L'immigrazione  bergamasca e veneta a Perosa

estratto dal libro 'Perosa  e i Salesiani', Renzo Furlan, Lareditore 207 pg 111-113

estratto dalla tesi "Le residenze operaie delle industrie tessili nelle valli Chisone e Pellice: analisi e recupero

 - Gemma Boaglio, Daniela Alberti- 1983-84 (pg 113-125)

composizione-forza-lavoro-femminile-widemann  pdf per un raffronto- estratto da libro- Bottazzi-Bounous - dati provenienza

 

riproduciamo il  testo seguente per mancanza di uno studio approfondito su Perosa, le situazioni sono simili

 

 

 

Maurizia Palestro

Aspetti, problemi, vite vissute dell'emigrazione veneta nel Biellese del Novecento*



È sufficiente sfogliare l'elenco telefonico per accorgersi di quanti cognomi veneti oggi compaiano tra gli abbonati residenti nei comuni biellesi, dove nei decenni passati le opportunità lavorative hanno attirato gente dal Nord-Est, oltre che dal Meridione. Sono facilmente riconoscibili quelli terminanti in consonante, come Galvan o Predebon, così come quelli derivanti da toponimi, quali Vicentini e Visentin.
Triveroha molte famiglie con cognomi veneti: tra gli altri 14 Bonato, 3 Bordignon, 10 Boscardin, 5 Caldana, 4 Cantele, 18 Colpo, 5 Corradin, 7 Covolo, 14 Crestani, 17 Dalle Nogare, 5 Furlan, 20 Pizzato, 9 Rodighiero, 19 Ronzani, 7 Scalcon, 8 Zampese.
Scendendo a Coggiola troviamo invece: 3 Cantele, 1 Colpo, 3 Covolo, 4 Crestani, 1 Facchin, 3 Galvan, 2 Nichele. A Pray, paese confinante, la situazione è simile: 2 Bonato, 3 Caberlon, 1 Cantele, 3 Cogo, 4 Crestani, 3 Dalle Nogare, 2 Galvan, 3 Merlin, 1 Pezzin, 1 Pizzato, 3 Rodighiero, 1 Ronzani e 8 Zanello. Anche spostandosi di qualche chilometro la presenza dei veneti emerge, ad esempio a Valle Mosso, altro comune interessato dall'immigrazione: 1 Boscardin, 16 Crestani, 4 Cortese, 4 Mason, 3 Pezzin, 13 Pizzato e 2 Rodighiero.
In realtà la presenza dei veneti è diffusa nel mondo, non solo nel Biellese, in quanto la loro regione fu interessata dall'emigrazione. In anni lontani la gente veneta dovette abbandonare la propria casa e recarsi altrove, all'estero inizialmente e poi verso il triangolo industriale del Nord-Ovest.
Tra le altre nazioni europee mete di tali spostamenti il Belgio ebbe un ruolo particolare a causa della legge varata il 19 ottobre 1945, oggi difficile da capire e da accettare. Un'intesa fra il governo italiano e quello belga stipulava l'impegno del secondo a dare ventiquattro quintali di carbone fossile l'anno per ogni italiano che andava ad estrarlo, in miniere dove nessun altro voleva lavorare. Il 23 giugno dell'anno seguente l'accordo fu ampliato sottoscrivendo l'invio in Belgio di 50.000 italiani, di cui 23.000 provenivano dal territorio vicentino1. Erano tempi duri e la rabbia dei veneti era molta, come si legge anche nella poesia "I va in Merica" di Berto Barbarani: Porca Italia - i bastemia - andemo via!
Questo fenomeno non caratterizzò tanto gli anni a cavallo fra Ottocento e Novecento, ma si protrasse soprattutto nei decenni successivi. I veneti emigrarono non solo verso l'estero, ma anche verso il Biellese, il Vercellese e la Lomellina. A metà anni cinquanta la risicoltura attirava numerosa forza-lavoro perché localmente aveva a disposizione solo il 3 per cento del fabbisogno di manodopera necessaria per le due stagioni.
In quel periodo i piemontesi, infatti, lavoravano nelle fabbriche; a Biella, nei 450 lanifici, cotonifici e maglifici, per ogni 100 biellesi c'erano 160 posti di lavoro disponibili.
Un posto in azienda garantiva ottime opportunità, uno stipendio tutto l'anno e un lavoro meno massacrante di quello nei campi. Si può quindi dire che gli abitanti del Biellese svuotarono letteralmente le campagne. Ciao Baragia (le grandi risaie fra Vercelli, Biella e Novara) 'nduma a travajè a Biela è il verso di una canzone popolare che ben fa capire la situazione di allora.
Fu proprio in relazione a queste carenze che la manodopera femminile proveniente dal Veneto si rivelò un serbatoio fondamentale per l'economia locale. Le giovani immigrate si accontentavano di paghe irrisorie. Quelle delle mondine erano pari a un terzo del salario dei braccianti biellesi e venivano accompagnate da un "regalo" in natura, cioè dieci chilogrammi di riso a fine stagione2.
Vennero a lavorare nelle risaie convogli interi di giovani prosperose, sane e belle, da Rovigo, Vicenza e Padova, alloggiate in grandi capannoni dove dormivano su materassi a terra, una accanto all'altra. Venivano nutrite con pranzi sobri nei campi e minestroni di riso alla sera, per poi andare a coricarsi ed essere pronte alle nove ore di lavoro del giorno dopo, con le schiene piegate e l'acqua fino al ginocchio3.
Ma nel Biellese giunsero anche gli uomini, impiegati in diversi settori: fecero gli stagionali per gli impresari edili o andarono a lavorare nelle aziende tessili. Alcuni lasciarono il Veneto a causa delle due guerre mondiali, che là ebbero conseguenze molto pesanti.
Qualunque fosse la spinta o il percorso seguito, le vicende degli emigranti veneti nel Biellese si inseriscono in un contesto molto ampio: la grande emigrazione del Novecento, che coinvolse tutta l'Europa, con spostamenti all'interno degli stati, fra gli stati e fra un continente e l'altro. Veneti e piemontesi migrarono anche al di là dell'oceano, oltre che nei paesi europei più sviluppati.
I motivi che spingevano famiglie intere ad abbandonare la propria casa e le radici erano simili - fame e mancanza di lavoro - e uguali anche le difficoltà da affrontare: trovare alloggio, lavoro, integrarsi nella società di arrivo nonostante la lingua e gli atteggiamenti razzistici4.

I movimenti migratori interni, che interessarono l'Italia nel secolo scorso, avvennero per la capacità di alcune regioni di mantenere il passo con il progresso che in quegli anni caratterizzò i principali paesi d'Europa; in particolare il Settentrione riuscì a trascinare il resto del paese in quella fase di sviluppo. Tra le regioni-guida un ruolo di primaria importanza fu senz'altro rivestito dal Piemonte, che per tale motivo divenne meta privilegiata di persone che attraversarono la penisola in cerca di lavoro, dal Meridione al Ferrarese, senza dimenticare il Veneto, oggetto di studio in questa ricerca.
In realtà anche il Nord-Ovest fu coinvolto nell'emigrazione e più di due milioni di piemontesi andarono all'estero nell'intervallo di tempo compreso tra il 1870 e il 1970; fu un esodo massiccio e dalle radici antiche, il cui primo rilevamento ufficiale risale però solo al 1876. Si trattò di un movimento oscillatorio, diverso da quello avvenuto nel resto d'Italia (in continuo aumento) e diretto soprattutto verso la Francia, l'Argentina, il Brasile e gli Stati Uniti. In generale era caratterizzato da un alto tasso di mascolinità5.
Le cause erano molteplici. Se da una parte aumentavano le fabbriche e il loro peso sull'economia italiana, dall'altra le zone montane entravano in crisi6: l'agricoltura aveva cessato di essere una fonte di sostentamento sufficiente e poche erano le attività presenti in grado di sostituirla. Inoltre la guerra aveva causato ingenti danni al rivestimento arboreo, cui si aggiunsero quelli provocati dalle alluvioni.
Anche i distretti rurali subirono un graduale spopolamento, a causa dei redditi scarsi, di un'eccessiva frammentazione delle aziende e della reazione di chiusura che i giovani manifestarono nei confronti dei mestieri tradizionali. Così, tra il 1951 e il 1961, gli addetti all'agricoltura erano ormai scesi con una flessione del 30 per cento, con un incremento delle piccole e medie imprese7.
La mobilità del mercato del lavoro aveva determinato lo spostamento di consistenti nuclei di persone dalla vita nei campi verso altre occupazioni. A tutto ciò bisogna poi aggiungere lo scarso aumento demografico che il Piemonte registrò tra il 1936 e il 1951, pari al 2,7 per cento: un aumento che, senza l'afflusso di manodopera a Torino e nelle altre zone avanzate della regione, sarebbe stato ancora più basso8. Il regresso degli indici di natalità nelle zone di montagna si accompagnò a un massiccio esodo e solo nelle province di Novara e Vercelli, fra la Valdossola, la Valsesia e l'alto Biellese, la popolazione era cresciuta, mentre aumentava la presenza delle industrie.
L'insieme di questi fattori fu una grossa spinta per i flussi migratori, ma la prima guerra mondiale fece da freno, nonostante gli sbocchi francesi e svizzeri fossero rimasti aperti anche durante il conflitto, con un aumento della quota femminile. In seguito la politica antimigratoria, applicata tra il 1930 e il 1942, rese i valori di uscita molto bassi.
Oltre ad essere una regione di partenza però, il Piemonte era diventato anche un luogo di accoglienza per le masse provenienti dalle zone più misere della penisola, grazie alla nascita e allo sviluppo delle industrie che divennero veri elementi propulsivi della realtà economica e sociale.

