni anagrafiche di persone provenienti dall'esterno e
cancellazioni di abitanti diretti fuori19.
Non tutte le province e le classi di attività furono coinvolte
allo stesso modo; l'agricoltura fu in grado di assorbire solo una
quota modesta. Nell'area del basso Vercellese si era insediata, a
partire dalla seconda metà dell'Ottocento, l'impresa agricola di
tipo moderno, basata sulla monocoltura risicola e sull'impiego
temporaneo di forza lavoro. I contadini, quindi, avevano come
unica prospettiva l'impiego saltuario concentrato nelle poche
settimane di monda. Molti degli stessi residenti preferirono
emigrare nelle aree industriali limitrofe o all'estero20.
Di fronte ai problemi esistenti (caporalato, cottimo, rispetto
dell'orario di lavoro) gli imprenditori locali spesso preferivano
ricorrere ai forestieri, di poche pretese e quindi utili per
calmierare le paghe e ricattare i lavoratori indigeni. Si diffuse
la figura delle "mondine", tipica della campagna
vercellese. Erano donne reclutate dai caporali e che lavoravano
molte ore: da un'ora dopo il levar del sole ad un'ora prima del
tramonto, senza essere tutelate in alcun modo. Solo nel 1906 si
arrivò alle otto ore di lavoro giornaliero21.
Mussolini era contrario agli spostamenti migratori e per limitarli
tentò di legare gli italiani alla terra. Non solo le mondine
diventarono il simbolo dell'ideologia fascista tesa a nobilitare
il lavoro rurale, ma proprio nell'ambiente delle risaie il governo
prese provvedimenti per migliorare le condizioni di queste
lavoratrici stagionali. Si tentò di sostituire la presenza dei
caporali introducendo contratti veri e propri, stipulati ancor
prima delle partenze delle mondine, che perciò avevano la
certezza di trovare lavoro.
Anche gli aspetti qualitativi della vita furono migliorati, grazie
all'igiene e alla sistemazione dei cascinali, dove le donne
potevano dormire su comode brandine piuttosto che sui vecchi
giacigli di paglia. Alcune di loro potevano poi occuparsi dei
figli che molte colleghe erano state costrette a portare con sé22.
Attirate dal lavoro nelle risaie giunsero nel Vercellese 24.000
forestiere, comunque insufficienti a coprire il bisogno di
manodopera che era cresciuto a causa della guerra. Tra i luoghi di
provenienza spiccavano l'Emilia e il Veneto, da cui gruppi
numerosi arrivavano col treno. Per questo, presso le stazioni dei
paesi agricoli, furono aperti centri di accoglienza e assistenza,
anche se poi, in realtà, non sempre facevano riscontro le
condizioni delle cascine in cui avrebbero alloggiato nel mese e
mezzo di monda. L'alimentazione era montana (riso, polenta, pane e
poca carne), mentre lo stipendio era persino inferiore a quello
delle mondine locali. In cambio ricevevano razioni di cibo: 350
grammi di pane, 240 di riso, 105 di formaggio, 20 di lardo e mezzo
litro di latte; il tutto doveva durare una settimana23.
Se l'agricoltura non impiegò che una minima parte degli
immigrati, la maggioranza di essi fu inserita nelle fabbriche.
Negli anni cinquanta le immigrazioni nelle province di
Alessandria, Novara e Vercelli, dove si stavano organizzando poli
industriali di rilievo, tennero il passo con gli incrementi
dell'area torinese. Ciò avvenne anche perché "[...]
l'impatto contraddittorio e spesso conflittuale che hanno le nuove
fabbriche costringe alcune imprese ad importare manodopera esterna
alla comunità non solo per le mansioni di addestramento e di
comando per la forza-lavoro, ma anche per quelle meno
qualificate"24.
Le nuove fabbriche sorte in varie zone del Piemonte
rappresentarono il motore dell'immigrazione avvenuta in fasi
successive nel Novecento. Paesi di medie dimensioni, come
Gattinara, attirarono lavoratori dalle valli confinanti (Valsesia
e Valsessera), dalla pianura e, soprattutto dopo la prima guerra
mondiale, dal contado veneto.
Ne fu conseguenza evidente il saldo della popolazione relativo al
periodo 1926-1935, con esito positivo perché il numero degli
emigrati era inferiore rispetto a quello degli immigrati. Il
fenomeno fu particolarmente consistente negli anni venti e trenta
e Silvana Patriarca lo documenta attraverso la corrispondenza tra
il podestà di Gattinara e il prefetto di Vercelli. In una lettera
del 1933 quest'ultimo lamentava che "la continua immigrazione
di forestieri e specialmente Veneti, di condizioni finanziarie
miserissime, viene a creare in questo comune una situazione
veramente insostenibile [...]25"
e in un'altra, del 1930, si avvisava il prefetto che "in un
primo tempo tale immigrazione [quella delle famiglie venete] non
destava nessuna preoccupazione anche perché i locali stabilimenti
industriali assorbivano facilmente tutta la mano d'opera
disponibile, essendo in piena attività di lavoro e di sviluppo.
Ora però, colla crisi economica generale, anche queste industrie
hanno diminuito le ore lavorative e procedono a numerosi
licenziamenti, creando una sensibile disoccupazione locale:
nonostante ciò l'immigrazione veneta continua"26.
Particolarmente interessante, grazie all'industria tessile, si
mostrò l'area di Biella, dove giunsero, come nel resto della
regione, numerosi veneti. Nella seconda metà degli anni venti,
infatti, alcuni imprenditori locali, attraverso contatti diretti,
stimolarono l'immigrazione di giovani dal Nord-Est.
"Nelle nostre fabbriche, qui, i veneti sono venuti quando si
è sviluppata la filatura a pettine. Prima della guerra c'era solo
la filatura cardata, le filature a pettine si sono sviluppate dopo
il primo conflitto mondiale. Allora, normalmente, le ragazze e i
ragazzi che arrivavano, andavano a finire in filatura, non per
discriminazione, perché erano veneti o non veneti, ma quasi per
tradizione, c'era questa esigenza [...]"27.
"La Valsessera raccolse anche le emigrazioni che vennero
dalla bassa Novarese, dalla bassa Vercellese, raccolse anche la
parte specializzata del Pratese, delle fabbriche di Schio:
Marzotto, Valdagno, Schio [...] quindi manodopera estremamente
qualificata che si trasferì nel Biellese dove l'industria laniera
allora, fine anni venti inizio trenta; viveva una grande
espansione [...]"28.
Come si coglie da queste testimonianze e come si mostrerà nelle
successive pagine, questa parte di Piemonte attrasse più di altre
i flussi provenienti dal Veneto grazie alla presenza del settore
laniero. Sarà dunque interessante descrivere la zona, in modo da
poter fare un confronto con le terre di provenienza degli
immigrati e per far capire che paesaggio trovarono al loro arrivo,
segnalando anche le conseguenze ancora evidenti sulla geografia
del territorio, dovute alle necessità degli impianti e dei nuovi
lavoratori.
Il territorio biellese
Prima di tutto, come si è fatto per il Piemonte in generale,
bisogna ricordare che anche il Biellese fu coinvolto negli esodi
di massa che sconvolsero l'Europa durante il Novecento. Fu un
fenomeno legato all'economia e segnato sin dai tempi remoti dagli
squilibri tra risorse e bocche da sfamare, in particolar modo
sulle montagne. Ma una peculiarità caratterizzava i suoi
emigranti: le capacità professionali che permisero a molti
biellesi di diventare imprenditori nei luoghi in cui si
trasferirono.
Come nel resto d'Italia, in piena rivoluzione industriale,
l'emigrazione raggiunse livelli molto elevati, garantendo perciò
il rientro di denaro sotto forma di rimesse. Secondo una stima
fatta da Quintino Sella, negli anni sessanta dell'Ottocento, esse
raggiunsero le 600.000 lire annue29,
pari al prodotto netto del settore agricolo.
Tra il 1901 e il 1911 i casi di emigrazione da quest'area furono
52.262 ed il fenomeno fu intenso nella valle del Cervo, priva di
attività industriali, e nel sistema agricolo collinare del
Biellese orientale; invece nelle vallate dove meglio si insediò
l'industria, come la Valsessera, molti partirono perché poco
inclini ad entrare nel sistema della fabbrica, un passaggio non
sempre facile da compiere.
Quei momenti difficili non costituirono comunque un freno per il
progresso nelle vallate laniere, che seppero a loro volta
trasformarsi in bacini di richiamo per la manodopera disponibile30.
Nonostante una scarsa estensione, la mancanza di vie di
comunicazione, la povertà del suolo e la presenza delle montagne
sul 75 per cento del territorio, il Biellese divenne il centro
industriale tessile di primaria importanza che oggi tutti
conoscono. Rappresentava un'area privilegiata grazie alla presenza
di alcuni fattori che ne favorirono il decollo, tra cui bisogna
ricordare la disponibilità di risorse essenziali e l'abbondanza
di fattori imprenditoriali, di manodopera e di intraprendenza.
I biellesi erano instancabili lavoratori; un tempo contadini poi
piccoli commercianti, seppero trasformarsi in ottimi industriali,
innalzando ad alti livelli un'attività presente da tempi remoti e
nata per necessità. Infatti la storia del tessile in quest'area
ha radici profonde, che risalgono sino al Medio Evo: ad esempio
nel 1310 i tessitori emanarono lo statuto della loro corporazione
disciplinando un'attività che risaliva ad anni ancor più
lontani. Certo allora il Biellese non era ancora competitivo, sia
per il suo isolamento sia per la sua marginalità politica, che lo
penalizzò rispetto ad altri centri. Inoltre la produzione laniera
si limitava ancora a panni grossolani, richiesti soprattutto dalle
classi popolari. Quando però Biella si inserì nell'orbita dei
Savoia, si ampliò il mercato nell'area francese e verso i porti
liguri, accrescendo progressivamente la produzione31.
Fu così che in età moderna il Piemonte poté sviluppare una
fiorente attività laniera, concentrata proprio grazie al Biellese,
che nonostante l'infelice posizione divenne uno dei centri europei
della lana.
In seguito, a fasi alterne, alcune aziende giunsero, ai tempi
dell'unificazione nazionale, ad un alto livello di sviluppo,
partecipando con i loro prodotti alle esposizioni internazionali
che si svolgevano a Londra, Parigi e Vienna. Negli anni di maggior
fervore ci furono anche iniziative di grande spirito innovativo,
come la Scuola professionale fondata da Quintino Sella, con lo
scopo di preparare validi tecnici, o ancora la Società di mutuo
soccorso dei tessitori, istituita a Croce Mosso già nel 1873 e
gestita totalmente da operai32.
L'epoca fino al secondo decennio del Novecento fu particolarmente
buona e gli operai passarono dai 31.000 del primo Ottocento a
65.000. Con la prima guerra mondiale crebbe la produzione dei
panni destinati alle truppe e i 400.000 metri annui prodotti negli
anni di pace aumentarono di novanta volte, due terzi dei quali
venivano prodotti nel solo Biellese. Erano chilometri di panno
grigio-verde e di flanella, cui si sommarono le forniture per le
coperte e le maglie. Il profitto salì, con tassi che oscillavano
da un minimo dell'1,24 per cento a un massimo del 18,74 per cento33.
Nel dopoguerra le industrie locali furono pronte ad adeguarsi alle
nuove esigenze, anche se non poterono comunque assorbire tutta la
manodopera disoccupata generata dalla chiusura di aziende di altri
settori che patirono maggiormente le vicende del conflitto.
Anche durante gli anni del fascismo, che come si è detto non
furono facili, le vallate biellesi ressero bene, tanto da poter
rilanciare già nel 1928 l'esportazione. Addirittura il numero
delle fabbriche era aumentato, passando dalle 177 del 1914 alle
760 del 192634.
La seconda guerra mondiale fu superata con altrettanto successo,
nonostante le maggiori perdite umane; infatti in quest'area gli
impianti erano rimasti illesi e non c'erano problemi di energia
elettrica come altrove. La manovalanza era disponibile in misura
abbondante e anche il lavoro non tardò ad arrivare, specialmente
dagli stranieri. Dunque, nella fase della ricostruzione, Biella
accrebbe la propria solidità e nel 1952, su 43.000 abitanti
23.500 erano occupati in quel settore: il 54 per cento della
popolazione35.