Lo sviluppo industriale

L'immagine tradizionale dell'Italia del progresso, nel corso del Novecento, fu quella del "triangolo industriale", di cui Torino costituiva il vertice più orientato alla produzione. La presenza della Fiat, lì insediata dal 1899, ne fece la capitale del settore automobilistico, trainando l'intera industria meccanica in un vero e proprio periodo aureo, che raggiunse il suo apice negli anni cinquanta, grazie allo svolgersi in loco dell'intero ciclo tecnologico.
Fecero da corollario nuove imprese per macchinari e mezzi di produzione, per la fabbricazione di beni intermedi come gomma e plastica, con una forte spinta dell'occupazione. La città di Torino in quegli anni conobbe una grossa espansione urbana, arrivando a 1.971.000 unità nel 1968. Contemporaneamente salì l'indice dell'occupazione industriale, raggiungendo nel 1969 il 59 per cento9.
Non solo Torino: anche altre aree di provincia emersero nel secolo scorso, pur essendo diverse dal modello città-fabbrica che la Fiat aveva imposto al capoluogo10. Ad esempio Ivrea divenne importante per la presenza dell'Olivetti, azienda produttrice di macchine per scrivere diventate celebri in tutto il mondo. Il suo titolare, Adriano Olivetti, cercò comunque di integrare la fabbrica con l'agricoltura e l'organizzazione urbana, al fine di coordinare i luoghi di lavoro e i servizi11. Nella zona di Alba, invece, molti abbandonarono l'agricoltura per entrare nella fabbrica della Ferrero, produttrice di cioccolato e, in misura minore, nelle aziende tessili.
In seguito a tali sviluppi, durante gli anni sessanta Torino fu percepita e studiata quale esempio macroscopico, in positivo e in negativo, dei fenomeni migratori (soprattutto dal Sud) che sconvolsero il quadro demografico e sociale delle città industriali.
L'integrazione e la ristrutturazione produttiva causarono successivamente un calo di manodopera e un movimento di ritorno verso i paesi di origine, ma il fenomeno migratorio aveva comunque generato situazioni che posero il Piemonte e le sue città principali al livello dei maggiori centri europei12. Le conseguenze si notarono in ambito demografico e nella geografia urbana: lo sviluppo dell'industria chimica e meccanica esigeva un'integrazione funzionale sempre maggiore, con una forte tendenza all'agglomerazione, a cui si aggiunsero i bisogni residenziali dei nuovi arrivati.

Il settore tessile

Come si è appena detto, l'asse produttivo si spostò dalle attività rurali, legate all'agricoltura, a quelle industriali, con l'esplosione negli anni cinquanta delle piccole e medie imprese. Soprattutto nel settore tessile la ripresa economica segnò la comparsa di nuovi gruppi imprenditoriali e un'ampia mobilitazione di forza-lavoro13.
Dall'alto Novarese al Biellese la dispersione di attività industriali causò la nascita di piccoli laboratori insediati in aree rurali o presso famiglie con sistemi molecolari di lavoro a domicilio; in seguito si trasformarono in imprese coinvolte nei mercati internazionali14.
L'industria laniera non ebbe un andamento lineare: all'inizio del Novecento conobbe un grande sviluppo, con l'allontanamento dalla tradizionale gestione diretta, con l'avvento di capitali inglesi e l'ampliamento verso mercati poveri (Grecia, India e Argentina)15. Ma il suo cammino verso gli anni di grande successo fu contrassegnato da fasi alternate di espansione e di crisi, in concomitanza coi maggiori avvenimenti su scala internazionale. La fase più cruciale coincise con il ventennio fascista, durante il quale il settore tessile perse la sua posizione dominante, arretrando a favore di altri settori, che in anni di guerra servivano direttamente lo Stato.
Il regime attuò una politica di interventismo economico; fu istituito l'Iri (Istituto per la ricostruzione industriale), sorse l'economia a capitale misto, pubblico e privato, ma ciononostante le aziende tessili, come quelle di abbigliamento e di trasformazione di prodotti alimentari, ristagnarono, pur continuando ad occupare una numerosa manodopera16.
Teresio Gamaccio, a tal proposito, distingue tre periodi nell'evoluzione del settore laniero. Il primo, che comprende gli anni fra il 1918 e il 1926, fu caratterizzato dal problema della ristrutturazione degli impianti e dalla ricerca di uno sbocco sui mercati esteri. Seguì l'intervallo di tempo compreso tra il 1926 e il 1933, segnato da una grave crisi produttiva, dovuta all'allineamento della lira a "quota 90" e alla chiusura del mercato estero per il tracollo di Wall Street. Non va infatti dimenticata l'importanza che l'esportazione ha sempre avuto per le fabbriche tessili. Le difficoltà allora non furono superate con un maggior dinamismo imprenditoriale, bensì con una restrizione delle paghe e con l'aumento delle ore lavorative. Infine il periodo tra il 1934 e il 1943, con un progressivo allontanamento fra le industrie e la condotta politica: in quegli anni il governo aveva imposto l'uso di fibre artificiali per il mercato interno, per cui la maggior parte degli imprenditori dovette ricorrere alle lane nazionali, note per la scarsa qualità e i prezzi elevati17.

Il bisogno di manodopera

I ritmi più ravvicinati del turn over, la tendenza delle imprese a concentrare la ricerca di nuove maestranze esclusivamente fra i lavoratori uomini dai venti ai quarant'anni, ossia in quella fascia di età in cui si stava esaurendo la disponibilità di offerta tra i residenti, furono le cause principali di un flusso migratorio ampio, proveniente dalle aree più depresse dell'Italia settentrionale e dal Mezzogiorno18.
Dal Sud giunsero in Piemonte schiere di contadini, artigiani impoveriti, giovani senza lavoro e intere famiglie. Questa regione, secondo i dati Istat per gli anni compresi fra il 1952 e il 1969, ebbe dunque un saldo attivo (di oltre 800.000 unità) fra iscrizioni anagrafiche di persone provenienti dall'esterno e cancellazioni di abitanti diretti fuori19.
Non tutte le province e le classi di attività furono coinvolte allo stesso modo; l'agricoltura fu in grado di assorbire solo una quota modesta. Nell'area del basso Vercellese si era insediata, a partire dalla seconda metà dell'Ottocento, l'impresa agricola di tipo moderno, basata sulla monocoltura risicola e sull'impiego temporaneo di forza lavoro. I contadini, quindi, avevano come unica prospettiva l'impiego saltuario concentrato nelle poche settimane di monda. Molti degli stessi residenti preferirono emigrare nelle aree industriali limitrofe o all'estero20.
Di fronte ai problemi esistenti (caporalato, cottimo, rispetto dell'orario di lavoro) gli imprenditori locali spesso preferivano ricorrere ai forestieri, di poche pretese e quindi utili per calmierare le paghe e ricattare i lavoratori indigeni. Si diffuse la figura delle "mondine", tipica della campagna vercellese. Erano donne reclutate dai caporali e che lavoravano molte ore: da un'ora dopo il levar del sole ad un'ora prima del tramonto, senza essere tutelate in alcun modo. Solo nel 1906 si arrivò alle otto ore di lavoro giornaliero21.
Mussolini era contrario agli spostamenti migratori e per limitarli tentò di legare gli italiani alla terra. Non solo le mondine diventarono il simbolo dell'ideologia fascista tesa a nobilitare il lavoro rurale, ma proprio nell'ambiente delle risaie il governo prese provvedimenti per migliorare le condizioni di queste lavoratrici stagionali. Si tentò di sostituire la presenza dei caporali introducendo contratti veri e propri, stipulati ancor prima delle partenze delle mondine, che perciò avevano la certezza di trovare lavoro.
Anche gli aspetti qualitativi della vita furono migliorati, grazie all'igiene e alla sistemazione dei cascinali, dove le donne potevano dormire su comode brandine piuttosto che sui vecchi giacigli di paglia. Alcune di loro potevano poi occuparsi dei figli che molte colleghe erano state costrette a portare con sé22.
Attirate dal lavoro nelle risaie giunsero nel Vercellese 24.000 forestiere, comunque insufficienti a coprire il bisogno di manodopera che era cresciuto a causa della guerra. Tra i luoghi di provenienza spiccavano l'Emilia e il Veneto, da cui gruppi numerosi arrivavano col treno. Per questo, presso le stazioni dei paesi agricoli, furono aperti centri di accoglienza e assistenza, anche se poi, in realtà, non sempre facevano riscontro le condizioni delle cascine in cui avrebbero alloggiato nel mese e mezzo di monda. L'alimentazione era montana (riso, polenta, pane e poca carne), mentre lo stipendio era persino inferiore a quello delle mondine locali. In cambio ricevevano razioni di cibo: 350 grammi di pane, 240 di riso, 105 di formaggio, 20 di lardo e mezzo litro di latte; il tutto doveva durare una settimana23.
Se l'agricoltura non impiegò che una minima parte degli immigrati, la maggioranza di essi fu inserita nelle fabbriche. Negli anni cinquanta le immigrazioni nelle province di Alessandria, Novara e Vercelli, dove si stavano organizzando poli industriali di rilievo, tennero il passo con gli incrementi dell'area torinese. Ciò avvenne anche perché "[...] l'impatto contraddittorio e spesso conflittuale che hanno le nuove fabbriche costringe alcune imprese ad importare manodopera esterna alla comunità non solo per le mansioni di addestramento e di comando per la forza-lavoro, ma anche per quelle meno qualificate"24.
Le nuove fabbriche sorte in varie zone del Piemonte rappresentarono il motore dell'immigrazione avvenuta in fasi successive nel Novecento. Paesi di medie dimensioni, come Gattinara, attirarono lavoratori dalle valli confinanti (Valsesia e Valsessera), dalla pianura e, soprattutto dopo la prima guerra mondiale, dal contado veneto.
Ne fu conseguenza evidente il saldo della popolazione relativo al periodo 1926-1935, con esito positivo perché il numero degli emigrati era inferiore rispetto a quello degli immigrati. Il fenomeno fu particolarmente consistente negli anni venti e trenta e Silvana Patriarca lo documenta attraverso la corrispondenza tra il podestà di Gattinara e il prefetto di Vercelli. In una lettera del 1933 quest'ultimo lamentava che "la continua immigrazione di forestieri e specialmente Veneti, di condizioni finanziarie miserissime, viene a creare in questo comune una situazione veramente insostenibile [...]25" e in un'altra, del 1930, si avvisava il prefetto che "in un primo tempo tale immigrazione [quella delle famiglie venete] non destava nessuna preoccupazione anche perché i locali stabilimenti industriali assorbivano facilmente tutta la mano d'opera disponibile, essendo in piena attività di lavoro e di sviluppo. Ora però, colla crisi economica generale, anche queste industrie hanno diminuito le ore lavorative e procedono a numerosi licenziamenti, creando una sensibile disoccupazione locale: nonostante ciò l'immigrazione veneta continua"26.
Particolarmente interessante, grazie all'industria tessile, si mostrò l'area di Biella, dove giunsero, come nel resto della regione, numerosi veneti. Nella seconda metà degli anni venti, infatti, alcuni imprenditori locali, attraverso contatti diretti, stimolarono l'immigrazione di giovani dal Nord-Est.
"Nelle nostre fabbriche, qui, i veneti sono venuti quando si è sviluppata la filatura a pettine. Prima della guerra c'era solo la filatura cardata, le filature a pettine si sono sviluppate dopo il primo conflitto mondiale. Allora, normalmente, le ragazze e i ragazzi che arrivavano, andavano a finire in filatura, non per discriminazione, perché erano veneti o non veneti, ma quasi per tradizione, c'era questa esigenza [...]"27.
"La Valsessera raccolse anche le emigrazioni che vennero dalla bassa Novarese, dalla bassa Vercellese, raccolse anche la parte specializzata del Pratese, delle fabbriche di Schio: Marzotto, Valdagno, Schio [...] quindi manodopera estremamente qualificata che si trasferì nel Biellese dove l'industria laniera allora, fine anni venti inizio trenta; viveva una grande espansione [...]"28.
Come si coglie da queste testimonianze e come si mostrerà nelle successive pagine, questa parte di Piemonte attrasse più di altre i flussi provenienti dal Veneto grazie alla presenza del settore laniero. Sarà dunque interessante descrivere la zona, in modo da poter fare un confronto con le terre di provenienza degli immigrati e per far capire che paesaggio trovarono al loro arrivo, segnalando anche le conseguenze ancora evidenti sulla geografia del territorio, dovute alle necessità degli impianti e dei nuovi lavoratori.

Il territorio biellese

Prima di tutto, come si è fatto per il Piemonte in generale, bisogna ricordare che anche il Biellese fu coinvolto negli esodi di massa che sconvolsero l'Europa durante il Novecento. Fu un fenomeno legato all'economia e segnato sin dai tempi remoti dagli squilibri tra risorse e bocche da sfamare, in particolar modo sulle montagne. Ma una peculiarità caratterizzava i suoi emigranti: le capacità professionali che permisero a molti biellesi di diventare imprenditori nei luoghi in cui si trasferirono.
Come nel resto d'Italia, in piena rivoluzione industriale, l'emigrazione raggiunse livelli molto elevati, garantendo perciò il rientro di denaro sotto forma di rimesse. Secondo una stima fatta da Quintino Sella, negli anni sessanta dell'Ottocento, esse raggiunsero le 600.000 lire annue29, pari al prodotto netto del settore agricolo.
Tra il 1901 e il 1911 i casi di emigrazione da quest'area furono 52.262 ed il fenomeno fu intenso nella valle del Cervo, priva di attività industriali, e nel sistema agricolo collinare del Biellese orientale; invece nelle vallate dove meglio si insediò l'industria, come la Valsessera, molti partirono perché poco inclini ad entrare nel sistema della fabbrica, un passaggio non sempre facile da compiere.
Quei momenti difficili non costituirono comunque un freno per il progresso nelle vallate laniere, che seppero a loro volta trasformarsi in bacini di richiamo per la manodopera disponibile30.
Nonostante una scarsa estensione, la mancanza di vie di comunicazione, la povertà del suolo e la presenza delle montagne sul 75 per cento del territorio, il Biellese divenne il centro industriale tessile di primaria importanza che oggi tutti conoscono. Rappresentava un'area privilegiata grazie alla presenza di alcuni fattori che ne favorirono il decollo, tra cui bisogna ricordare la disponibilità di risorse essenziali e l'abbondanza di fattori imprenditoriali, di manodopera e di intraprendenza.
I biellesi erano instancabili lavoratori; un tempo contadini poi piccoli commercianti, seppero trasformarsi in ottimi industriali, innalzando ad alti livelli un'attività presente da tempi remoti e nata per necessità. Infatti la storia del tessile in quest'area ha radici profonde, che risalgono sino al Medio Evo: ad esempio nel 1310 i tessitori emanarono lo statuto della loro corporazione disciplinando un'attività che risaliva ad anni ancor più lontani. Certo allora il Biellese non era ancora competitivo, sia per il suo isolamento sia per la sua marginalità politica, che lo penalizzò rispetto ad altri centri. Inoltre la produzione laniera si limitava ancora a panni grossolani, richiesti soprattutto dalle classi popolari. Quando però Biella si inserì nell'orbita dei Savoia, si ampliò il mercato nell'area francese e verso i porti liguri, accrescendo progressivamente la produzione31.
Fu così che in età moderna il Piemonte poté sviluppare una fiorente attività laniera, concentrata proprio grazie al Biellese, che nonostante l'infelice posizione divenne uno dei centri europei della lana.
In seguito, a fasi alterne, alcune aziende giunsero, ai tempi dell'unificazione nazionale, ad un alto livello di sviluppo, partecipando con i loro prodotti alle esposizioni internazionali che si svolgevano a Londra, Parigi e Vienna. Negli anni di maggior fervore ci furono anche iniziative di grande spirito innovativo, come la Scuola professionale fondata da Quintino Sella, con lo scopo di preparare validi tecnici, o ancora la Società di mutuo soccorso dei tessitori, istituita a Croce Mosso già nel 1873 e gestita totalmente da operai32.
L'epoca fino al secondo decennio del Novecento fu particolarmente buona e gli operai passarono dai 31.000 del primo Ottocento a 65.000. Con la prima guerra mondiale crebbe la produzione dei panni destinati alle truppe e i 400.000 metri annui prodotti negli anni di pace aumentarono di novanta volte, due terzi dei quali venivano prodotti nel solo Biellese. Erano chilometri di panno grigio-verde e di flanella, cui si sommarono le forniture per le coperte e le maglie. Il profitto salì, con tassi che oscillavano da un minimo dell'1,24 per cento a un massimo del 18,74 per cento33.
Nel dopoguerra le industrie locali furono pronte ad adeguarsi alle nuove esigenze, anche se non poterono comunque assorbire tutta la manodopera disoccupata generata dalla chiusura di aziende di altri settori che patirono maggiormente le vicende del conflitto.
Anche durante gli anni del fascismo, che come si è detto non furono facili, le vallate biellesi ressero bene, tanto da poter rilanciare già nel 1928 l'esportazione. Addirittura il numero delle fabbriche era aumentato, passando dalle 177 del 1914 alle 760 del 192634.
La seconda guerra mondiale fu superata con altrettanto successo, nonostante le maggiori perdite umane; infatti in quest'area gli impianti erano rimasti illesi e non c'erano problemi di energia elettrica come altrove. La manovalanza era disponibile in misura abbondante e anche il lavoro non tardò ad arrivare, specialmente dagli stranieri. Dunque, nella fase della ricostruzione, Biella accrebbe la propria solidità e nel 1952, su 43.000 abitanti 23.500 erano occupati in quel settore: il 54 per cento della popolazione35.
La presenza di abili imprenditori36 e di una lunga tradizione non sono sufficienti a spiegare il successo del Biellese. Alcuni fattori di localizzazione furono infatti determinanti per lo sviluppo delle vallate laniere coinvolte in seguito dagli spostamenti migratori. L'industria tessile richiedeva manodopera disponibile, che qui era in eccedenza a causa dell'esodo dalle campagne, dove l'agricoltura non era più sufficiente a sfamare la popolazione. Ancora più importante era però la presenza di risorse fisiche indispensabili nel ciclo produttivo.
Le fabbriche, dove si concentravano materie prime, uomini e macchine, avevano vincoli evidenti dipendendo dalle fonti di energia; per questo nel Biellese i primi lanifici sorsero dove c'erano corsi d'acqua ripidi, che fornivano l'energia necessaria attraverso sistemi di ruote ed alberi di trasmissione, utilizzati per mettere in movimento le macchine.
Tutto ciò in quest'area del Piemonte era disponibile. Il Biellese infatti comprendeva il territorio a sud del Monte Rosa, tra la Valsesia e la Valle d'Aosta, aperto ad oriente verso la pianura di Vercelli e di Novara. Pur avendo un suolo montuoso, era caratterizzato da vallate che si ramificavano tra le catene di monti principali e quelle secondarie, attraversate da corsi d'acqua che ad esse davano il nome: Sessera, Strona, Cervo, Oropa ed Elvo, dove sorsero i più importanti paesi industriali, come Coggiola, Pray, Strona, Trivero, Valle Mosso, Mosso Santa Maria e Veglio Mosso37.
Sulla riva sinistra del Cervo, il fiume che attraversa Biella, c'era ad esempio il complesso delle Manifatture biellesi, i cui edifici sorsero direttamente sulle sponde rocciose. Solo più tardi, con l'adozione della forza del vapore prima, e dell'elettricità poi, le aziende si spostarono progressivamente verso la pianura38. Quando l'industria si svincolò dall'energia idraulica si verificarono due fattori contrastanti: alcune fabbriche scesero nelle valli più basse o nei centri di nuova industrializzazione (Cossato e Vigliano), generando la cosiddetta "pianurizzazione"; altre imprese, invece, risalirono in centri per tradizione lanieri, come Trivero, che divenne il secondo centro del Biellese39.
Un caso particolare di localizzazione era quello della valle del Ponzone, in ritardo rispetto alle altre vallate a causa del pessimo collegamento col territorio circostante e per la mancanza di mulini, che spesso erano stati i predecessori degli opifici. Anche in questo caso giocò un ruolo decisivo la presenza dell'acqua, che attirò gli interessi degli industriali che vi costruirono vicino i loro stabilimenti, generando anche in questi luoghi buone opportunità di lavoro.
In merito all'arrivo di forestieri non si può trascurare un'altra importante vallata tessile: la Valsessera, lunga una decina di chilometri e comprendente otto comuni (Crevacuore, Coggiola e Pray sono i principali, seguiti da Portula, Guardabosone, Postua, Ailoche e Caprile). L'accesso principale collega la Valsessera a Serravalle Sesia e Borgosesia, altri importanti centri del settore industriale, mentre attraverso valli laterali si accede a quelle di Ponzone e Mosso, dense di filature e lanifici.
Il torrente Sessera fu la ragione primaria della presenza industriale: gli Ubertalli e i Bozzalla, cercando energia, scesero in questa vallata insediandovi, già nella seconda metà dell'Ottocento i loro stabilimenti. Essi all'inizio erano addensati nella parte più alta della valle - nel territorio di Coggiola - ma con il progresso tecnologico poterono espandersi verso i comuni di Pray e Crevacuore. Fu così che la Valsessera poté vantare numerosi lanifici: a Masseranga, fino al 1970, c'era la Bozzalla & Lesna; scendendo si trovava il lanificio Fratelli Fila, sulle due sponde del torrente, che negli anni sessanta aveva ben seicento dipendenti (era una delle aziende maggiori con prodotti di alta qualità); tra Coggiola e Pray c'era la fabbrica Bruno Ventre & Bardella; a Zuccaro la tintoria Bollo.
Pray, negli anni del boom economico, divenne un centro importante, dove erano attivi molti lanifici: Giovanni Tonella, Adolfo Trabaldo, Fratelli Trabaldo di Pianceri, Lora Totino, Filatura di Pray e Zignone. Crevacuore invece era sede della Bozzalla fu Federico e della filatura Diana, oltre che di attività extra tessili, come le due cartiere e il salumificio40.