La presenza di abili imprenditori36
e di una lunga tradizione non sono sufficienti a spiegare il
successo del Biellese. Alcuni fattori di localizzazione furono
infatti determinanti per lo sviluppo delle vallate laniere
coinvolte in seguito dagli spostamenti migratori. L'industria
tessile richiedeva manodopera disponibile, che qui era in
eccedenza a causa dell'esodo dalle campagne, dove l'agricoltura
non era più sufficiente a sfamare la popolazione. Ancora più
importante era però la presenza di risorse fisiche indispensabili
nel ciclo produttivo.
Le fabbriche, dove si concentravano materie prime, uomini e
macchine, avevano vincoli evidenti dipendendo dalle fonti di
energia; per questo nel Biellese i primi lanifici sorsero dove
c'erano corsi d'acqua ripidi, che fornivano l'energia necessaria
attraverso sistemi di ruote ed alberi di trasmissione, utilizzati
per mettere in movimento le macchine.
Tutto ciò in quest'area del Piemonte era disponibile. Il Biellese
infatti comprendeva il territorio a sud del Monte Rosa, tra la
Valsesia e la Valle d'Aosta, aperto ad oriente verso la pianura di
Vercelli e di Novara. Pur avendo un suolo montuoso, era
caratterizzato da vallate che si ramificavano tra le catene di
monti principali e quelle secondarie, attraversate da corsi
d'acqua che ad esse davano il nome: Sessera, Strona, Cervo, Oropa
ed Elvo, dove sorsero i più importanti paesi industriali, come
Coggiola, Pray, Strona, Trivero, Valle Mosso, Mosso Santa Maria e
Veglio Mosso37.
Sulla riva sinistra del Cervo, il fiume che attraversa Biella,
c'era ad esempio il complesso delle Manifatture biellesi, i cui
edifici sorsero direttamente sulle sponde rocciose. Solo più
tardi, con l'adozione della forza del vapore prima, e
dell'elettricità poi, le aziende si spostarono progressivamente
verso la pianura38.
Quando l'industria si svincolò dall'energia idraulica si
verificarono due fattori contrastanti: alcune fabbriche scesero
nelle valli più basse o nei centri di nuova industrializzazione (Cossato
e Vigliano), generando la cosiddetta "pianurizzazione";
altre imprese, invece, risalirono in centri per tradizione
lanieri, come Trivero, che divenne il secondo centro del Biellese39.
Un caso particolare di localizzazione era quello della valle del
Ponzone, in ritardo rispetto alle altre vallate a causa del
pessimo collegamento col territorio circostante e per la mancanza
di mulini, che spesso erano stati i predecessori degli opifici.
Anche in questo caso giocò un ruolo decisivo la presenza
dell'acqua, che attirò gli interessi degli industriali che vi
costruirono vicino i loro stabilimenti, generando anche in questi
luoghi buone opportunità di lavoro.
In merito all'arrivo di forestieri non si può trascurare un'altra
importante vallata tessile: la Valsessera, lunga una decina di
chilometri e comprendente otto comuni (Crevacuore, Coggiola e Pray
sono i principali, seguiti da Portula, Guardabosone, Postua,
Ailoche e Caprile). L'accesso principale collega la Valsessera a
Serravalle Sesia e Borgosesia, altri importanti centri del settore
industriale, mentre attraverso valli laterali si accede a quelle
di Ponzone e Mosso, dense di filature e lanifici.
Il torrente Sessera fu la ragione primaria della presenza
industriale: gli Ubertalli e i Bozzalla, cercando energia, scesero
in questa vallata insediandovi, già nella seconda metà
dell'Ottocento i loro stabilimenti. Essi all'inizio erano
addensati nella parte più alta della valle - nel territorio di
Coggiola - ma con il progresso tecnologico poterono espandersi
verso i comuni di Pray e Crevacuore. Fu così che la Valsessera
poté vantare numerosi lanifici: a Masseranga, fino al 1970, c'era
la Bozzalla & Lesna; scendendo si trovava il lanificio
Fratelli Fila, sulle due sponde del torrente, che negli anni
sessanta aveva ben seicento dipendenti (era una delle aziende
maggiori con prodotti di alta qualità); tra Coggiola e Pray c'era
la fabbrica Bruno Ventre & Bardella; a Zuccaro la tintoria
Bollo.
Pray, negli anni del boom economico, divenne un centro
importante, dove erano attivi molti lanifici: Giovanni Tonella,
Adolfo Trabaldo, Fratelli Trabaldo di Pianceri, Lora Totino,
Filatura di Pray e Zignone. Crevacuore invece era sede della
Bozzalla fu Federico e della filatura Diana, oltre che di attività
extra tessili, come le due cartiere e il salumificio40.
I segni sul territorio
Gli indici di concentrazione industriale relativi agli anni 1887 e
1911 documentano una forte tendenza di rafforzamento del sistema
industriale biellese, rendendo questa zona il centro propulsivo
dell'industria laniera. "Il processo spaziale si manifesta in
modi differenziati, che vanno dalla tonificazione di aree laniere
tradizionali (valle Elvo, bassa valle Cervo, valle Strona) al
forte sviluppo della valle Sessera, mentre si delinea nell'asse
Chiavazza-Vigliano- Cossato una catena di nuove
localizzazioni"41.
Nonostante numerose inondazioni dei corsi d'acqua avessero
devastato alcune fabbriche tessili, di cui oggi sono visibili le
rovine, molti elementi testimoniano il forte impatto che lo
sviluppo industriale ebbe sul territorio. Quando giunsero in
questa zona, probabilmente, gli stessi emigrati furono spaesati
alla vista di tutte quelle ciminiere. Erano i segni di un'attività
produttiva.
La presenza degli stabilimenti costituiva la prova più evidente,
intorno alla quale sorsero poi altre strutture. L'archeologia
industriale (disciplina che studia i resti fisici del mondo della
produzione industriale) si è sin dall'inizio interessata agli
opifici del Biellese.
I primi furono costruiti con le materie prime presenti sul
territorio: pietra e legno, scelti fino agli anni sessanta
soprattutto per fattori economici. Mancavano di ricercatezza
figurativa e spesso non erano neanche rifiniti.
Durante il XIX secolo il modello più seguito fu quello delle
fabbriche a più piani, a causa del sistema di distribuzione
dell'energia idrica, cui erano legate anche le dimensioni
dell'edificio stesso42.
La verticalità fu abbandonata con l'introduzione dell'energia
elettrica: non solo le aziende poterono essere costruite lontane
dai torrenti, ma la localizzazione in zone pianeggianti consentì
anche lo sviluppo orizzontale. Il caso più tipico fu allora
quello delle grandi fabbriche a shed, capannoni spesso
costruiti ai confini degli insediamenti abitativi, che
testimoniavano "il processo economico e sociale che ha fatto
di questa zona (per tutto l'Ottocento e buona parte del Novecento)
lo York Shire d'Italia"43.
Allo stesso tempo venne introdotto l'uso del cemento armato, con
un migliore sfruttamento degli edifici e una maggiore
illuminazione. Tutto ciò mutò sensibilmente l'ambiente di
lavoro, in cui furono impiegate le masse provenienti dalle zone più
arretrate.
Ma altri segni modificarono il territorio, legati alle esigenze
del mondo industriale e dei suoi uomini. Canali e opere pubbliche
vennero costruiti per facilitare il processo di produzione, come
dimostra la presenza di chiuse, dighe e impianti di regolazione
(legati ancora una volta al bisogno di energia idrica)44.
Importante fu anche la costruzione di linee ferroviarie, che
facilitarono lo sviluppo tessile. Il Biellese sarebbe stata
un'area isolata se non fossero state aperte importanti vie di
comunicazione, a partire dal 1854 con l'inaugurazione della
ferrovia Biella-Santhià che collegava la città con Torino e
Genova. Seguirono nel 1882 la tramvia Biella-Cossato, nel 1890 la
tramvia Biella-Vercelli, nel 1891 la ferrovia Biella-Valle Mosso,
la Biella-Mongrando e la Biella-Balma. Gli industriali della
Valsessera promossero inoltre la costruzione del tratto che dal
1901 avrebbe collegato Coggiola e Grignasco, passando per Pray,
Crevacuore, Bornate e Serravalle Sesia e allacciandosi oltre il
fiume Sesia alla linea Novara-Varallo45.
Migliorò anche il sistema stradale, quasi inesistente agli albori
dell'industrializzazione. Infatti Biella e gli altri centri erano
collegati a Torino solo da antiche mulattiere, mal tenute e
interrotte da corsi d'acqua da attraversare a guado. Se da una
parte questo poteva salvaguardare la produzione locale dalla
concorrenza esterna, gli imprenditori compresero la necessità di
costruire strade carrozzabili. Anzi il miglioramento qualitativo
dei prodotti tessili e la progressiva importanza dell'esportazione
di manufatti rese le vie di comunicazione fattori privilegiati di
localizzazione per le fabbriche.
Infrastrutture e stabilimenti facilitarono i cicli produttivi e
l'insediamento di operai nei centri principali. La manodopera
necessitava però, oltre ad ambienti di lavoro all'avanguardia, di
case disponibili nei pressi delle fabbriche; un problema
affrontato dagli stessi imprenditori e che lasciò, come gli
elementi sopra descritti, segni tangibili sul territorio.
Nella seconda metà del XIX secolo, in Italia, furono costruiti
diversi villaggi operai, di cui gli esempi più significativi
erano a Schio (Vicenza), Crespi (Bergamo) e Collegno (Torino).
Alle loro spalle si celavano utopie dell'Ottocento che volevano
risolvere le drammatiche condizioni delle città industriali,
attraverso l'applicazione di un nuovo modello produttivo, sociale
e urbanistico46.
Le teorie che si diffusero a tal proposito in Europa furono però
mutate nella pratica: gli industriali che promossero la
costruzione di villaggi operai, infatti, non ricercavano il
benessere dei loro dipendenti, ma piuttosto l'organizzazione
razionale, vantaggiosa e produttiva che ne sarebbe derivata. Si
trattava di vere e proprie comunità chiuse, microcosmi
autosufficienti che ruotavano intorno alla fabbrica e che creavano
così un forte legame tra essa e gli operai, tenuti più
facilmente lontani dalle idee sovversive che spesso si diffusero
nelle grandi città.
In Piemonte sorse la Borgata Leumann, a una decina di chilometri
da Torino, con cinquantanove villini e case costruiti tra il 1877
e il 1906, progettati da Pietro Fenoglio, con una varietà di
forme e di effetti decorativi. C'erano ben otto modelli di casa
operaia, con due o quattro alloggi isolati, abbinati o in fila
lungo intere vie 47.
Nel Biellese questi modelli non ebbero un particolare sviluppo
poiché gran parte della manodopera era del posto. Ma ci furono
comunque eccezioni, come il Villaggio Poma a Miagliano. In seguito
ai flussi immigratori però anche gli imprenditori biellesi
dovettero affrontare la questione con conseguenze nell'edilizia
sociale: essi costruirono soprattutto servizi (scuole, asili e
negozi), come accadde a Trivero nel Centro Zegna, costruito tra le
due guerre mondiali per la necessità di legare gli operai alla
fabbrica, evitando che abbandonassero così il paese per recarsi
nei nuovi centri produttivi48.
Ciononostante l'esperienza delle case operaie costituì una prova
per le scelte costruttive e le tipologie architettoniche in
seguito applicate su vasta scala. Il problema delle abitazioni
restava drammatico, soprattutto nelle grandi città che non erano
pronte ad accogliere le nuove concentrazioni di manodopera. Come
conseguenze di tali spostamenti nacquero allora numerose imprese
edilizie: esse dovevano costruire abitazioni, sane e comode, che
rispondessero ai criteri di moralità spesso trascurati. Il numero
degli ambienti doveva essere adeguato alla composizione
famigliare, alle norme igieniche, di riscaldamento e di
ventilazione49.
Le imprese di costruzione sorte per dare case agli immigrati,
giunti in cerca di lavoro, a loro volta offrirono quindi domanda
di manovalanza.
In alcuni casi il modello delle casette fu sostituito da
"casermoni" a più piani, con numerosi alloggi e
destinati a più famiglie. Essi sorsero sia nei grossi centri,
dove il costo del suolo era troppo elevato per erigere casette
operaie con giardino, sia in quelli minori diffusi in tutta la
zona biellese, ad esempio Pray e Coggiola.
A villaggi e quartieri operai si contrapponevano poi le signorili
ville padronali, che ancora oggi si distinguono nei vari paesi;
spesso erano edificate in posizioni dominanti rispetto alle altre
abitazioni (come la villa di Serafino Trabaldo a Pray) o
all'azienda. È evidente che anche la geografia urbana
sottolineava le gerarchie sociali e i rapporti di forza tra i
nuovi industriali e i loro dipendenti.
Il patronato
Il fatto che la maggior parte degli imprenditori biellesi avesse
cercato di venire incontro alle esigenze delle classi operaie
potrebbe essere interpretato come una manifestazione di
filantropia. Non si trattava in realtà di un amore reale quanto,
piuttosto, dell'opportunità di migliorare le loro condizioni di
vita, in modo da legare a sé le masse operaie, incrementando il
loro attaccamento al lavoro e la produttività.
Il Biellese si caratterizzava per la presenza di una classe
imprenditoriale lungimirante. Con lo sviluppo del Novecento gli
industriali svolsero il loro ruolo nella contrapposizione di
classe per ottenere il maggior profitto e aumentare la capacità
produttiva. Il controllo degli uomini aveva la stessa importanza
della disponibilità di risorse materiali. Da queste basi comuni
si formarono varie tipologie di industriali, ben identificati da
Marco Neiretti e Giovanni Vachino.
Il primo caso era quello degli industriali di origine
manifatturiera, organizzati in complessi parentali; il secondo era
costituito da industriali di origine più recente che avviarono
attività dopo l'esperienza nelle vecchie manifatture. Infine gli
industriali provenienti dal ceto operaio, che avevano saputo
creare imprese nuove50.
Indipendentemente dalla tipologia, tutti vivevano direttamente la
vita della fabbrica, impegnandosi in prima persona nei diversi
ambiti, dalla direzione alle applicazioni tecniche fino al
commercio dei manufatti. La loro vita era condizionata dal lavoro,
così come quella degli operai. Se avevano fabbriche di piccole o
medie dimensioni, svolgevano al loro interno diverse mansioni (si
occupavano del funzionamento tecnico e della vendita dei
prodotti). La famiglia industriale poteva contare su tutti i
membri, che si dividevano i compiti. Alcuni vivevano presso gli
stabilimenti e in genere costituivano una figura molto presente
sul lavoro, che gli operai rispettavano e a cui facevano
riferimento. Erano gli anni delle "famiglie-azienda", in
cui i vincoli di solidarietà sostituivano i vecchi equilibri
sociali, resi fragili dai cambiamenti portati dallo sviluppo e dal
nuovo mondo lavorativo51.
Ai dipendenti furono così offerti standard di vita - relativi ad
abitazioni, salute, educazione e divertimento - migliori rispetto
alle condizioni di partenza. Nei villaggi gli industriali
assunsero il ruolo mitico del "padre fondatore" cui era
affidata non solo l'organizzazione del lavoro, bensì anche quella
della vita privata.
La gente che giungeva nelle vallate tessili dal mondo rurale entrò
in un ambiente sconosciuto, creato proprio dagli industriali e
dalle istituzioni con lo scopo di soddisfare i bisogni primari e
rimuovere i malesseri sociali. Questo intenso legame tra le
aziende e le necessità dei dipendenti era esplicito nella
presenza dei convitti operai, costruiti per ospitare le maestranze
vicino ai luoghi di lavoro, se non addirittura all'interno della
loro cinta muraria. Tra i diversi casi si può ricordare ancora
una volta il Villaggio Leumann di Collegno, dove sorse un convitto
nel 1906, o la Manifattura di Aranco, dove furono resi disponibili
trecentoventi posti letto52.
La soluzione dei convitti era già stata anticipata in talune
aziende agricole in cui erano stati allestiti stanzoni destinati
ai lavoratori stagionali, così come erano stati riservati
ambienti per i servitori dei complessi signorili.
Oltre alle abitazioni, ma sempre in relazione alla presenza
industriale e ai bisogni degli operai, si pose la questione degli
altri servizi. Si diffusero in quegli anni i luoghi di scambio e
di consumo dei prodotti, come i mercati coperti, che
caratterizzarono molte città italiane con edifici ampi, spesso in
ferro e vetro, molto simili alle stazioni ferroviarie. Il mercato
coperto di Torino risale al 191153.
Inoltre molti imprenditori fecero costruire asili infantili,
scuole, ambulatori, refettori, lavatoi, bagni pubblici, palestre,
teatri e magazzini alimentari54.
Non ci furono solo le iniziative a favore del proletariato. Nel
Biellese si assiste ad un'organizzazione efficace degli
imprenditori: inizialmente con società costituite per difendere i
loro interessi, affermandoli nei confronti della concorrenza
straniera e degli operai. Al 1900 risale la Lega industriale
biellese, che riuniva tutti gli industriali del circondario,
tessili e non.
Dopo la guerra mondiale le organizzazioni padronali si riunirono
nella Federazione industriale biellese, con sede a Biella e a cui
fecero riferimento le aziende del territorio. Particolarmente
rilevante per il settore tessile fu però l'Associazione
dell'industria laniera italiana, fondata nel 1877 per favorire
questa categoria e il cui presidente fu Alessandro Rossi, celebre
industriale di Schio. Sebbene la guida dell'organizzazione fosse
poi passata a personaggi locali (Serafino Vercellone, Edmondo
Boggio, Pietro Ubertalli, Silvio Mosca e Corradino Sella) il
legame tra Biellese e Vicentino ne fu comunque influenzato55.
La cultura del lavoro nel Biellese
Le persone giunte con le ondate migratorie che sconvolsero
l'assetto del Biellese dovettero confrontarsi con i lavoratori che
qui erano nati e cresciuti, i quali avevano una cultura e un
atteggiamento verso il lavoro in fabbrica completamente diversi
rispetto ai primi56.
Si vuole ora meglio illuminare l'ambiente in cui gli immigrati
avrebbero dovuto inserirsi. Il tessile qui aveva radici profonde e
l'avvento del sistema fabbrica fu repentino, se confrontato con le
aree meno sviluppate d'Italia. Gli operai locali si erano trovati
nella condizione di assumere una coscienza di classe molto forte,
che trovò spazio attraverso il movimento operaio.
Il passaggio dal mondo agricolo a quello industriale avvenne
nell'arco di due generazioni, contrapponendo alla vecchia
struttura sociale, basata sulla famiglia, una nuova organizzazione
che aveva come riferimento la fabbrica57.
La prima, che era sempre stata di tipo patriarcale, si ridusse
progressivamente di numero di componenti, diventando mononucleare
nella maggior parte dei casi. Al suo interno le donne si fecero
spazio, vedendo aumentare le loro responsabilità e, soprattutto,
il loro contributo al bilancio domestico. I giovani invece
abbandonavano sempre più precocemente la casa dei genitori,
cambiando anche residenza per avvicinarsi al lavoro. Crebbe anche
la loro preparazione grazie alla diffusione di scuole e corsi
tecnici, svolti spesso alla sera per facilitare chi già lavorava.
Gli operai cominciarono a frequentare biblioteche, a leggere il
giornale e ad impegnarsi in attività come quella delle bande
musicali. Proprio queste ultime furono un tipico elemento della
cultura di massa, che riproponeva la musica colta, rivisitata,
richiamando i valori locali. Le bande dunque dovevano "dare
spazio alla permanenza di elementi folklorici e tradizionali
contrapposti alle novità omologate della modernità. Alternativa
nel senso del mantenimento di una sia pur larvata, istintiva,
coscienza di classe"58.
Mobilità territoriale quindi, ma anche vivacità culturale, con
l'adattamento della mentalità ai nuovi standard di vita, tanto
lontani da quelli rurali da richiedere un consapevole processo di
acculturazione. Gli industriali seppero tenere il passo con lo
sviluppo dei maggiori centri europei e i loro dipendenti non
furono da meno59.
Nel Biellese quasi tutti lavoravano in fabbrica, anche donne e
bambini (impiegati già nei primi laboratori con gravi conseguenze
sulla loro salute). Le condizioni a cui dovettero adeguarsi erano
molto dure e non mancavano infortuni o malattie legate ai mestieri
svolti60.
I locali in cui si lavorava erano spesso malsani, innanzitutto a
causa dell'umidità arrecata dai vicini torrenti, oltre al freddo
e alla cattiva illuminazione. A ciò bisogna poi aggiungere i
rumori causati dai macchinari, gli odori dei prodotti usati in
tintoria, i pericoli delle cinghie di trasmissione, le polveri
dannose che impregnavano l'aria. Le persone si ammassavano per
ore, stremate, e i più deboli persero la salute, con
malformazioni e stanchezza eccessiva.
La qualità della vita, oltre ad essere scarsa nell'ambiente di
lavoro, era scadente anche nel contesto esterno: l'alimentazione
era insufficiente, le case malsane, l'assistenza medica scarsa e
l'alcoolismo diffuso.
Le donne lavoravano nelle produzioni tessili, svolgendo anche
mansioni pesanti, in turni di notte e con ritmi che potevano
superare le 12-14 ore giornaliere. Senza dimenticare che la loro
manovalanza era pagata meno rispetto a quella maschile, nonostante
(specie con l'introduzione del telaio meccanico) svolgessero le
stesse mansioni che un tempo erano riservate agli uomini.
Anche i minori erano sfruttati, con casi estremi di bambini di
sette e otto anni: negli anni ottanta dell'Ottocento il lavoro
minorile copriva il 15 per cento dell'intera occupazione ed era
concentrato proprio nei lanifici61.
In seguito al precoce inserimento di quasi tutta la popolazione
biellese nelle fabbriche, a causa dei migliori guadagni che esse
garantivano alle famiglie, si poté cominciare ben presto a
parlare dell'esistenza di un vero e proprio proletariato, che con
l'arrivo degli immigrati aumentò ulteriormente la consapevolezza
come classe sociale. Il Biellese fu anzi una specie di banco di
prova per l'industria italiana, dove si posero per la prima volta
i problemi e i malesseri tipici dell'industria moderna accentrata62.
In un simile contesto gli operai cominciarono a riunirsi per
migliorare la loro condizione e le donne svolsero in molti episodi
un ruolo attivo.
Nel 1886 il Biellese contava sessantaquattro società di mutuo
soccorso, attive nei comuni dell'intera area e specialmente in
quelli a carattere industriale. Erano composte da lavoratori
appartenenti ai diversi settori di occupazione (operai, contadini,
artigiani e industriali).
Anche l'ambiente politico fu coinvolto dai movimenti delle classi
proletarie, in particolare con la fondazione del Partito
socialista - nel 1892 - e della Camera del lavoro di Biella, nel
1901. A quest'ultima aderivano le leghe operaie attive da qualche
anno nelle valli Strona e Ponzone, in Valsessera e la Lega tessile
biellese63.
Lo sciopero fu lo strumento principale per esprimere i conflitti e
le richieste, con le astensioni dal lavoro di gruppi coordinati.
Nel Biellese si potevano distinguere due tipi di sciopero: uno per
la difesa delle prerogative di mestiere dei tessitori, con grandi
scontri sui regolamenti di fabbrica; il secondo per farsi invece
riconoscere alcuni elementari diritti. In seguito alle agitazioni
del 1863, il Biellese fu sotto gli occhi dell'intera nazione. Fu
allora che venne concesso uno schema di regolamento di fabbrica.
Si trattava di un contratto collettivo, che fissava alcune regole
che avrebbero dovuto rispettare sia gli operai sia gli
imprenditori; furono allora stabilite anche delle penali, da
pagare in caso di ritardo, assenza, danni alle attrezzature e ai
prodotti.
Non mancarono inoltre episodi sfociati nella violenza, come ad
esempio a Valle Mosso, nel 1877, dove ci fu la mobilitazione
dell'esercito e per cui intervenne anche Quintino Sella, evitando
una dura repressione poliziesca64.