I segni sul territorio

Gli indici di concentrazione industriale relativi agli anni 1887 e 1911 documentano una forte tendenza di rafforzamento del sistema industriale biellese, rendendo questa zona il centro propulsivo dell'industria laniera. "Il processo spaziale si manifesta in modi differenziati, che vanno dalla tonificazione di aree laniere tradizionali (valle Elvo, bassa valle Cervo, valle Strona) al forte sviluppo della valle Sessera, mentre si delinea nell'asse Chiavazza-Vigliano- Cossato una catena di nuove localizzazioni"41.
Nonostante numerose inondazioni dei corsi d'acqua avessero devastato alcune fabbriche tessili, di cui oggi sono visibili le rovine, molti elementi testimoniano il forte impatto che lo sviluppo industriale ebbe sul territorio. Quando giunsero in questa zona, probabilmente, gli stessi emigrati furono spaesati alla vista di tutte quelle ciminiere. Erano i segni di un'attività produttiva.
La presenza degli stabilimenti costituiva la prova più evidente, intorno alla quale sorsero poi altre strutture. L'archeologia industriale (disciplina che studia i resti fisici del mondo della produzione industriale) si è sin dall'inizio interessata agli opifici del Biellese.
I primi furono costruiti con le materie prime presenti sul territorio: pietra e legno, scelti fino agli anni sessanta soprattutto per fattori economici. Mancavano di ricercatezza figurativa e spesso non erano neanche rifiniti.
Durante il XIX secolo il modello più seguito fu quello delle fabbriche a più piani, a causa del sistema di distribuzione dell'energia idrica, cui erano legate anche le dimensioni dell'edificio stesso42.
La verticalità fu abbandonata con l'introduzione dell'energia elettrica: non solo le aziende poterono essere costruite lontane dai torrenti, ma la localizzazione in zone pianeggianti consentì anche lo sviluppo orizzontale. Il caso più tipico fu allora quello delle grandi fabbriche a shed, capannoni spesso costruiti ai confini degli insediamenti abitativi, che testimoniavano "il processo economico e sociale che ha fatto di questa zona (per tutto l'Ottocento e buona parte del Novecento) lo York Shire d'Italia"43.
Allo stesso tempo venne introdotto l'uso del cemento armato, con un migliore sfruttamento degli edifici e una maggiore illuminazione. Tutto ciò mutò sensibilmente l'ambiente di lavoro, in cui furono impiegate le masse provenienti dalle zone più arretrate.
Ma altri segni modificarono il territorio, legati alle esigenze del mondo industriale e dei suoi uomini. Canali e opere pubbliche vennero costruiti per facilitare il processo di produzione, come dimostra la presenza di chiuse, dighe e impianti di regolazione (legati ancora una volta al bisogno di energia idrica)44.
Importante fu anche la costruzione di linee ferroviarie, che facilitarono lo sviluppo tessile. Il Biellese sarebbe stata un'area isolata se non fossero state aperte importanti vie di comunicazione, a partire dal 1854 con l'inaugurazione della ferrovia Biella-Santhià che collegava la città con Torino e Genova. Seguirono nel 1882 la tramvia Biella-Cossato, nel 1890 la tramvia Biella-Vercelli, nel 1891 la ferrovia Biella-Valle Mosso, la Biella-Mongrando e la Biella-Balma. Gli industriali della Valsessera promossero inoltre la costruzione del tratto che dal 1901 avrebbe collegato Coggiola e Grignasco, passando per Pray, Crevacuore, Bornate e Serravalle Sesia e allacciandosi oltre il fiume Sesia alla linea Novara-Varallo45.
Migliorò anche il sistema stradale, quasi inesistente agli albori dell'industrializzazione. Infatti Biella e gli altri centri erano collegati a Torino solo da antiche mulattiere, mal tenute e interrotte da corsi d'acqua da attraversare a guado. Se da una parte questo poteva salvaguardare la produzione locale dalla concorrenza esterna, gli imprenditori compresero la necessità di costruire strade carrozzabili. Anzi il miglioramento qualitativo dei prodotti tessili e la progressiva importanza dell'esportazione di manufatti rese le vie di comunicazione fattori privilegiati di localizzazione per le fabbriche.
Infrastrutture e stabilimenti facilitarono i cicli produttivi e l'insediamento di operai nei centri principali. La manodopera necessitava però, oltre ad ambienti di lavoro all'avanguardia, di case disponibili nei pressi delle fabbriche; un problema affrontato dagli stessi imprenditori e che lasciò, come gli elementi sopra descritti, segni tangibili sul territorio.
Nella seconda metà del XIX secolo, in Italia, furono costruiti diversi villaggi operai, di cui gli esempi più significativi erano a Schio (Vicenza), Crespi (Bergamo) e Collegno (Torino). Alle loro spalle si celavano utopie dell'Ottocento che volevano risolvere le drammatiche condizioni delle città industriali, attraverso l'applicazione di un nuovo modello produttivo, sociale e urbanistico46.
Le teorie che si diffusero a tal proposito in Europa furono però mutate nella pratica: gli industriali che promossero la costruzione di villaggi operai, infatti, non ricercavano il benessere dei loro dipendenti, ma piuttosto l'organizzazione razionale, vantaggiosa e produttiva che ne sarebbe derivata. Si trattava di vere e proprie comunità chiuse, microcosmi autosufficienti che ruotavano intorno alla fabbrica e che creavano così un forte legame tra essa e gli operai, tenuti più facilmente lontani dalle idee sovversive che spesso si diffusero nelle grandi città.
In Piemonte sorse la Borgata Leumann, a una decina di chilometri da Torino, con cinquantanove villini e case costruiti tra il 1877 e il 1906, progettati da Pietro Fenoglio, con una varietà di forme e di effetti decorativi. C'erano ben otto modelli di casa operaia, con due o quattro alloggi isolati, abbinati o in fila lungo intere vie 47.
Nel Biellese questi modelli non ebbero un particolare sviluppo poiché gran parte della manodopera era del posto. Ma ci furono comunque eccezioni, come il Villaggio Poma a Miagliano. In seguito ai flussi immigratori però anche gli imprenditori biellesi dovettero affrontare la questione con conseguenze nell'edilizia sociale: essi costruirono soprattutto servizi (scuole, asili e negozi), come accadde a Trivero nel Centro Zegna, costruito tra le due guerre mondiali per la necessità di legare gli operai alla fabbrica, evitando che abbandonassero così il paese per recarsi nei nuovi centri produttivi48.
Ciononostante l'esperienza delle case operaie costituì una prova per le scelte costruttive e le tipologie architettoniche in seguito applicate su vasta scala. Il problema delle abitazioni restava drammatico, soprattutto nelle grandi città che non erano pronte ad accogliere le nuove concentrazioni di manodopera. Come conseguenze di tali spostamenti nacquero allora numerose imprese edilizie: esse dovevano costruire abitazioni, sane e comode, che rispondessero ai criteri di moralità spesso trascurati. Il numero degli ambienti doveva essere adeguato alla composizione famigliare, alle norme igieniche, di riscaldamento e di ventilazione49. Le imprese di costruzione sorte per dare case agli immigrati, giunti in cerca di lavoro, a loro volta offrirono quindi domanda di manovalanza.
In alcuni casi il modello delle casette fu sostituito da "casermoni" a più piani, con numerosi alloggi e destinati a più famiglie. Essi sorsero sia nei grossi centri, dove il costo del suolo era troppo elevato per erigere casette operaie con giardino, sia in quelli minori diffusi in tutta la zona biellese, ad esempio Pray e Coggiola.
A villaggi e quartieri operai si contrapponevano poi le signorili ville padronali, che ancora oggi si distinguono nei vari paesi; spesso erano edificate in posizioni dominanti rispetto alle altre abitazioni (come la villa di Serafino Trabaldo a Pray) o all'azienda. È evidente che anche la geografia urbana sottolineava le gerarchie sociali e i rapporti di forza tra i nuovi industriali e i loro dipendenti.