Nel corso dei primi anni del Novecento gli scioperi continuarono,
coordinati su tutto il territorio e in valle Strona e Valsessera,
dove c'erano comunque buone condizioni salariali, ripresero anche
con la guerra, fino a ottenere un miglioramento dei salari e delle
normative.
Un'ultima conseguenza del processo di industrializzazione è la
diffusione dell'anticlericalismo. Tenendo presente la religiosità
molto forte dei veneti, si coglie facilmente la differenza tra gli
ambienti delle due regioni. Nel Biellese le masse operaie si
scristianizzarono: aumentarono sensibilmente i casi di matrimoni e
funerali civili, gli industriali smisero di legare la loro
beneficenza alla Chiesa, entrando addirittura in conflitto con
essa per il lavoro nei giorni festivi.
(1- continua)
Note
|
* Saggio tratto dalla tesi di
laurea Da un Nord all'altro. Aspetti, problemi, vite
vissute dell'emigrazione veneta nel Biellese del Novecento,
Università del Piemonte orientale, Facoltà di Lettere e
Filosofia, a. a. 2001-2002, relatore prof. Claudio Rosso.
1 Delisio Villa (a cura di), La
valigia dell'emigrante. L'emigrazione nell'area bassanese da
Asiago alla Valsugana, da Marostica alla Pedemontana del
Grappa, da Breganze a Sondrigo e Castelfanco, Vicenza,
La Valigia, 1999, p. 88.
2 Paola Corti - Chiara Ottaviano
(a cura di), Fumne. Storie di donne, storie di Biella,
Torino, Cliomedia, 1999, p. 140.
3 Si veda Simone Cinotto (a cura
di), Colture e culture del riso: una prospettiva storica,
Vercelli, Mercurio, 2002.
4 Per una panoramica divulgativa
ma fondamentale, su solida base documentaria, si può vedere
Gian Antonio Stella, L'orda. Quando gli albanesi eravamo
noi, Milano, Rizzoli, 2002.
5 Matteo Sanfilippo, Tipologie
dell'emigrazione di massa, in Piero Bevilacqua -
Andreina De Clementi - Emilio Franzina (a cura di), Storia
dell'emigrazione italiana. Partenze, Roma, Donzelli,
2001, pp. 79-84.
6 Valerio Castronovo, Una
nuova realtà umana e sociale, in V. Castronovo (a cura
di), Storia d'italia per regioni. Il Piemonte, Torino,
Einaudi, 1978, pp. 613-619; cfr. inoltre Pietro Francardi, I
pascoli nei comuni montani del Piemonte, Torino, Camera
di commercio industria e agricoltura di Torino, 1958.
7 V. Castronovo, op. cit.,
pp. 619-632.
8 Idem, p. 615.
9 Stefano Musso, Il lungo
miracolo economico. Industria, economia e società
(1950-1970), in Nicola Tranfaglia (a cura di), Storia
di Torino, Torino, Einaudi, 1999, p. 75.
10 V. Castronovo, op. cit,
pp. 646-654.
11 Per ulteriori approfondimenti
cfr. Adriano Olivetti, Appunti per la storia di una
fabbrica, in "Il Ponte", a. V,
n. 8-9, agosto-settembre 1949.
12 Aa. Vv., I nuovi
immigrati, in Aa. Vv., L'Italia delle regioni,
Milano, Touring club italiano, 1997, p. 31.
13 Sulla nascita e lo sviluppo
dell'industria tessile si vedano ad esempio Giuseppe
Venanzio Sella, Notizie sull'industria laniera, in
"Stella d'Italia", 7 settembre 1863;
Vincenzo Ormezzano, Il Biellese ed il suo sviluppo
industriale, Varallo, Unione tipografica valsesiana,
1929.
14 Sullo sviluppo delle piccole
imprese cfr. V. Castronovo, op. cit., pp. 633-638.
15 Monica Bassotto Paltò, Donne
e lavoro. Industria e immigrazione nel Biellese
(1900-1930), in "l'impegno", a. XVIII, n. 2,
agosto 1998, p. 1.
16 Vera Zamagni, Dalla
periferia al centro, Bologna, Il Mulino, 1990, p. 325 e
cfr. S. Lombardini, La grande crisi in Italia, politica
od economica?, in "Rivista milanese di
economia", n. 21, 1987.
17 Teresio Gamaccio, L'industria
laniera fra espansionismo e grande crisi. Imprenditori,
sindacato fascista e operai nel Biellese (1926-1933),
Borgosesia, Isrsc Vc, 1990, pp. 2-3.
18 S. Musso, op. cit.,
pp. 54-58.
19 V. Castronovo, op. cit.,
p. 655.
20 Sergio Soave, Socialisti e
comunisti nelle campagne piemontesi dalla guerra all'avvento
del fascismo, in Aldo Agosti - Gian Mario Bravo (a cura
di), Storia del movimento operaio, del socialismo e delle
lotte sociali in Piemonte, Bari, De Donato, 1980, pp.
89-105.
21 Si veda ad esempio Arnaldo
Colombo, Le mondariso nel ventennio fascista, in
Patrizia Dongilli (a cura di), Aspetti della storia della
provincia di Vercelli tra le due guerre mondiali,
Borgosesia, Isrsc Vc, 1993.
22 Per uno studio specifico cfr.
S. Cinotto (a cura di), op. cit.
23 A. Colombo, op. cit.
24 Silvana Patriarca, Un'analisi
di microstoria. Famiglie contadine a Gattinara nel '900,
in "l'impegno", a. I, n. 1, dicembre 1981 e a. II,
n. 1, marzo 1982.
25 Archivio di deposito del
Comune di Gattinara, cat. XI, classe I, fasc. 25.
26 Archivio di deposito del
Comune di Gattinara, cat. XII, classe I, fasc. 8.
27 Intervista a Giovanni Ronzani,
in Alberto Lovatto, L'ordito e la trama. Frammenti di
memorie su lotte e lavoro dei tessili in Valsessera negli
ultimi cinquant'anni, Genova, La clessidra; Borgosesia,
Cgil Valsesia-Isrsc Vc, 1995, p. 39.
28 Intervista a Angelo Togna, in
idem, p. 40.
29 Marco Neiretti - Giovanni
Vachino (a cura di), La lana e le pietre. Il Biellese
nell'archeologia industriale. Le Valli orientali,
Biella, Città Studi, 1987, p. 18.
30 Sullo sviluppo industriale
cfr. Franco Ramella, Terra e telai, sistemi di parentela
e manifattura nel Biellese dell'Ottocento, Torino,
Einaudi, 1984.
31 Jas Gawronski, Bozzalla
& Lesna storia di uomini, Milano, Dragan & Bush,
1987, p. 9.
32 M. Neiretti - G. Vachino, op.
cit., p. 102.
33 J. Gawronski, op. cit.,
p. 65.
34 Idem, p. 80.
35 Sull'occupazione nelle
industrie si veda Claudio Dellavalle, La classe operaia
piemontese nella guerra di liberazione, in A. Agosti -
G. M. Bravo (a cura di), op. cit., p. 304.
36 Per approfondimenti sulla
mentalità imprenditoriale cfr. ad esempio Guido Quazza, L'industria
laniera e cotoniera in Piemonte dal 1831 al 1861,
Torino, Istituto per la storia del Risorgimento italiano,
1961.
37 T. Gamaccio, op. cit.,
p. 1.
38 Antonello Negri - Massimo
Negri, Elementi del paesaggio industriale, in Lucio
Gambi (a cura di), Campagna e industria i segni del
lavoro, Milano, Touring club italiano, 1981, p. 139.
39 M. Neiretti - G. Vachino (a
cura di), op. cit., p. 30.
40 A. Lovatto, op. cit.,
pp. 5-10.
41 M. Neiretti - G. Vachino (a
cura di), op. cit., p. 76.
42 Idem, p. 142.
43 A. Negri - M. Negri, op.
cit., p. 139.
44 Idem, pp. 182-183.
45 M. Neiretti - G. Vachino (a
cura di), op. cit., p. 86.
46 A. Negri - M. Negri, op.
cit., pp. 164-176.
47 Si vedano inoltre M. Leva
Pistoi - M. Mantelli - L. Palmucci Quaglino, L'ambiente
storico. Archeologia industriale in Piemonte, Torino,
Tirrenia Stampatori, 1979; A. Abriani - F. Barbieri - R.
Bossogria, Villaggi operai in Italia. La Val
Padana e Crespi d'Adda, Torino, Einaudi, 1981.
48 M. Neiretti - G. Vachino (a
cura di), op. cit., p. 76.
49 A. Negri - M. Negri, op.
cit., p. 168.
50 Per maggiori dettagli si
vedano F. Ramella, op. cit., e G. Quazza, op. cit.
51 S. Musso, op. cit., p.
62.
52 A. Negri - M. Negri, op.
cit., pp. 172-173.
53 Si veda ad esempio Id, L'archeologia
industriale, Messina-Firenze, G. D'Anna, 1978.
54 Id, Elementi del paesaggio
industriale, cit., pp. 174-175.
55 M. Neiretti - G. Vachino (a
cura di), op. cit., p. 130.
56 Si veda inoltre S. Musso, op.
cit., pp. 63-69; cfr. Flavia Zaccone Derossi, L'inserimento
nel lavoro degli immigrati meridionali a Torino, in Cris,
Immigrazione e industria, Milano, Edizioni di
Comunità, 1962.
57 Massimo Livi Bacci, La
trasformazione demografica nelle società europee,
Torino, Loescher, 1977, p. 57.
58 A. Lovatto, Bande
musicali, fascismo, cultura popolare, cultura di massa,
in P. Dongilli (a cura di), op. cit., p. 190.
59 V. Castronovo, op. cit.,
p. 654.
60 F. Ramella, op. cit.,
p. 263.
61 M. Neiretti - G. Vachino (a
cura di), op. cit., p. 108.
62 M. Bassotto Paltò, art.
cit., p. 4.
63 Per ulteriori informazioni S.
Soave, op. cit., pp. 71-198; E. Bellomo, Settant'anni
di socialismo in terra vercellese, Vercelli, Federazione
vercellese del Psi, 1962.
64 M. Neiretti - G. Vachino (a
cura di), op. cit., p. 116.
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Maurizia Palestro
http://www.storia900bivc.it/pagine/editoria/palestro203.html
L'inserimento dei veneti nelle
vallate laniere biellesi*
"l'impegno", a.
XXIII, n. 2, dicembre 2003
© Istituto per la storia della Resistenza e della società
contemporanea nelle province di Biella e Vercelli.
È consentito l'utilizzo solo citando la fonte.
Nel saggio pubblicato sullo scorso numero si è cercato di
trattare direttamente i fattori principali relativi alle
migrazioni che hanno coinvolto il Biellese, terra d'opifici e
bacino d'accoglienza per tutti quei veneti che hanno trapiantato là
le loro famiglie, i cui discendenti ricordano le loro vicende e ne
portano i cognomi.
Studiare questi casi presenta alcune difficoltà perché le
migrazioni interne sono state a lungo trascurate dagli storici, più
interessati ai lunghi viaggi verso continenti lontani. Inoltre,
per ricostruire gli eventi dell'età contemporanea, sono
importanti le storie private, gli archivi comunali e parrocchiali,
così come le fonti orali.
Si sono quindi consultate ricerche di altri studiosi, a loro volta
fondate su materiale d'archivio. Purtroppo il tempo gioca spesso a
sfavore, cancellando fonti importanti. Ad esempio molti registri
di aziende tessili che diedero lavoro agli immigrati sono andati
perduti, magari in seguito ai cambiamenti di gestione che hanno
caratterizzato gli anni più recenti, non particolarmente felici
per molte fabbriche locali.
Senza l'opportunità di consultare questi testi la ricerca sarebbe
stata impossibile. Non solo libri però: una preziosa serie di
notizie è stata fornita dai veneti che si sono fatti
intervistare, persone anziane che hanno vissuto direttamente
l'esperienza dell'emigrazione, o i figli e nipoti che tante volte
hanno ascoltato i loro racconti.
Ciò che colpisce è la voglia, il piacere che essi provano nel
narrare la loro storia, l'orgoglio di aver saputo reagire di
fronte alle difficoltà, arrivando a condurre una vita agiata;
"erano tempi duri" è una frase che ricorre spesso, così
come la considerazione di essersi adeguati a tutti i lavori pur di
lavorare, ottenendo la riconoscenza dei padroni.
Si potrebbe paragonare ogni storia raccolta ad una
"perla": qui si è cercato di unire queste perle con un
filo, mostrando gli elementi che le accomunavano; non emergono
solamente i fattori più ovvi, quali il luogo di provenienza o il
lavoro in fabbrica che trovarono al loro arrivo, bensì anche gli
echi delle problematiche relative alle migrazioni in generale. Chi
ha eseguito analisi sui movimenti migratori si è soffermato su
alcuni aspetti importanti e che in ogni caso si ripresentano, come
i primi ostacoli da affrontare: trovare un posto di lavoro e una
casa, imparare con difficoltà la lingua, adattarsi a una cultura
diversa.
Occuparsi di spostamenti di popolazione significa studiare
trasferimenti di risorse, con riferimento alla forza-lavoro;
quindi l'uomo stesso, in questo caso, è una risorsa. Anche i
veneti che abbandonarono la loro terra per giungere in Piemonte
agirono per motivi economici, cioè alla ricerca di compensi
maggiori rispetto a quelli garantiti dal lavoro nei loro paesi.
Gli spostamenti, però, causano sempre la rottura dei vecchi
equilibri a spese della collettività. Il bisogno di assicurarsi i
beni primari, il necessario per vivere, determinava le scelte dei
diversi soggetti e i costi maggiori furono pagati dalle zone
abbandonate, che persero enormi capitali umani, soprattutto membri
delle generazioni più giovani e attive.
D'altra parte anche l'area di accoglienza subì mutamenti e ben
presto si sentì la necessità di creare o migliorare le
infrastrutture sul territorio, nonché i servizi, per accogliere
al meglio i flussi in arrivo: ad esempio i collegamenti tra Biella
e Valle Mosso, con la costruzione della ferrovia, il cui tratto
ricopriva anche le valli del Ponzone e del Sessera1.
In cambio il Biellese ricevette un nuovo apporto umano e
culturale, indispensabile per le valli chiuse e scarsamente
popolate. Non va trascurato l'arricchimento demografico assicurato
dalle giovani venete - e friulane - spesso ricordate come ragazze
particolarmente robuste, mentre quelle del posto apparivano
indebolite. Inoltre gli autoctoni poterono vedere migliorare la
loro posizione sociale, dato che gli immigrati ai loro occhi, e
specialmente durante i primi tempi, erano considerati inferiori2.
Un altro argomento che nella storia delle emigrazioni ha ricevuto
una sempre crescente attenzione e che in questo caso è
riscontrabile a tutti gli effetti, è il tasso di attività
femminile, costantemente superiore al 50 per cento della
popolazione, sia per l'influenza del lavoro a domicilio (le donne
contribuivano al bilancio familiare curando l'orto, le bestie o
utilizzando il telaio a mano), sia con l'impiego nelle industrie.
Fattori espulsivi dell'area vicentina
L'area che fornì la maggior manodopera al Biellese comprendeva
alcuni comuni del Vicentino, che vissero anni molto difficili a
causa di un'economia che non decollava e delle guerre che tanto
martoriarono quella zona3.
Ascoltando gli intervistati si scopre che fattori espulsivi erano
presenti sia nell'ambiente montano, sia in quello di pianura. I
comuni della costa meridionale dell'Altopiano, oltre ad essere
segnati dalla guerra, non conoscevano alcuno sviluppo. Le attività
erano legate all'allevamento - quasi tutti avevano la stalla con
le bestie - e al taglio del legname, i cui prodotti, oltre ad
essere consumati, erano venduti nei paesi più a valle. Ma il
guadagno era scarso e il trasporto richiedeva difficili trasferte,
soprattutto durante i mesi invernali.
Chi invece viveva più in basso, nei centri maggiori come
Marostica, Schio, Bassano e gli altri paesi del circondario,
poteva contare minimamente sull'industria, nonostante la presenza
di imprenditori all'avanguardia come Rossi e Marzotto, poiché lo
sviluppo fu abbastanza lento, incapace quindi di assorbire tutta
la manodopera locale.
Per tale motivo l'agricoltura restava un'attività di primo piano,
ma non per questo sufficiente. Spesso i contadini non erano
padroni della terra che lavoravano: vivevano in case affittate da
un signore per il quale coltivavano i campi. In cambio ricevevano
parte del raccolto, che però era soggetto alle calamità
naturali, quali carestie, parassiti o tempeste, mettendo in questi
casi a repentaglio la sussistenza dei braccianti e delle loro
famiglie.
Gli emigranti lasciarono così quei luoghi che non potevano
garantire un futuro migliore.
"Qua c'era proprio miseria, non c'era lavoro poi quando c'è
stata la guerra l'hanno sentita tanto, c'erano profughi, sfollati.
Quelli che avevano due mucche erano ricchi" (testimonianza di
Luciana Angelino).
"Mio padre e gli altri sono venuti dal Veneto quando c'era
poco lavoro [...] è arrivato qui da Marostica"
(testimonianza di Vittorio Nichele).
"Ai miei tempi la vita era un po' dura, il lavoro non ce
n'era, bisognava emigrare in giro, trovare lavoro. Erano tempi
duri perché ciò che si poteva raccogliere per vivere... chi
aveva le mucche, le galline, il maiale... ma chi non aveva niente
doveva andarsene. Dopo si sono aperti i lavori.
Io sono venuto via che avevo 14 anni, erano tempi duri perché si
doveva andare in montagna, con la neve, il freddo, a sciapar
la legna, romperla, farla tutta a pezzettini, e poi scendevamo a
Bassano, Marostica, tutti i paesi. Si partiva di notte, mezzanotte
così, per arrivare giù il mattino presto. Tutto a piedi col
carrettino per portare giù la legna perché non c'erano le strade
asfaltate, senza mangiare. Si mangiava una volta venduta un po' di
legna, si prendeva un po' di pane e lungo la strada, se c'era la
frutta si mangiava, altrimenti pane e formaggio e quello che si
trovava. E da Bassano si tornava col carrettino, a piedi a
tirarselo su, e di nuovo sempre così tutti i giorni.
Quella era la vita che si faceva e il vestiario era quello che
era, si mangiava quello che c'era, e poi si aveva tanta conoscenza
delle erbe della montagna, e forse siamo vivi per quello. Poi le
patate, c'erano i campi e si lavoravano, fagioli, ma erano tempi
duri.
Quando avevo 11-12 anni sono andato a servire, a prendere le
mucche sulle malghe, si andava a prendere le bestiole"
(testimonianza di Silvano Rodighiero).
Emerge la difficoltà che caratterizzava la vita di montagna, dove
anche i più giovani erano costretti a lavori e trasferte in
condizioni che oggi sembrerebbero disumane. Il testimone proveniva
da Conco, ma è evidente che la situazione di quel paese
rispecchiava quella presente in tutte le zone montuose d'Italia
che in quegli anni subirono un graduale spopolamento.
"[...] non abitavamo in una nostra ma eravamo sotto padrone e
la casa era sua, noi prendevamo parte del raccolto ma se veniva la
tempesta dovevi buttare via tutto e io avevo due bambini, un
marito, un cognato e la suocera. Non si poteva"
(testimonianza di Caterina Rizzolo).
La povertà era ai massimi livelli, tanto che chi partiva non
possedeva quasi nulla.
"Io sono rimasta là per via dei miei che non avevano né
alloggio né niente, sono venuta su che avevo 7 anni, nel '51, ma
appena sono nata io loro sono venuti via da Sarcedo, sotto Lusiana"
(testimonianza di Germela Covolo).
Un altro testimone, proveniente da Conco, viveva in un'abitazione
isolata, fattore spesso propulsivo per i cambi di residenza.
"[...] è una casa sola in un posto detto 'locco', 'na
vira, fin quando erano case sole le chiamavano così, dopo
magari si facevano altre case e venivano fuori le contrade. Da
vent'anni c'è la strada che passa davanti, invece prima si poteva
andare solo a piedi" (testimonianza di Bortolo Girardi).
Fattori propulsivi dell'area biellese
Espulsi dai loro paesi nativi gli emigranti vicentini giunsero nel
Biellese4.
I veneti cominciarono a giungere in quest'area negli anni 1923,
1924 e 1925, ad eccezione di casi isolati di persone che erano già
arrivate da Schio e Valdagno, dove erano presenti industrie
inserite nell'Associazione industria laniera italiana, fondata nel
lontano 1867. Erano operai altamente qualificati che si
trasferivano su richiesta delle stesse aziende. La Provincia di
Vicenza, con l'Associazione laniera tra dirigenti, sorta nei primi
decenni del XX secolo fra Vicenza e Biella, inviò così un
rilevante numero di lavoratori specializzati, creando un forte
legame tra Vicentino e Biellese5.
Secondo Caterina Corradin la prima vera ondata coincise con uno
sciopero del 1921 contro il taglio dei salari, che coinvolse gli
stabilimenti delle vallate biellesi, valsesiane, l'area di Torino,
la Lombardia e il Veneto. Un'occasione rammentata anche da una
testimone: "[...] mia mamma, aveva 18 anni [...] quand'era
partita per andare a lavorare. Mi pare che là era un periodo di
grande sciopero e allora Mario Zegna ha mandato a chiamare, erano
gli industriali che chiamavano" (testimonianza di L.
Angelino).
Certamente per gli imprenditori una massa di operai disposti ad
accettare qualsiasi condizione pur di lavorare era un'ottima
opportunità per neutralizzare le lotte degli operai biellesi. I
veneti avevano troppa fame per alzare la testa e ottenere un
salario era certamente il loro scopo primario.
La loro resistenza era messa ulteriormente alla prova durante
tappe d'immigrazione intermedie. Non sempre arrivarono
direttamente nelle vallate tessili: molti immigrati lavorarono
qualche anno negli stati oltre confine o in altre regioni,
raggiungendo le vallate tessili solo in un secondo tempo, dopo
aver condotto una vita di stenti e svolto mansioni molto pesanti.
"Mio padre ha cominciato a girare da piccolo, qui mi sembra
sia venuto nel '27 ma non me l'ha mai detto. Belgio, Germania,
Romania, faceva lo stagionale tornando a casa in inverno. Quando
ha sposato la mia mamma ha fatto ancora qualche anno così poi
siamo andati in Val d'Aosta. Per comperare mia sorella la mamma è
tornata a casa e poi è tornata. Il papà lavorava in
miniera" (testimonianza di Angela Frello).
"[...] mio suocero è andato clandestino. A 12 anni è andato
in Germania perché qui c'era tanta miseria e mi diceva che è
andato ed era tanto piccolo che vedevano che non aveva l'età per
lavorare e ha dovuto andare persin per carità.
Poi la mia mamma aveva lasciato un fidanzatino qua che poi però
è andato in America ed era troppo lontano, il mare c'era da
passare e non ha voluto abbandonare tutta la famiglia" (testimonianza
di Luciana Corradin).
"[...] la maggior parte sono emigrati per la Francia, per
l'Australia, l'America, sono emigrati quasi tutti"
(testimonianza di S. Rodighiero).
Alcuni sono emigrati all'estero successivamente.
"Mio padre e gli altri sono venuti dal Veneto quando c'era
poco lavoro, poi anche da qui quando era entrata la crisi del '30
e '28, ma anche la famosa crisi del '29 in America, che si è
ripercossa anche qui, qualcuno si è trasferito anche in Francia e
in Belgio, per esempio mio nonno ha lavorato otto mesi circa in
Francia. Lì la maggior parte erano veneti. Facevano scavi
fluviali, qualcuno è andato in miniera e altri si sono fermati lì.
In Svizzera poca roba, prendevano solo periodicamente, magari un
lavoro di sei mesi e poi si doveva tornare in Italia"
(testimonianza di V. Nichele).
La storia degli emigranti italiani in Belgio è ricordata da molti
per il peso che ebbe nell'emigrazione in generale e può far
comprendere meglio lo stato d'animo di tutti i veneti che infine
si stabilirono nel Biellese, pronti ad accettare qualsiasi
mansione pur di poter sperare in una soluzione migliore.