Il patronato

Il fatto che la maggior parte degli imprenditori biellesi avesse cercato di venire incontro alle esigenze delle classi operaie potrebbe essere interpretato come una manifestazione di filantropia. Non si trattava in realtà di un amore reale quanto, piuttosto, dell'opportunità di migliorare le loro condizioni di vita, in modo da legare a sé le masse operaie, incrementando il loro attaccamento al lavoro e la produttività.
Il Biellese si caratterizzava per la presenza di una classe imprenditoriale lungimirante. Con lo sviluppo del Novecento gli industriali svolsero il loro ruolo nella contrapposizione di classe per ottenere il maggior profitto e aumentare la capacità produttiva. Il controllo degli uomini aveva la stessa importanza della disponibilità di risorse materiali. Da queste basi comuni si formarono varie tipologie di industriali, ben identificati da Marco Neiretti e Giovanni Vachino.
Il primo caso era quello degli industriali di origine manifatturiera, organizzati in complessi parentali; il secondo era costituito da industriali di origine più recente che avviarono attività dopo l'esperienza nelle vecchie manifatture. Infine gli industriali provenienti dal ceto operaio, che avevano saputo creare imprese nuove50.
Indipendentemente dalla tipologia, tutti vivevano direttamente la vita della fabbrica, impegnandosi in prima persona nei diversi ambiti, dalla direzione alle applicazioni tecniche fino al commercio dei manufatti. La loro vita era condizionata dal lavoro, così come quella degli operai. Se avevano fabbriche di piccole o medie dimensioni, svolgevano al loro interno diverse mansioni (si occupavano del funzionamento tecnico e della vendita dei prodotti). La famiglia industriale poteva contare su tutti i membri, che si dividevano i compiti. Alcuni vivevano presso gli stabilimenti e in genere costituivano una figura molto presente sul lavoro, che gli operai rispettavano e a cui facevano riferimento. Erano gli anni delle "famiglie-azienda", in cui i vincoli di solidarietà sostituivano i vecchi equilibri sociali, resi fragili dai cambiamenti portati dallo sviluppo e dal nuovo mondo lavorativo51.
Ai dipendenti furono così offerti standard di vita - relativi ad abitazioni, salute, educazione e divertimento - migliori rispetto alle condizioni di partenza. Nei villaggi gli industriali assunsero il ruolo mitico del "padre fondatore" cui era affidata non solo l'organizzazione del lavoro, bensì anche quella della vita privata.
La gente che giungeva nelle vallate tessili dal mondo rurale entrò in un ambiente sconosciuto, creato proprio dagli industriali e dalle istituzioni con lo scopo di soddisfare i bisogni primari e rimuovere i malesseri sociali. Questo intenso legame tra le aziende e le necessità dei dipendenti era esplicito nella presenza dei convitti operai, costruiti per ospitare le maestranze vicino ai luoghi di lavoro, se non addirittura all'interno della loro cinta muraria. Tra i diversi casi si può ricordare ancora una volta il Villaggio Leumann di Collegno, dove sorse un convitto nel 1906, o la Manifattura di Aranco, dove furono resi disponibili trecentoventi posti letto52.
La soluzione dei convitti era già stata anticipata in talune aziende agricole in cui erano stati allestiti stanzoni destinati ai lavoratori stagionali, così come erano stati riservati ambienti per i servitori dei complessi signorili.
Oltre alle abitazioni, ma sempre in relazione alla presenza industriale e ai bisogni degli operai, si pose la questione degli altri servizi. Si diffusero in quegli anni i luoghi di scambio e di consumo dei prodotti, come i mercati coperti, che caratterizzarono molte città italiane con edifici ampi, spesso in ferro e vetro, molto simili alle stazioni ferroviarie. Il mercato coperto di Torino risale al 191153.
Inoltre molti imprenditori fecero costruire asili infantili, scuole, ambulatori, refettori, lavatoi, bagni pubblici, palestre, teatri e magazzini alimentari54.
Non ci furono solo le iniziative a favore del proletariato. Nel Biellese si assiste ad un'organizzazione efficace degli imprenditori: inizialmente con società costituite per difendere i loro interessi, affermandoli nei confronti della concorrenza straniera e degli operai. Al 1900 risale la Lega industriale biellese, che riuniva tutti gli industriali del circondario, tessili e non.
Dopo la guerra mondiale le organizzazioni padronali si riunirono nella Federazione industriale biellese, con sede a Biella e a cui fecero riferimento le aziende del territorio. Particolarmente rilevante per il settore tessile fu però l'Associazione dell'industria laniera italiana, fondata nel 1877 per favorire questa categoria e il cui presidente fu Alessandro Rossi, celebre industriale di Schio. Sebbene la guida dell'organizzazione fosse poi passata a personaggi locali (Serafino Vercellone, Edmondo Boggio, Pietro Ubertalli, Silvio Mosca e Corradino Sella) il legame tra Biellese e Vicentino ne fu comunque influenzato55.

La cultura del lavoro nel Biellese

Le persone giunte con le ondate migratorie che sconvolsero l'assetto del Biellese dovettero confrontarsi con i lavoratori che qui erano nati e cresciuti, i quali avevano una cultura e un atteggiamento verso il lavoro in fabbrica completamente diversi rispetto ai primi56. Si vuole ora meglio illuminare l'ambiente in cui gli immigrati avrebbero dovuto inserirsi. Il tessile qui aveva radici profonde e l'avvento del sistema fabbrica fu repentino, se confrontato con le aree meno sviluppate d'Italia. Gli operai locali si erano trovati nella condizione di assumere una coscienza di classe molto forte, che trovò spazio attraverso il movimento operaio.
Il passaggio dal mondo agricolo a quello industriale avvenne nell'arco di due generazioni, contrapponendo alla vecchia struttura sociale, basata sulla famiglia, una nuova organizzazione che aveva come riferimento la fabbrica57. La prima, che era sempre stata di tipo patriarcale, si ridusse progressivamente di numero di componenti, diventando mononucleare nella maggior parte dei casi. Al suo interno le donne si fecero spazio, vedendo aumentare le loro responsabilità e, soprattutto, il loro contributo al bilancio domestico. I giovani invece abbandonavano sempre più precocemente la casa dei genitori, cambiando anche residenza per avvicinarsi al lavoro. Crebbe anche la loro preparazione grazie alla diffusione di scuole e corsi tecnici, svolti spesso alla sera per facilitare chi già lavorava.
Gli operai cominciarono a frequentare biblioteche, a leggere il giornale e ad impegnarsi in attività come quella delle bande musicali. Proprio queste ultime furono un tipico elemento della cultura di massa, che riproponeva la musica colta, rivisitata, richiamando i valori locali. Le bande dunque dovevano "dare spazio alla permanenza di elementi folklorici e tradizionali contrapposti alle novità omologate della modernità. Alternativa nel senso del mantenimento di una sia pur larvata, istintiva, coscienza di classe"58.
Mobilità territoriale quindi, ma anche vivacità culturale, con l'adattamento della mentalità ai nuovi standard di vita, tanto lontani da quelli rurali da richiedere un consapevole processo di acculturazione. Gli industriali seppero tenere il passo con lo sviluppo dei maggiori centri europei e i loro dipendenti non furono da meno59.
Nel Biellese quasi tutti lavoravano in fabbrica, anche donne e bambini (impiegati già nei primi laboratori con gravi conseguenze sulla loro salute). Le condizioni a cui dovettero adeguarsi erano molto dure e non mancavano infortuni o malattie legate ai mestieri svolti60.
I locali in cui si lavorava erano spesso malsani, innanzitutto a causa dell'umidità arrecata dai vicini torrenti, oltre al freddo e alla cattiva illuminazione. A ciò bisogna poi aggiungere i rumori causati dai macchinari, gli odori dei prodotti usati in tintoria, i pericoli delle cinghie di trasmissione, le polveri dannose che impregnavano l'aria. Le persone si ammassavano per ore, stremate, e i più deboli persero la salute, con malformazioni e stanchezza eccessiva.
La qualità della vita, oltre ad essere scarsa nell'ambiente di lavoro, era scadente anche nel contesto esterno: l'alimentazione era insufficiente, le case malsane, l'assistenza medica scarsa e l'alcoolismo diffuso.
Le donne lavoravano nelle produzioni tessili, svolgendo anche mansioni pesanti, in turni di notte e con ritmi che potevano superare le 12-14 ore giornaliere. Senza dimenticare che la loro manovalanza era pagata meno rispetto a quella maschile, nonostante (specie con l'introduzione del telaio meccanico) svolgessero le stesse mansioni che un tempo erano riservate agli uomini.
Anche i minori erano sfruttati, con casi estremi di bambini di sette e otto anni: negli anni ottanta dell'Ottocento il lavoro minorile copriva il 15 per cento dell'intera occupazione ed era concentrato proprio nei lanifici61.
In seguito al precoce inserimento di quasi tutta la popolazione biellese nelle fabbriche, a causa dei migliori guadagni che esse garantivano alle famiglie, si poté cominciare ben presto a parlare dell'esistenza di un vero e proprio proletariato, che con l'arrivo degli immigrati aumentò ulteriormente la consapevolezza come classe sociale. Il Biellese fu anzi una specie di banco di prova per l'industria italiana, dove si posero per la prima volta i problemi e i malesseri tipici dell'industria moderna accentrata62. In un simile contesto gli operai cominciarono a riunirsi per migliorare la loro condizione e le donne svolsero in molti episodi un ruolo attivo.
Nel 1886 il Biellese contava sessantaquattro società di mutuo soccorso, attive nei comuni dell'intera area e specialmente in quelli a carattere industriale. Erano composte da lavoratori appartenenti ai diversi settori di occupazione (operai, contadini, artigiani e industriali).
Anche l'ambiente politico fu coinvolto dai movimenti delle classi proletarie, in particolare con la fondazione del Partito socialista - nel 1892 - e della Camera del lavoro di Biella, nel 1901. A quest'ultima aderivano le leghe operaie attive da qualche anno nelle valli Strona e Ponzone, in Valsessera e la Lega tessile biellese63.
Lo sciopero fu lo strumento principale per esprimere i conflitti e le richieste, con le astensioni dal lavoro di gruppi coordinati. Nel Biellese si potevano distinguere due tipi di sciopero: uno per la difesa delle prerogative di mestiere dei tessitori, con grandi scontri sui regolamenti di fabbrica; il secondo per farsi invece riconoscere alcuni elementari diritti. In seguito alle agitazioni del 1863, il Biellese fu sotto gli occhi dell'intera nazione. Fu allora che venne concesso uno schema di regolamento di fabbrica. Si trattava di un contratto collettivo, che fissava alcune regole che avrebbero dovuto rispettare sia gli operai sia gli imprenditori; furono allora stabilite anche delle penali, da pagare in caso di ritardo, assenza, danni alle attrezzature e ai prodotti.
Non mancarono inoltre episodi sfociati nella violenza, come ad esempio a Valle Mosso, nel 1877, dove ci fu la mobilitazione dell'esercito e per cui intervenne anche Quintino Sella, evitando una dura repressione poliziesca64.
Nel corso dei primi anni del Novecento gli scioperi continuarono, coordinati su tutto il territorio e in valle Strona e Valsessera, dove c'erano comunque buone condizioni salariali, ripresero anche con la guerra, fino a ottenere un miglioramento dei salari e delle normative.
Un'ultima conseguenza del processo di industrializzazione è la diffusione dell'anticlericalismo. Tenendo presente la religiosità molto forte dei veneti, si coglie facilmente la differenza tra gli ambienti delle due regioni. Nel Biellese le masse operaie si scristianizzarono: aumentarono sensibilmente i casi di matrimoni e funerali civili, gli industriali smisero di legare la loro beneficenza alla Chiesa, entrando addirittura in conflitto con essa per il lavoro nei giorni festivi.
(1- continua)

Note


* Saggio tratto dalla tesi di laurea Da un Nord all'altro. Aspetti, problemi, vite vissute dell'emigrazione veneta nel Biellese del Novecento, Università del Piemonte orientale, Facoltà di Lettere e Filosofia, a. a. 2001-2002, relatore prof. Claudio Rosso.