Aver lavorato nei pozzi neri del Borinage, di Charleroi e Liegi,
significava essere stati esposti a gravi rischi per la propria
incolumità, contraendo le malattie del carbone, che corrode i
polmoni causando anche l'invalidità. Inoltre, nelle miniere buie
e profonde, dove gli incidenti erano frequenti, lavoravano
moltissime donne e bambini, che poi alloggiavano in baracche dalle
pessime condizioni. L'episodio più tragico fu il crollo di
Marcinelle nel 1956, in cui persero la vita centotrentasei
italiani6.
Numerosi veneti, prima di arrivare nel Biellese, lavorarono anche
nelle miniere della Val d'Aosta che attirarono i flussi dal
Nord-Est a partire dal 1915-1920, con un picco tra il 1928 e il
1931.
Tutto ciò fa capire quanto varia potesse essere la manovalanza
che quella regione poteva offrire al Piemonte, dove all'inizio
furono anche impiegati al di fuori delle industrie.
Le catene di richiamo
Dalle testimonianze emerge un ulteriore aspetto che caratterizzò
non solo le migrazioni interne tra Vicentino e Biellese, ma anche
il fenomeno emigrazione in generale. Si tratta delle relazioni che
solitamente si instaurano tra chi abbandona il proprio paese e chi
resta. Un vero supporto di fronte ai disagi che si affrontavano in
seguito ai trasferimenti: le cosiddette "catene" o
"reti" di richiamo si basano su due elementi
fondamentali: la parentela e la compaesanità, veri collanti tra
le località di partenza e le zone di arrivo, che garantivano
informazioni essenziali, il supporto logistico, l'avvio al lavoro
e i riferimenti culturali7.
I primi a partire furono generalmente gli uomini, che per qualche
mese andavano in Piemonte come stagionali, inviando a casa parte
del guadagno e ritornando al paese nei mesi di disoccupazione.
Partivano soli o con i fratelli, i figli più grandi e i
conoscenti. Generalmente, appena arrivati nel luogo di lavoro,
trovavano una sistemazione comune, anche in condizioni scomode.
"Sono venuto in Piemonte a 14 anni e mezzo, son partito con
mio papà; lui dopo tornava a casa, dopo quei nove-dieci mesi e io
magari rimanevo qui anche da solo e dormivo fuori nelle cascine.
[...] Qui in Piemonte sono venuti prima i miei fratelli che sono
più vecchi, poi quando io avevo finito le scuole allora sono
venuto giù con il mio papà. [...] Arrivati su si dormiva tutti
in una stanza, cinque o sei come abitano adesso i marocchini"
(testimonianza di S. Rodighiero).
"Mio papà era veneto, di Conco, ed è venuto giù nel '25
con suo fratello" (testimonianza di Graziella Zanella).
"Mio padre è arrivato qui da Marostica, non era ancora
sposato ed è venuto solo. Un altro fratello è andato nella zona
di Pinerolo, a Perosa Argentina" (testimonianza di V. Nichele).
La scelta di raggiungere le vallate biellesi nasceva in modi
diversi: potevano essere reclutati dagli stessi imprenditori, che
nel Nord-Est avevano inviato camion per caricare i lavoratori
(quindi si partiva con la certezza di un lavoro), o con
l'intenzione di cercare autonomamente un impiego una volta giunti
a destinazione.
Le industrie tessili inviavano i camion nei villaggi veneti per
arruolare lavoratori giovani, promettendo sia un'occupazione sia
l'alloggio, per sostituire molte famiglie biellesi che si erano
allontanate per installarsi altrove. Dopo che i lavoratori erano
stati reclutati tra i contadini del basso Vercellese e Novarese,
molti furono richiamati dal Veneto.
Una volta sistemati nei luoghi di arrivo, gli emigranti scrivevano
a casa, raccontando le nuove esperienze e invitando gli altri a
seguire il loro esempio. Infatti, anche i gruppi di paesani, amici
e parenti potevano costituire i canali privilegiati attraverso i
quali sarebbe continuata l'emigrazione. La Corradin individua in
questi primi immigrati le "teste di ponte" per i flussi
successivi8.
Le interviste confermano la sua tesi: torna più volte
l'espressione "tirare giù", intesa proprio nel senso di
richiamare le persone rimaste in Veneto, una volta vista la grande
richiesta di manodopera e le migliori condizioni di vita.
"[...] poi han tirato giù le sorelle" (testimonianza di
G. Zanella).
"[...] abbiamo cominciato a venire più grandi e ad avere una
comisiòn di lavoro e abbiamo tirato giù gli altri da
Conco [...] e poi si chiamavano: ad esempio quello che aveva la
fortuna di andare dentro in fabbrica scriveva: 'Qua me trovo
ben, g'ò trovà el lavoro, sto ben, ho trovato anche
l'alloggio o le stanze' e così succedeva che altri provavano a
venire giù [...] la mamma è rimasta in Veneto, l'abbiamo portata
giù dopo coi figli più piccoli. Ogni volta che prendeva il mese
mio papà mandava a casa soldi, teneva solo quelli per vivere
lui" (testimonianza di S. Rodighiero).
"Io sono venuto giù nel '32 tra settembre e ottobre e avevo
12 anni. Siamo andati da Conco, tramite altri qui che ci hanno
preparato, c'erano i Zanella, che erano venuti giù prima"
(testimonianza di B. Girardi).
Non partirono solo i giovani, anche le ragazze ebbero un ruolo
importante nel fenomeno considerato. I camion caricavano quelle
con un'età compresa tra i 10-12 anni e i 20, raccolte in gruppi
di paesane, amiche e sorelle.
"Le ragazze erano persino più giovani perché non avevano il
servizio di leva da fare [...] che poi alla fine non erano neanche
maggiorenni e dovevano essere sotto tutela del datore di lavoro; i
maschi venivano già con qualche anno in più" (testimonianza
di V. Nichele).
"[...] le più vecchie sono già venute nel '29, tramite
altra gente di Conco, e sono andate a lavorare a Pratrivero. [...]
Abitavano a Flecchia, con altre due, non da Conco ma da Corro,
vicino a Lavaro; e stavano assieme. Fino al '32, quando siamo
andati giù noi. C'erano il mio papà e la sorella più giovane e
siamo andati ad abitare a Flecchia. Dopo un mese è arrivata mia
mamma con mio fratello, Giuseppe, che abita qui a Pray. Siamo
venuti noi e l'abbiamo lasciato su per non far stare da sola la
mamma" (testimonianza di B. Girardi).
Restavano quindi a casa i bambini, gli anziani e le donne adulte
che di loro si sarebbero occupate, aspettando il ritorno dei
mariti, che rientravano al termine del lavoro stagionale. In
alcuni casi però essi cominciarono a chiedere alle mogli di
raggiungerli, convincendole con le promesse di una vita migliore.
Le donne che invece erano emigrate contribuirono a loro volta alle
catene di richiamo.
"[...] la zia ha aiutato la mia mamma [sua sorella] a venire
qui [...] I Bozzalla sono venuti anche col pullman a prenderli là
ed eri assunto se avevi qualcuno già qui. Qui a Coggiola come a
Castagnea c'è più Lusiana, invece verso Pratrivero c'è più
gente di Conco e Santa Caterina. Forse perché i primi che
venivano qui cominciavano a chiamare i suoi" (testimonianza
di A. Frello).
In alcuni casi, a incrementare e controllare l'esodo, intervenne
addirittura il clero, offrendo la sistemazione in convitti,
particolarmente adatta alle giovani, o reclutando nei paesi delle
aree depresse le persone da inviare, scelte per le loro condizioni
miserrime9.
Si è già visto quanta importanza avesse la religione nella
cultura veneta: non deve quindi stupire se la Chiesa intervenne
anche in fenomeni sociali apparentemente lontani dalla sua sfera
di competenze, come appunto i viaggi alla ricerca di nuovi
mestieri.
Ciò valeva per le emigrazioni a lungo raggio: basti pensare
all'Opera Bonomelli, fondata dall'omonimo monsignore nel 1903 per
gli emigranti in Europa, che aveva una sede anche a Tezze, in
Valsugana10.
Eppure, anche per gli spostamenti che potrebbero sembrare più
semplici, in quanto non uscivano dai confini nazionali, i
religiosi si mobilitarono.
"[...] erano gli industriali che chiamavano. Allora il prete
faceva la selezione: se avevano due mucche nella stalla dovevano
stare qua, se proprio erano poveri li mandava. Dava i nominativi.
Anche per la mia mamma era questa la soluzione, quindi sono
partiti dieci o dodici. [...] Per esempio a Varallo c'è stata una
grande richiesta di ragazze che andavano a prepararsi per andare
in giro per le case per i lavori, per la tessitura, per la
filatura. Era soprattutto per i convitti che il prete decideva,
era quasi sempre il prete che dava i nominativi. Una cugina di mio
marito dice sempre: 'Mi no podéa andar in Piemonte perché g'aveva
do vache'..." (testimonianza di L. Angelino).
Il parroco di Lusiana ebbe un ruolo di grande importanza nel
reclutamento delle giovani. Nel 1952, dai registri di emigrazione
del Comune, furono, ad esempio, cancellate diciannove donne
dirette verso Varallo, importante centro della Valsesia, non molto
lontano dalle vallate laniere dove poi si trasferirono parecchie
venete. L'anno successivo si trattò di ben cinquanta ragazze,
tutte tra i 14 e i 20 anni. Lì sorgeva un convitto gestito dalle
suore salesiane di Maria Ausiliatrice, annesso alla manifattura
"Rotondi"11.
Il prete curò personalmente i loro trasferimenti attraverso una
fitta relazione epistolare con cui le suore lo aggiornavano sia
sulla sistemazione delle sue parrocchiane, sia sull'eventuale
richiesta di altre fanciulle.
A Varallo giunsero inoltre venete richiamate da altre emigrate,
non in convitto ma in alloggi e provenienti anche da aree diverse
dal Vicentino.
"[...] quando mia mamma è venuta su da Recoaro [...] è
andata a Varallo con sua mamma, perché lì c'era un'altra amica.
Poi la mia mamma è andata a lavorare alla Grober, dopo i Fila
cercavano gente allora lei e la famiglia di questa amica sono
andati ad abitare a Coggiola" (testimonianza di Letizia Rista).
Dunque, anche nel caso dell'immigrazione dei veneti nel Biellese,
si può parlare di "catene di richiamo", oggetto di
interesse da parte di numerosi studiosi e indispensabili per
evitare l'isolamento. I nuovi emigranti seguivano percorsi già
fatti da parenti o amici, le cui lettere e racconti stimolavano il
desiderio, anche fra i più prudenti, di spostarsi per cercare il
lavoro12.
Erano anch'esse meccanismi propulsivi, che incrementavano i flussi
attraverso la circolazione di informazioni, soprattutto sulle
opportunità di lavoro13.
Per quanto qui ci si occupi di un contesto piccolo e particolare,
si riscontra pur sempre la stessa regola: i primi immigrati nelle
vallate laniere contribuirono ad incrementare gli arrivi dal
Vicentino, non solo divulgando le opportunità lavorative, ma
anche offrendo una prima sistemazione. Era questa una risorsa
importante, poiché, come si è già accennato, trovare la casa
era una delle esigenze più urgenti.
Se i primi immigrati lasciarono inizialmente la famiglia in
Veneto, con gli anni le cose mutarono: i primi arrivati nel
Biellese si erano integrati e potevano allora offrire un valido
aiuto a coloro i quali avrebbero voluto raggiungerli, non da soli
ma con i parenti al seguito.
Questi ultimi immigrati avevano visto tornare al paese, in varie
occasioni (come le vacanze), i "pionieri" del Piemonte,
che mostravano una maggiore disponibilità di denaro, visibile
anche dall'abbigliamento e dalla cura della persona. I compaesani
cominciarono a immaginare che quelle terre lontane fossero davvero
molto diverse dai loro paesi. Non sempre l'impatto al loro arrivo
soddisfaceva le loro aspettative, almeno dal punto di vista
visivo.
"A volte i miei parenti venivano a casa da Coggiola, coi
cappellini tutte eleganti e mi dicevo: 'Mamma mia che roba!',
venivano così alla messa del paese. Quando ho sentito che i
vegniva qui, anca mi i disiva: 'Oh matta!'. Ma quando
ho visto com'era Coggiola, mamma mia... pensavo a un'altra roba,
invece è in mezzo alle montagne ed è un paese come tutti gli
altri" (testimonianza di C. Rizzolo).
"Ma quando si è trovata a Castagnea - l'intervistata si
riferisce alla madre - ha detto: 'Oh ma Signur, ca sia partia
da Velo per venire in questo paese qua!' Lei credeva di andare in
una città e ha pianto tanto, ha pianto tanto" (testimonianza
di L. Angelino).
Nonostante questo aspetto, il ruolo dei primi emigranti fu
fondamentale per i flussi successivi; infatti i loro compaesani ne
chiesero l'aiuto per organizzare la partenza: chi si era stabilito
in precedenza nel Biellese trovava loro un impiego e un lavoro,
disponibili sin dal loro arrivo.
"[...] la zia ci ha mandato i soldi [...] io sono arrivata a
4 anni [...] ero con la mamma e siamo arrivate in treno [...] e
alla stazione tutti 'sti veneti che arrivavano giù ad aspettare
se c'era qualcuno dei suoi o per dare lettere da portare a casa,
perché se no ci volevano giorni. Io ero appesa alla borsa della
mamma e mia sorella di appena 2 anni era in braccio. È venuta la
zia a prenderci e il primo giorno ci ha tenuti a casa sua, poi ci
ha portati nella nostra" (testimonianza di A. Frello).
"Ero di Lusiana ma quando mi sono sposata sono andata a
Crosara, nel Comune di Marostica. Son partita dal Veneto il 20
dicembre del '50, i due figli avevano pochi mesi e siamo andati ad
abitare a Persica [...] Siamo stati chiamati qua da due sorelle di
mio marito, vivevano una a Pray alto e una a Fervazzo, sono
partite da Lusiana ma i loro mariti abitavano qua già da tanti
anni, erano venuti da bambini. Le mogli le avevano conosciute
quando erano venuti a trovare i parenti là e volevano prendere
una del paese, e così due fratelli hanno sposato due sorelle.
[...] Ci hanno trovato il posto a Persica e dopo abbiamo comprato
una piccola casetta; quando i figli si sono sposati siamo andati a
Pray e adesso sono qui a Quarona. [...] Venendo qua nel '50
c'erano già tanti veneti e mi hanno aiutata abbastanza, anche se
poi io legavo con tutti.
[...] Ho chiamato su anche una mia amica dell'infanzia, ero andata
nel Veneto perché mia mamma non stava bene e ho trovato la sua e
mi ha parlato: 'Catinela - me ciamava Catinela - cerca
qualcosa da far venire là anche la mia Ines', che stava in un
posto bruttissimo. Abbiamo trovato una casa da affittare con una
bella stanza, una cucina grande per mettere anche il vecio
- sono venuti a Caprile con il vecio, erano in quattro con
lei, il marito e il bambino" (testimonianza di C. Rizzolo).
Una forte partecipazione femminile
La storia delle donne emigrate è stata a lungo trascurata: solo
negli anni settanta gli studiosi hanno compreso il ruolo
fondamentale che esse ricoprirono, come mediatrici fra le culture
dei paesi di origine e i luoghi d'insediamento, nonché per il
contributo economico che con il loro lavoro diedero alle famiglie.
Oltre ad essere stata ignorata, la partecipazione femminile venne
a volte anche svalutata. Secondo Franzina l'opinione corrente
descriveva le emigranti come donne rozze, ben lontane dal mondo
maschile connotato da una forte mobilità. Alcune testimonianze
descrivevano le partenze dal Biellese con le donne che
accompagnavano scalze i mariti, portando le valige sulle gerle14.
Un notevole ritardo storiografico, se si considera che molte
partirono, in particolare dai paesi agricoli, verso le mete che già
avevano attirato i giovani italiani (Argentina, Brasile, Canada e
Australia) e se si pensa al cambiamento del loro ruolo nella
società.
Anche il Piemonte perse un notevole numero di giovani donne, ma
nelle aree più avanzate della regione confluirono numerose
immigrate, che in qualche modo sostituirono quelle partite. Le
prime migrazioni imponenti giunsero nelle risaie per la monda del
riso (nel 1905 erano già state reclutate tredicimila mondine
provenienti da tutte le regioni settentrionali); successivamente
furono invece i centri industriali ad attirare manodopera
femminile, come operaie, domestiche e cucitrici.
Le migrazioni interne tra Vicentino e Biellese furono in buona
parte dei fenomeni al femminile: in questa zona, infatti, giunsero
due catene di immigrate, l'una dalla Sardegna e l'altra dal
Veneto. Per quest'ultima, concentrata tra gli anni venti e
sessanta, è possibile considerare tre tipologie territoriali e
produttive; cioè la pianura, la collina e la montagna.
Un saggio di Paola Corti e Chiara Ottaviano ha ben analizzato la
situazione. Tra il 1925 e il 1960, dal Triveneto giunsero nella
pianura biellese milleduecento donne, di cui il 40 per cento erano
sole, molte minorenni. Negli anni venti gli arrivi erano costanti
e su bassi livelli, mentre nel decennio successivo ci fu
un'impennata, che coincise con un periodo economico
particolarmente nero per la regione di partenza. Un ulteriore
aumento si verificò poi dopo la seconda guerra mondiale, quando
numerose vedove partirono per trovare lavoro e crescere i figli15.
Trivero, paese altamente industrializzato delle montagne biellesi,
assorbì il maggior numero di emigrate venete negli anni trenta,
con il record di centotrentatré unità del 1933. Negli anni
cinquanta ci fu un altro incremento, a causa degli arrivi dal
Polesine, che nel 1951 era stato devastato dall'alluvione, e dai
continui movimenti di popolazione dal Vicentino, in particolare da
Conco e Lusiana. Proprio a Trivero si concentrava la maggioranza
delle donne provenienti dall'Altopiano di Asiago16.
Alcune giungevano in Piemonte da sole, in cerca di lavoro, altre
erano invece chiamate dai parenti. Potevano poi essere chiamate
dagli agenti che le aziende biellesi inviarono in quella parte del
Veneto e che si rivolsero alle famiglie più povere e numerose,
proponendo ai genitori l'assunzione delle figlie adolescenti.
Spesso, in casi simili, le ragazze dimoravano nei convitti,
strutture nate per tutelare la moralità delle più giovani17.
Un aspetto importante se si considerano gli alti rischi che le
immigrate correvano spostandosi dai loro paesi; nelle grandi città
fu questa una vera e propria piaga sociale perché molte di loro
vissero vicende penose: la prostituzione, il lavoro sommerso, le
maternità illegittime, lo sfruttamento, gli abusi sessuali erano
frequenti, fino ad arrivare ai fenomeni che vanno sotto il nome di
"tratta della bianche"18.
"Eravamo io, mia sorella e mia mamma" (testimonianza di
A. Frello).
"Dopo qualche anno dalla morte del nonno la nonna e la mamma
sono venute qui per la guerra [...] mia mamma [...] è andata a
Varallo con sua mamma, perché lì c'era un'altra amica"
(testimonianza di L. Rista).
La partenza costituiva un grande cambiamento, non solo di luogo ma
anche di condizione sociale. I dati relativi all'occupazione
dimostrano che il lavoro femminile, soprattutto al Nord, era
frequentissimo; le mansioni erano però diverse dal passato. Se
prima l'identità delle donne era definita in base al ruolo
familiare, con l'incremento delle manifatture cambiarono anche i
lavori svolti.
Nel Biellese c'era un alto tasso di attività femminile e le donne
dei comuni industrializzati presto parteciparono anche alle lotte
per i miglioramenti salariali19;
ciò dimostra quanto le mete di arrivo delle immigrate aprissero
sbocchi occupazionali, che le avrebbero gradatamente svincolate
dalle mura domestiche.
Partite sole, ricongiunte a parenti e conoscenti, molte di loro
furono reclutate dalle fabbriche tessili. Nella pianura biellese
il lavoro in fabbrica occupava il 46 per cento delle donne, mentre
pochissime passarono al lavoro in proprio o al livello di
impiegate (l'1 per cento). Così anche nei comuni in altura, dove
buona parte diventarono filatrici e tessitrici, poiché la
provenienza agricola e la mancanza di specializzazione ne
ostacolarono la riqualificazione20.
Furono poi numerose le richieste di domestiche, in particolare
presso le famiglie signorili. Gli imprenditori (Zegna, Giletti,
Zegna Baruffa, Barberis Canonico, Trabaldo e altri ancora)
assunsero dunque le venete come cameriere e bambinaie. Un fenomeno
riscontrabile nel Biellese come nel resto d'Italia, che permetteva
alle domestiche di essere comunque ben nutrite e vestite dai loro
titolari, come ricorda lo stesso Emilio Franzina.
"La mamma lavorava dai Bozzalla che avevano rilevato la
Ubertalli e la Lesna. [...] Finite le scuole, io le ho finite con
12 anni, sono andata a fare la donna di servizio qui a Coggiola a
casa di un banchiere. Tutti i giorni partivo via alla mattina e
venivo a casa alla mezza perché preparavo il pranzo. Anche lì mi
sono trovata bene e ho imparato tante cose; tutte noi siamo
passate di là, anche le ragazze piemontesi. Si diceva che si
'andava a servizio'. Io lavavo i piatti, facevo le faccende e
lavavo anche per la signora. Lei mi insegnava, perciò sono stata
contenta di esserci andata. Il venerdì mi fermavo a mangiare
perché era il giorno delle pulizie generali; si mangiava sempre
la polenta col formaggio e il passato di carote, allora si
guardava molto il venerdì ma non a casa mia perché si mangiava
quando si mangiava. Quando sono venuta via io è andata mia
sorella e dopo un'altra ragazza. Io sono poi andata a lavorare in
marzo dai Bozzalla ed erano tutti uomini" (testimonianza di
A. Frello).
"[...] mia mamma andava a lavare, faceva i lavori da
casalinga per gli altri" (testimonianza di G. Covolo).
"Per entrare in fabbrica sono andata a casa del padrone, il
signor Trabaldo, a fare i lavori perché quella che andava
aspettava una bambina. Allora io partivo a piedi da Persica a Pray
Alto per andare a fare tre ore. Quando sono andata a chiedere in
fabbrica ho trovato il signor Serafino, che mi ha visto e
riconosciuta e mi ha fatto segnare sul quaderno. Io ho aspettato
che mi chiamassero, il ragioniere ha visto il mio nome e si è
informato e ho iniziato a lavorare per sabato.
Facevo anche la lavandaia, un'ora e più a piedi per lavare nei
torrenti le lenzuola; una volta mi è scappato dentro il sapone e
a momenti finivo dentro anch'io" (testimonianza di C. Rizzolo).
Certo tutto questo ebbe influenza anche all'interno delle famiglie
di immigrati, in cui la suddivisione dei ruoli fu cambiata: le
donne potevano essere partite giovani, ancora da sposare e quindi
contribuendo al sostentamento di genitori e fratelli, o al seguito
di padri e mariti. In ogni caso aumentarono le attività che esse
svolgevano fuori casa, rendendole indispensabili per il bilancio,
ma anche un po' meno presenti nella crescita dei figli. Non tutte
potevano fare la mamma o la moglie a tempo pieno e in questi casi
i bambini erano accuditi da terzi, finché ad esempio alcuni
industriali misero a disposizioni asili.
"[...] mia mamma avendo già 'sti lavori dava me e mio
fratello più piccolo a queste persone. Li hanno aiutati tanto
perché, Signore, c'era miseria. Faceva tanto a piedi perché
soldi non ce n'erano" (testimonianza di G. Covolo).
"I bambini li teneva la suocera o una signora che mi ha dato
anche tanta roba per lavoro" (testimonianza di C.
Rizzolo).
Le abitazioni
Si è già accennato alla questione delle abitazioni, il primo
problema che qualsiasi emigrato doveva risolvere, perché avere un
tetto sotto cui ripararsi, un alloggio confortevole per il dovuto
riposo dopo il lavoro, era una speranza legittima. Ma la realtà
nel Biellese, come nel resto d'Italia e di Europa, era molto
difficile.