1 Delisio Villa (a cura di), La valigia dell'emigrante. L'emigrazione nell'area bassanese da Asiago alla Valsugana, da Marostica alla Pedemontana del Grappa, da Breganze a Sondrigo e Castelfanco, Vicenza, La Valigia, 1999, p. 88.

2 Paola Corti - Chiara Ottaviano (a cura di), Fumne. Storie di donne, storie di Biella, Torino, Cliomedia, 1999, p. 140.

3 Si veda Simone Cinotto (a cura di), Colture e culture del riso: una prospettiva storica, Vercelli, Mercurio, 2002.

4 Per una panoramica divulgativa ma fondamentale, su solida base documentaria, si può vedere Gian Antonio Stella, L'orda. Quando gli albanesi eravamo noi, Milano, Rizzoli, 2002.

5 Matteo Sanfilippo, Tipologie dell'emigrazione di massa, in Piero Bevilacqua - Andreina De Clementi - Emilio Franzina (a cura di), Storia dell'emigrazione italiana. Partenze, Roma, Donzelli, 2001, pp. 79-84.

6 Valerio Castronovo, Una nuova realtà umana e sociale, in V. Castronovo (a cura di), Storia d'italia per regioni. Il Piemonte, Torino, Einaudi, 1978, pp. 613-619; cfr. inoltre Pietro Francardi, I pascoli nei comuni montani del Piemonte, Torino, Camera di commercio industria e agricoltura di Torino, 1958.

7 V. Castronovo, op. cit., pp. 619-632.

8 Idem, p. 615.

9 Stefano Musso, Il lungo miracolo economico. Industria, economia e società (1950-1970), in Nicola Tranfaglia (a cura di), Storia di Torino, Torino, Einaudi, 1999, p. 75.

10 V. Castronovo, op. cit, pp. 646-654.

11 Per ulteriori approfondimenti cfr. Adriano Olivetti, Appunti per la storia di una fabbrica, in "Il Ponte", a. V, n. 8-9, agosto-settembre 1949.

12 Aa. Vv., I nuovi immigrati, in Aa. Vv., L'Italia delle regioni, Milano, Touring club italiano, 1997, p. 31.

13 Sulla nascita e lo sviluppo dell'industria tessile si vedano ad esempio Giuseppe Venanzio Sella, Notizie sull'industria laniera, in "Stella d'Italia", 7 settembre 1863; Vincenzo Ormezzano, Il Biellese ed il suo sviluppo industriale, Varallo, Unione tipografica valsesiana, 1929.

14 Sullo sviluppo delle piccole imprese cfr. V. Castronovo, op. cit., pp. 633-638.

15 Monica Bassotto Paltò, Donne e lavoro. Industria e immigrazione nel Biellese (1900-1930), in "l'impegno", a. XVIII, n. 2, agosto 1998, p. 1.

16 Vera Zamagni, Dalla periferia al centro, Bologna, Il Mulino, 1990, p. 325 e cfr. S. Lombardini, La grande crisi in Italia, politica od economica?, in "Rivista milanese di economia", n. 21, 1987.

17 Teresio Gamaccio, L'industria laniera fra espansionismo e grande crisi. Imprenditori, sindacato fascista e operai nel Biellese (1926-1933), Borgosesia, Isrsc Vc, 1990, pp. 2-3.

18 S. Musso, op. cit., pp. 54-58.

19 V. Castronovo, op. cit., p. 655.

20 Sergio Soave, Socialisti e comunisti nelle campagne piemontesi dalla guerra all'avvento del fascismo, in Aldo Agosti - Gian Mario Bravo (a cura di), Storia del movimento operaio, del socialismo e delle lotte sociali in Piemonte, Bari, De Donato, 1980, pp. 89-105.

21 Si veda ad esempio Arnaldo Colombo, Le mondariso nel ventennio fascista, in Patrizia Dongilli (a cura di), Aspetti della storia della provincia di Vercelli tra le due guerre mondiali, Borgosesia, Isrsc Vc, 1993.

22 Per uno studio specifico cfr. S. Cinotto (a cura di), op. cit.

23 A. Colombo, op. cit.

24 Silvana Patriarca, Un'analisi di microstoria. Famiglie contadine a Gattinara nel '900, in "l'impegno", a. I, n. 1, dicembre 1981 e a. II, n. 1, marzo 1982.

25 Archivio di deposito del Comune di Gattinara, cat. XI, classe I, fasc. 25.

26 Archivio di deposito del Comune di Gattinara, cat. XII, classe I, fasc. 8.

27 Intervista a Giovanni Ronzani, in Alberto Lovatto, L'ordito e la trama. Frammenti di memorie su lotte e lavoro dei tessili in Valsessera negli ultimi cinquant'anni, Genova, La clessidra; Borgosesia, Cgil Valsesia-Isrsc Vc, 1995, p. 39.

28 Intervista a Angelo Togna, in idem, p. 40.

29 Marco Neiretti - Giovanni Vachino (a cura di), La lana e le pietre. Il Biellese nell'archeologia industriale. Le Valli orientali, Biella, Città Studi, 1987, p. 18.

30 Sullo sviluppo industriale cfr. Franco Ramella, Terra e telai, sistemi di parentela e manifattura nel Biellese dell'Ottocento, Torino, Einaudi, 1984.

31 Jas Gawronski, Bozzalla & Lesna storia di uomini, Milano, Dragan & Bush, 1987, p. 9.

32 M. Neiretti - G. Vachino, op. cit., p. 102.

33 J. Gawronski, op. cit., p. 65.

34 Idem, p. 80.

35 Sull'occupazione nelle industrie si veda Claudio Dellavalle, La classe operaia piemontese nella guerra di liberazione, in A. Agosti - G. M. Bravo (a cura di), op. cit., p. 304.

36 Per approfondimenti sulla mentalità imprenditoriale cfr. ad esempio Guido Quazza, L'industria laniera e cotoniera in Piemonte dal 1831 al 1861, Torino, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, 1961.

37 T. Gamaccio, op. cit., p. 1.

38 Antonello Negri - Massimo Negri, Elementi del paesaggio industriale, in Lucio Gambi (a cura di), Campagna e industria i segni del lavoro, Milano, Touring club italiano, 1981, p. 139.

39 M. Neiretti - G. Vachino (a cura di), op. cit., p. 30.

40 A. Lovatto, op. cit., pp. 5-10.

41 M. Neiretti - G. Vachino (a cura di), op. cit., p. 76.

42 Idem, p. 142.

43 A. Negri - M. Negri, op. cit., p. 139.

44 Idem, pp. 182-183.

45 M. Neiretti - G. Vachino (a cura di), op. cit., p. 86.

46 A. Negri - M. Negri, op. cit., pp. 164-176.

47 Si vedano inoltre M. Leva Pistoi - M. Mantelli - L. Palmucci Quaglino, L'ambiente storico. Archeologia industriale in Piemonte, Torino, Tirrenia Stampatori, 1979; A. Abriani - F. Barbieri - R. Bossogria, Villaggi operai in Italia. La Val Padana e Crespi d'Adda, Torino, Einaudi, 1981.

48 M. Neiretti - G. Vachino (a cura di), op. cit., p. 76.

49 A. Negri - M. Negri, op. cit., p. 168.

50 Per maggiori dettagli si vedano F. Ramella, op. cit., e G. Quazza, op. cit.

51 S. Musso, op. cit., p. 62.

52 A. Negri - M. Negri, op. cit., pp. 172-173.

53 Si veda ad esempio Id, L'archeologia industriale, Messina-Firenze, G. D'Anna, 1978.

54 Id, Elementi del paesaggio industriale, cit., pp. 174-175.

55 M. Neiretti - G. Vachino (a cura di), op. cit., p. 130.

56 Si veda inoltre S. Musso, op. cit., pp. 63-69; cfr. Flavia Zaccone Derossi, L'inserimento nel lavoro degli immigrati meridionali a Torino, in Cris, Immigrazione e industria, Milano, Edizioni di Comunità, 1962.

57 Massimo Livi Bacci, La trasformazione demografica nelle società europee, Torino, Loescher, 1977, p. 57.

58 A. Lovatto, Bande musicali, fascismo, cultura popolare, cultura di massa, in P. Dongilli (a cura di), op. cit., p. 190.

59 V. Castronovo, op. cit., p. 654.

60 F. Ramella, op. cit., p. 263.

61 M. Neiretti - G. Vachino (a cura di), op. cit., p. 108.

62 M. Bassotto Paltò, art. cit., p. 4.

63 Per ulteriori informazioni S. Soave, op. cit., pp. 71-198; E. Bellomo, Settant'anni di socialismo in terra vercellese, Vercelli, Federazione vercellese del Psi, 1962.

64 M. Neiretti - G. Vachino (a cura di), op. cit., p. 116.

Maurizia Palestro
http://www.storia900bivc.it/pagine/editoria/palestro203.html

L'inserimento dei veneti nelle vallate laniere biellesi*



Nel saggio pubblicato sullo scorso numero si è cercato di trattare direttamente i fattori principali relativi alle migrazioni che hanno coinvolto il Biellese, terra d'opifici e bacino d'accoglienza per tutti quei veneti che hanno trapiantato là le loro famiglie, i cui discendenti ricordano le loro vicende e ne portano i cognomi.
Studiare questi casi presenta alcune difficoltà perché le migrazioni interne sono state a lungo trascurate dagli storici, più interessati ai lunghi viaggi verso continenti lontani. Inoltre, per ricostruire gli eventi dell'età contemporanea, sono importanti le storie private, gli archivi comunali e parrocchiali, così come le fonti orali.
Si sono quindi consultate ricerche di altri studiosi, a loro volta fondate su materiale d'archivio. Purtroppo il tempo gioca spesso a sfavore, cancellando fonti importanti. Ad esempio molti registri di aziende tessili che diedero lavoro agli immigrati sono andati perduti, magari in seguito ai cambiamenti di gestione che hanno caratterizzato gli anni più recenti, non particolarmente felici per molte fabbriche locali.
Senza l'opportunità di consultare questi testi la ricerca sarebbe stata impossibile. Non solo libri però: una preziosa serie di notizie è stata fornita dai veneti che si sono fatti intervistare, persone anziane che hanno vissuto direttamente l'esperienza dell'emigrazione, o i figli e nipoti che tante volte hanno ascoltato i loro racconti.
Ciò che colpisce è la voglia, il piacere che essi provano nel narrare la loro storia, l'orgoglio di aver saputo reagire di fronte alle difficoltà, arrivando a condurre una vita agiata; "erano tempi duri" è una frase che ricorre spesso, così come la considerazione di essersi adeguati a tutti i lavori pur di lavorare, ottenendo la riconoscenza dei padroni.
Si potrebbe paragonare ogni storia raccolta ad una "perla": qui si è cercato di unire queste perle con un filo, mostrando gli elementi che le accomunavano; non emergono solamente i fattori più ovvi, quali il luogo di provenienza o il lavoro in fabbrica che trovarono al loro arrivo, bensì anche gli echi delle problematiche relative alle migrazioni in generale. Chi ha eseguito analisi sui movimenti migratori si è soffermato su alcuni aspetti importanti e che in ogni caso si ripresentano, come i primi ostacoli da affrontare: trovare un posto di lavoro e una casa, imparare con difficoltà la lingua, adattarsi a una cultura diversa.
Occuparsi di spostamenti di popolazione significa studiare trasferimenti di risorse, con riferimento alla forza-lavoro; quindi l'uomo stesso, in questo caso, è una risorsa. Anche i veneti che abbandonarono la loro terra per giungere in Piemonte agirono per motivi economici, cioè alla ricerca di compensi maggiori rispetto a quelli garantiti dal lavoro nei loro paesi.
Gli spostamenti, però, causano sempre la rottura dei vecchi equilibri a spese della collettività. Il bisogno di assicurarsi i beni primari, il necessario per vivere, determinava le scelte dei diversi soggetti e i costi maggiori furono pagati dalle zone abbandonate, che persero enormi capitali umani, soprattutto membri delle generazioni più giovani e attive.
D'altra parte anche l'area di accoglienza subì mutamenti e ben presto si sentì la necessità di creare o migliorare le infrastrutture sul territorio, nonché i servizi, per accogliere al meglio i flussi in arrivo: ad esempio i collegamenti tra Biella e Valle Mosso, con la costruzione della ferrovia, il cui tratto ricopriva anche le valli del Ponzone e del Sessera1.
In cambio il Biellese ricevette un nuovo apporto umano e culturale, indispensabile per le valli chiuse e scarsamente popolate. Non va trascurato l'arricchimento demografico assicurato dalle giovani venete - e friulane - spesso ricordate come ragazze particolarmente robuste, mentre quelle del posto apparivano indebolite. Inoltre gli autoctoni poterono vedere migliorare la loro posizione sociale, dato che gli immigrati ai loro occhi, e specialmente durante i primi tempi, erano considerati inferiori2.
Un altro argomento che nella storia delle emigrazioni ha ricevuto una sempre crescente attenzione e che in questo caso è riscontrabile a tutti gli effetti, è il tasso di attività femminile, costantemente superiore al 50 per cento della popolazione, sia per l'influenza del lavoro a domicilio (le donne contribuivano al bilancio familiare curando l'orto, le bestie o utilizzando il telaio a mano), sia con l'impiego nelle industrie.

Fattori espulsivi dell'area vicentina

L'area che fornì la maggior manodopera al Biellese comprendeva alcuni comuni del Vicentino, che vissero anni molto difficili a causa di un'economia che non decollava e delle guerre che tanto martoriarono quella zona3.
Ascoltando gli intervistati si scopre che fattori espulsivi erano presenti sia nell'ambiente montano, sia in quello di pianura. I comuni della costa meridionale dell'Altopiano, oltre ad essere segnati dalla guerra, non conoscevano alcuno sviluppo. Le attività erano legate all'allevamento - quasi tutti avevano la stalla con le bestie - e al taglio del legname, i cui prodotti, oltre ad essere consumati, erano venduti nei paesi più a valle. Ma il guadagno era scarso e il trasporto richiedeva difficili trasferte, soprattutto durante i mesi invernali.
Chi invece viveva più in basso, nei centri maggiori come Marostica, Schio, Bassano e gli altri paesi del circondario, poteva contare minimamente sull'industria, nonostante la presenza di imprenditori all'avanguardia come Rossi e Marzotto, poiché lo sviluppo fu abbastanza lento, incapace quindi di assorbire tutta la manodopera locale.
Per tale motivo l'agricoltura restava un'attività di primo piano, ma non per questo sufficiente. Spesso i contadini non erano padroni della terra che lavoravano: vivevano in case affittate da un signore per il quale coltivavano i campi. In cambio ricevevano parte del raccolto, che però era soggetto alle calamità naturali, quali carestie, parassiti o tempeste, mettendo in questi casi a repentaglio la sussistenza dei braccianti e delle loro famiglie.
Gli emigranti lasciarono così quei luoghi che non potevano garantire un futuro migliore.
"Qua c'era proprio miseria, non c'era lavoro poi quando c'è stata la guerra l'hanno sentita tanto, c'erano profughi, sfollati. Quelli che avevano due mucche erano ricchi" (testimonianza di Luciana Angelino).
"Mio padre e gli altri sono venuti dal Veneto quando c'era poco lavoro [...] è arrivato qui da Marostica" (testimonianza di Vittorio Nichele).
"Ai miei tempi la vita era un po' dura, il lavoro non ce n'era, bisognava emigrare in giro, trovare lavoro. Erano tempi duri perché ciò che si poteva raccogliere per vivere... chi aveva le mucche, le galline, il maiale... ma chi non aveva niente doveva andarsene. Dopo si sono aperti i lavori.
Io sono venuto via che avevo 14 anni, erano tempi duri perché si doveva andare in montagna, con la neve, il freddo, a sciapar la legna, romperla, farla tutta a pezzettini, e poi scendevamo a Bassano, Marostica, tutti i paesi. Si partiva di notte, mezzanotte così, per arrivare giù il mattino presto. Tutto a piedi col carrettino per portare giù la legna perché non c'erano le strade asfaltate, senza mangiare. Si mangiava una volta venduta un po' di legna, si prendeva un po' di pane e lungo la strada, se c'era la frutta si mangiava, altrimenti pane e formaggio e quello che si trovava. E da Bassano si tornava col carrettino, a piedi a tirarselo su, e di nuovo sempre così tutti i giorni.
Quella era la vita che si faceva e il vestiario era quello che era, si mangiava quello che c'era, e poi si aveva tanta conoscenza delle erbe della montagna, e forse siamo vivi per quello. Poi le patate, c'erano i campi e si lavoravano, fagioli, ma erano tempi duri.
Quando avevo 11-12 anni sono andato a servire, a prendere le mucche sulle malghe, si andava a prendere le bestiole" (testimonianza di Silvano Rodighiero).
Emerge la difficoltà che caratterizzava la vita di montagna, dove anche i più giovani erano costretti a lavori e trasferte in condizioni che oggi sembrerebbero disumane. Il testimone proveniva da Conco, ma è evidente che la situazione di quel paese rispecchiava quella presente in tutte le zone montuose d'Italia che in quegli anni subirono un graduale spopolamento.
"[...] non abitavamo in una nostra ma eravamo sotto padrone e la casa era sua, noi prendevamo parte del raccolto ma se veniva la tempesta dovevi buttare via tutto e io avevo due bambini, un marito, un cognato e la suocera. Non si poteva" (testimonianza di Caterina Rizzolo).
La povertà era ai massimi livelli, tanto che chi partiva non possedeva quasi nulla.
"Io sono rimasta là per via dei miei che non avevano né alloggio né niente, sono venuta su che avevo 7 anni, nel '51, ma appena sono nata io loro sono venuti via da Sarcedo, sotto Lusiana" (testimonianza di Germela Covolo).
Un altro testimone, proveniente da Conco, viveva in un'abitazione isolata, fattore spesso propulsivo per i cambi di residenza.
"[...] è una casa sola in un posto detto 'locco', 'na vira, fin quando erano case sole le chiamavano così, dopo magari si facevano altre case e venivano fuori le contrade. Da vent'anni c'è la strada che passa davanti, invece prima si poteva andare solo a piedi" (testimonianza di Bortolo Girardi).