Un giornale locale dedicava l'attenzione, proprio all'inizio degli
anni trenta, a questo aspetto delicato: "La scarsezza di
abitazioni manifestatasi ovunque dopo la guerra, si è fatta
sentire in modo particolare nella nostra Città dove, per
ristrettezza di territorio e per l'elevato prezzo delle aree
fabbricabili, l'incremento edilizio non è stato adeguato alla
crescente e continua affluenza di immigrati e quindi le case,
specialmente quelle popolari, si sono sovrappopolate in una misura
impressionante"21.
In effetti, specialmente chi partì di propria iniziativa, faticò
a trovare immediatamente una casa, passando da un paese all'altro
prima di riuscire a sistemarsi in un'abitazione decorosa22.
Molto spesso, annesse alle fabbriche e ai cantieri, sorgevano
baracche abitate da maschi giovani e soli, provenienti dallo
stesso paese e che lavoravano insieme. Era una soluzione voluta,
perché aveva il vantaggio di contenere i costi, risparmiando il
più possibile sulla paga.
"Allora lei - l'intervistata riporta un discorso della madre
- dice: 'Eravamo in uno stanzone, in dieci o dodici e dormivamo
tutte in un letto unico, con dei materassi sopra le tavole. Quello
che doveva andare a fare la pipì doveva attraversare tutti, e
allora la sera dopo si spostava', lo facevano perché non avessero
tutte le notti da attraversare tutta la fila. Quando cambiavano le
lenzuola cambiavano posto" (testimonianza di L. Angelino).
"Arrivati su si dormiva tutti in una stanza, cinque o sei
come abitano adesso i marocchini; la casa la trovava mio papà
chiedendo qualcosa tanto per ripiegarci almeno alla sera"
(testimonianza di S. Rodighiero).
È chiaro che si trattava di soluzioni temporanee, dovute
all'esigenza di risparmiare per inviare i soldi alla famiglia in
Veneto o per potersi permettere più avanti un'abitazione
migliore. Inoltre non bisogna credere che la casa fosse vissuta
come oggi: allora essa costituiva solo un posto per mangiare e
dormire, non era il focolare domestico, perché quello era stato
lasciato in Veneto, con il resto della famiglia.
Per coloro che scelsero di partire in seguito alle esperienze
positive di altri compaesani, la ricerca della casa era svolta
proprio da questi ultimi che, tramite conoscenze, riuscivano a
fornire le prime abitazioni, pur essendo costretti, come negli
altri casi, ad accontentarsi del poco che si trovava.
"È venuta la zia a prenderci e il primo giorno ci ha tenuti
a casa sua, poi ci ha portati nella nostra" (testimonianza di
A. Frello).
"Ci hanno trovato il posto a Persica e dopo abbiamo comprato
una piccola casetta; quando i figli si sono sposati siamo andati a
Pray e adesso sono qui a Quarona. Quando siamo venuti in Piemonte
avevamo già la casa, ce l'hanno trovata i miei cognati"
(testimonianza di C. Rizzolo).
L'attesa di sistemazioni più adeguate poteva anche durare anni e
nel Biellese, come altrove23,
molti presero in affitto locali più o meno idonei (soffitti,
seminterrati o garage) oppure alloggi in stabili degradati.
"E per dormire venivo a casa dal lavoro e andavo nella travà,
fuori, dove si mette il fieno, vestito, come andavo a lavorare,
coperte non ce n'era, in mezzo al fieno" (testimonianza di S.
Rodighiero).
La situazione poteva essere altrettanto disagevole anche quando
gli immigrati avevano con sé la famiglia. Infatti, non
coabitavano solo i colleghi di lavoro, anche interi nuclei
familiari dovettero adattarsi a spazi angusti.
"Abitavamo in una casa che era un salone e c'era una tela che
lo divideva, mio papà ha pitturato e ha messo un cancelletto, ma
tame [come] i suma fai a supravive? quand' angh'era
la bura [alluvione] e gniva l'ava an ca'..."
(testimonianza di G. Zanella).
"Hanno trovato poi un affitto lì a Zuccaro dal Fava, uno
sgabuzzino. [...] Dopo abbiamo trovato una casa solo per noi perché
uno sgabuzzino non si poteva" (testimonianza di G. Covolo).
La condivisione dello stesso appartamento permetteva la
suddivisione dei costi, che all'epoca erano molto elevati, a causa
della scarsità di locali disponibili. Gli affitti erano saliti
raggiungendo livelli sproporzionati in confronto alle paghe
percepite dagli inquilini e il sovraffollamento divenne una vera
piaga, poiché aumentava i rischi di malattie dovute alla mancanza
di servizi24.
Non per niente i paesi più industrializzati erano afflitti da un
alto tasso di mortalità infantile e di rachitismo25.
Il fatto che molte case fossero in pessime condizioni è spiegato
nell'articolo già citato, che proseguiva accusando la cattiva
igiene e la necessità di porvi un rimedio concreto:
"Purtroppo in Biella si contano a centinaia e centinaia le
abitazioni con scarsa illuminazione, con camere prive di finestre
verso l'esterno, con insufficiente cubatura, in condizioni cioè
contrarie al vivere collettivo. [...] Scompariranno le cause
principali di tante malattie che ancora flagellano l'umanità,
prima e più temibile: la tubercolosi. Non è necessario essere
ricchi per avere un'abitazione pulita. Bisogna che sia compresa
questa necessità: prima dai proprietari di case, che devono
sentire il dovere di fornire ai propri inquilini alloggi
rispondenti ai giusti criteri dell'igiene per non lucrare al danno
della loro salute; e poi dagli inquilini che devono, in ogni tempo
mantenerli salubri, perché curando la casa si cura se stessi e
tanto più le abitazioni sono tenute con ordine e pulizia tanto
maggiore è il grado di civiltà raggiunto".
Si trattava di provvedimenti basati sul concetto di igiene
sociale, che erano stati assunti in tutte le nazioni più
coinvolte dallo sviluppo industriale e dal conseguente
inurbamento. Anche nel Biellese l'idea dell'abitazione operaia si
trasformò, seguendo in parte il modello dei "familisteri"
francesi, ideati da Fourier, per un controllo diretto dell'azienda
anche nell'ambito privato.
Inizialmente, dunque, prevalse la coabitazione in alloggi di
parenti e amici, anche perché l'accesso alle case popolari non fu
né facile né immediato, essendo queste costruite da cooperative
e cantieri edilizi improvvisati, con l'arruolamento di manovali
pagati pochissimo26.
E anche una volta ottenuto un alloggio le condizioni restavano
precarie.
Come raccontava una testimone ascoltata da Caterina Corradin,
"nella zona Valsessera, da Pray a Coggiola a Crevacuore,
erano istituite le case operaie che erano né più né meno
dormitori. Quattro persone per stanza, c'erano quattro letti, un
guardaroba - armadio con una tenda, una stufa, una tavola, due
panche".
Col tempo i villaggi operai o le case furono fatti costruire anche
dagli imprenditori biellesi, anche se qui si riscontrarono gli
stessi pregiudizi manifestati dagli operai parigini: a fondamento
di tali progetti edilizi, infatti, si percepiva il concetto
dell'operaio come un essere inferiore. I padroni, seppur in forma
paternalistica, avrebbero avuto un controllo diretto a tempo
continuato, dentro e fuori la fabbrica27.
Nel circondario biellese sorsero così due villaggi operai (presso
la Filatura di Tollegno e la Pettinatura di Vigliano), dove ogni
abitazione era accuratamente separata dalle altre, con ingresso
proprio o, se in comune con altri, aperto e in piena luce verso la
strada. Ogni famiglia aveva un proprio orto e il solo punto di
riferimento era l'azienda.
Nei centri delle vallate laniere sorsero poi numerose case
operaie, integrandosi agli insediamenti preesistenti e rispettando
gli stessi rigorosi principi di convivenza. I giovani che
alloggiavano insieme dovevano rispettare delle regole, esattamente
come le ragazze nei convitti.
"Avevano costruito anche le case operaie e davano a tot
persone tot stanze; c'era un lavandino, anche per lavare le robe,
il gabinetto in comune. Capitava di avere la camera e la cucina
distanti e ti trovavi con gli altri nel corridoio, non avevi un
tuo appartamento. Ed erano tutti veneti che sappia io. E tu dovevi
firmare che entravi lì e avevi una regola: 10 e un quarto
dovevano essere a casa tutti quanti e se arrivavano ragazzi
giovani c'era qualcuno lì che rispondeva per loro"
(testimonianza di A. Frello).
"Questa casa è stata costruita proprio per i lavoratori che
il Silvio Bozzalla è andato a prendere nel Veneto, ha costruito
questa casa e li ha inseriti qui, erano circa seicento persone, il
90 per cento erano veneti e il rimanente erano del Novarese e
della bassa Vercellese. Non c'erano appartamenti, c'erano solo
camere e basta, come questa. Prima ogni camera aveva la sua
entrata e lì abitavano 'sti lavoratori; un tavolo, una stufa, la
sedia, c'era una divisoria, un lenzuolo o una tenda. Magari erano
sei sette in una camera. Per avere queste stanze bisognava
lavorare per la Bozzalla, non si pagava niente, la luce arrivava
solo la sera fino agli anni '54-55. Nel '49 han messo la luce di
giorno però proprio a posto legalmente fino a quegli anni.
Perché anche prima qui, come uscivano alle 10 era l'ultimo turno
e alle 10 e un quarto chiudevano tutto, chi era fuori era fregato.
Doveva dormire fuori. C'era una portinaia che accendeva le luci,
chiudeva. Perché tra questi immigrati c'erano tante ragazze e la
responsabilità era della ditta, e allora cercavano di
raggrupparle in queste camere, e il portinaio continuava a girare
perché se no...
Mio papà è venuto subito ad abitare qui nella casa operaia, con
altri colleghi. Dormivano insieme e per mangiare c'era la stufa a
legna, si mettevano su il mangiare. C'è stato un periodo in cui
la ditta distribuiva la minestra e con la fame andava bene anche
quella. Compaesani di Marostica non ce n'erano, dovevi andare su
verso Trivero. Erano tutti di Lusiana, Fontanelle, Vitarolo, Velo
e tutta quella montagna" (testimonianza di V. Nichele).
Con gli anni, grazie all'avvenuta integrazione e alla maggiore
disponibilità sia di case sia di denaro, molti veneti
acquistarono gli alloggi o ristrutturarono vecchi edifici. Una
tappa fondamentale e molto sentita dagli stessi intervistati.
"Poi è rimasto qui perché lentamente si è svuotata la casa
che han cominciato a trovare alloggi in giro. Han continuato
l'affitto fino all'82 quando li hanno messi in vendita e noi
l'abbiamo comperato perché in quegli anni non trovavi un buco,
non c'era un alloggio fuori. Allora qui abbiamo fatto delle unioni
e sono usciti gli alloggi. Sono quindici e sette o otto sono stati
presi dai figli degli emigrati. Mio padre si è fermato qui perché
aveva la famiglia, là aveva solo i fratelli. Allora la casa l'ha
comprata qui" (testimonianza di V. Nichele).
"Questa dove vivo è una casa dei Bozzalla, sotto c'erano
cavalli e mucche nella stalla, affittavamo e poi l'abbiamo
comprata e aggiustata" (testimonianza di A. Frello).
"[...] [abitavano] da gente che aveva delle proprietà, poi
abbiamo comperato" (testimonianza di G. Covolo).
"Tanti hanno poi messo a posto la casa, io ho fabbricato qui,
ho comprato il terreno e ho dovuto fare il magazzino, e da una
parte mi son fatto l'abitazione, dove siamo stati ventisette anni.
I primi anni però abbiamo abitato nella casa dei miei suoceri.
A Pray gli industriali non costruivano case per gli operai, erano
tutte per gli impiegati. Le case operaie c'erano in altri paesi,
come a Ponzone, fatte dai Giletti, o a Pratrivero, dove c'erano i
Canonico. Erano tutti veneti che andavano lì. Ma tutti quelli
arrivati qua hanno fatto una casa, dopo quel periodo del boom si
poteva fabbricare dappertutto, certi posti dove abbiamo fabbricato
adesso non si potrebbe più" (testimonianza di B. Girardi).
(2- continua)
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