Fattori propulsivi dell'area biellese

Espulsi dai loro paesi nativi gli emigranti vicentini giunsero nel Biellese4.
I veneti cominciarono a giungere in quest'area negli anni 1923, 1924 e 1925, ad eccezione di casi isolati di persone che erano già arrivate da Schio e Valdagno, dove erano presenti industrie inserite nell'Associazione industria laniera italiana, fondata nel lontano 1867. Erano operai altamente qualificati che si trasferivano su richiesta delle stesse aziende. La Provincia di Vicenza, con l'Associazione laniera tra dirigenti, sorta nei primi decenni del XX secolo fra Vicenza e Biella, inviò così un rilevante numero di lavoratori specializzati, creando un forte legame tra Vicentino e Biellese5.
Secondo Caterina Corradin la prima vera ondata coincise con uno sciopero del 1921 contro il taglio dei salari, che coinvolse gli stabilimenti delle vallate biellesi, valsesiane, l'area di Torino, la Lombardia e il Veneto. Un'occasione rammentata anche da una testimone: "[...] mia mamma, aveva 18 anni [...] quand'era partita per andare a lavorare. Mi pare che là era un periodo di grande sciopero e allora Mario Zegna ha mandato a chiamare, erano gli industriali che chiamavano" (testimonianza di L. Angelino).
Certamente per gli imprenditori una massa di operai disposti ad accettare qualsiasi condizione pur di lavorare era un'ottima opportunità per neutralizzare le lotte degli operai biellesi. I veneti avevano troppa fame per alzare la testa e ottenere un salario era certamente il loro scopo primario.
La loro resistenza era messa ulteriormente alla prova durante tappe d'immigrazione intermedie. Non sempre arrivarono direttamente nelle vallate tessili: molti immigrati lavorarono qualche anno negli stati oltre confine o in altre regioni, raggiungendo le vallate tessili solo in un secondo tempo, dopo aver condotto una vita di stenti e svolto mansioni molto pesanti.
"Mio padre ha cominciato a girare da piccolo, qui mi sembra sia venuto nel '27 ma non me l'ha mai detto. Belgio, Germania, Romania, faceva lo stagionale tornando a casa in inverno. Quando ha sposato la mia mamma ha fatto ancora qualche anno così poi siamo andati in Val d'Aosta. Per comperare mia sorella la mamma è tornata a casa e poi è tornata. Il papà lavorava in miniera" (testimonianza di Angela Frello).
"[...] mio suocero è andato clandestino. A 12 anni è andato in Germania perché qui c'era tanta miseria e mi diceva che è andato ed era tanto piccolo che vedevano che non aveva l'età per lavorare e ha dovuto andare persin per carità.
Poi la mia mamma aveva lasciato un fidanzatino qua che poi però è andato in America ed era troppo lontano, il mare c'era da passare e non ha voluto abbandonare tutta la famiglia" (testimonianza di Luciana Corradin).
"[...] la maggior parte sono emigrati per la Francia, per l'Australia, l'America, sono emigrati quasi tutti" (testimonianza di S. Rodighiero).
Alcuni sono emigrati all'estero successivamente.
"Mio padre e gli altri sono venuti dal Veneto quando c'era poco lavoro, poi anche da qui quando era entrata la crisi del '30 e '28, ma anche la famosa crisi del '29 in America, che si è ripercossa anche qui, qualcuno si è trasferito anche in Francia e in Belgio, per esempio mio nonno ha lavorato otto mesi circa in Francia. Lì la maggior parte erano veneti. Facevano scavi fluviali, qualcuno è andato in miniera e altri si sono fermati lì. In Svizzera poca roba, prendevano solo periodicamente, magari un lavoro di sei mesi e poi si doveva tornare in Italia" (testimonianza di V. Nichele).
La storia degli emigranti italiani in Belgio è ricordata da molti per il peso che ebbe nell'emigrazione in generale e può far comprendere meglio lo stato d'animo di tutti i veneti che infine si stabilirono nel Biellese, pronti ad accettare qualsiasi mansione pur di poter sperare in una soluzione migliore.
Aver lavorato nei pozzi neri del Borinage, di Charleroi e Liegi, significava essere stati esposti a gravi rischi per la propria incolumità, contraendo le malattie del carbone, che corrode i polmoni causando anche l'invalidità. Inoltre, nelle miniere buie e profonde, dove gli incidenti erano frequenti, lavoravano moltissime donne e bambini, che poi alloggiavano in baracche dalle pessime condizioni. L'episodio più tragico fu il crollo di Marcinelle nel 1956, in cui persero la vita centotrentasei italiani6.
Numerosi veneti, prima di arrivare nel Biellese, lavorarono anche nelle miniere della Val d'Aosta che attirarono i flussi dal Nord-Est a partire dal 1915-1920, con un picco tra il 1928 e il 1931.
Tutto ciò fa capire quanto varia potesse essere la manovalanza che quella regione poteva offrire al Piemonte, dove all'inizio furono anche impiegati al di fuori delle industrie.

Le catene di richiamo

Dalle testimonianze emerge un ulteriore aspetto che caratterizzò non solo le migrazioni interne tra Vicentino e Biellese, ma anche il fenomeno emigrazione in generale. Si tratta delle relazioni che solitamente si instaurano tra chi abbandona il proprio paese e chi resta. Un vero supporto di fronte ai disagi che si affrontavano in seguito ai trasferimenti: le cosiddette "catene" o "reti" di richiamo si basano su due elementi fondamentali: la parentela e la compaesanità, veri collanti tra le località di partenza e le zone di arrivo, che garantivano informazioni essenziali, il supporto logistico, l'avvio al lavoro e i riferimenti culturali7.
I primi a partire furono generalmente gli uomini, che per qualche mese andavano in Piemonte come stagionali, inviando a casa parte del guadagno e ritornando al paese nei mesi di disoccupazione. Partivano soli o con i fratelli, i figli più grandi e i conoscenti. Generalmente, appena arrivati nel luogo di lavoro, trovavano una sistemazione comune, anche in condizioni scomode.
"Sono venuto in Piemonte a 14 anni e mezzo, son partito con mio papà; lui dopo tornava a casa, dopo quei nove-dieci mesi e io magari rimanevo qui anche da solo e dormivo fuori nelle cascine. [...] Qui in Piemonte sono venuti prima i miei fratelli che sono più vecchi, poi quando io avevo finito le scuole allora sono venuto giù con il mio papà. [...] Arrivati su si dormiva tutti in una stanza, cinque o sei come abitano adesso i marocchini" (testimonianza di S. Rodighiero).
"Mio papà era veneto, di Conco, ed è venuto giù nel '25 con suo fratello" (testimonianza di Graziella Zanella).
"Mio padre è arrivato qui da Marostica, non era ancora sposato ed è venuto solo. Un altro fratello è andato nella zona di Pinerolo, a Perosa Argentina" (testimonianza di V. Nichele).
La scelta di raggiungere le vallate biellesi nasceva in modi diversi: potevano essere reclutati dagli stessi imprenditori, che nel Nord-Est avevano inviato camion per caricare i lavoratori (quindi si partiva con la certezza di un lavoro), o con l'intenzione di cercare autonomamente un impiego una volta giunti a destinazione.
Le industrie tessili inviavano i camion nei villaggi veneti per arruolare lavoratori giovani, promettendo sia un'occupazione sia l'alloggio, per sostituire molte famiglie biellesi che si erano allontanate per installarsi altrove. Dopo che i lavoratori erano stati reclutati tra i contadini del basso Vercellese e Novarese, molti furono richiamati dal Veneto.
Una volta sistemati nei luoghi di arrivo, gli emigranti scrivevano a casa, raccontando le nuove esperienze e invitando gli altri a seguire il loro esempio. Infatti, anche i gruppi di paesani, amici e parenti potevano costituire i canali privilegiati attraverso i quali sarebbe continuata l'emigrazione. La Corradin individua in questi primi immigrati le "teste di ponte" per i flussi successivi8. Le interviste confermano la sua tesi: torna più volte l'espressione "tirare giù", intesa proprio nel senso di richiamare le persone rimaste in Veneto, una volta vista la grande richiesta di manodopera e le migliori condizioni di vita.
"[...] poi han tirato giù le sorelle" (testimonianza di G. Zanella).
"[...] abbiamo cominciato a venire più grandi e ad avere una comisiòn di lavoro e abbiamo tirato giù gli altri da Conco [...] e poi si chiamavano: ad esempio quello che aveva la fortuna di andare dentro in fabbrica scriveva: 'Qua me trovo ben, g'ò trovà el lavoro, sto ben, ho trovato anche l'alloggio o le stanze' e così succedeva che altri provavano a venire giù [...] la mamma è rimasta in Veneto, l'abbiamo portata giù dopo coi figli più piccoli. Ogni volta che prendeva il mese mio papà mandava a casa soldi, teneva solo quelli per vivere lui" (testimonianza di S. Rodighiero).
"Io sono venuto giù nel '32 tra settembre e ottobre e avevo 12 anni. Siamo andati da Conco, tramite altri qui che ci hanno preparato, c'erano i Zanella, che erano venuti giù prima" (testimonianza di B. Girardi).
Non partirono solo i giovani, anche le ragazze ebbero un ruolo importante nel fenomeno considerato. I camion caricavano quelle con un'età compresa tra i 10-12 anni e i 20, raccolte in gruppi di paesane, amiche e sorelle.
"Le ragazze erano persino più giovani perché non avevano il servizio di leva da fare [...] che poi alla fine non erano neanche maggiorenni e dovevano essere sotto tutela del datore di lavoro; i maschi venivano già con qualche anno in più" (testimonianza di V. Nichele).
"[...] le più vecchie sono già venute nel '29, tramite altra gente di Conco, e sono andate a lavorare a Pratrivero. [...] Abitavano a Flecchia, con altre due, non da Conco ma da Corro, vicino a Lavaro; e stavano assieme. Fino al '32, quando siamo andati giù noi. C'erano il mio papà e la sorella più giovane e siamo andati ad abitare a Flecchia. Dopo un mese è arrivata mia mamma con mio fratello, Giuseppe, che abita qui a Pray. Siamo venuti noi e l'abbiamo lasciato su per non far stare da sola la mamma" (testimonianza di B. Girardi).
Restavano quindi a casa i bambini, gli anziani e le donne adulte che di loro si sarebbero occupate, aspettando il ritorno dei mariti, che rientravano al termine del lavoro stagionale. In alcuni casi però essi cominciarono a chiedere alle mogli di raggiungerli, convincendole con le promesse di una vita migliore.
Le donne che invece erano emigrate contribuirono a loro volta alle catene di richiamo.
"[...] la zia ha aiutato la mia mamma [sua sorella] a venire qui [...] I Bozzalla sono venuti anche col pullman a prenderli là ed eri assunto se avevi qualcuno già qui. Qui a Coggiola come a Castagnea c'è più Lusiana, invece verso Pratrivero c'è più gente di Conco e Santa Caterina. Forse perché i primi che venivano qui cominciavano a chiamare i suoi" (testimonianza di A. Frello).
In alcuni casi, a incrementare e controllare l'esodo, intervenne addirittura il clero, offrendo la sistemazione in convitti, particolarmente adatta alle giovani, o reclutando nei paesi delle aree depresse le persone da inviare, scelte per le loro condizioni miserrime9. Si è già visto quanta importanza avesse la religione nella cultura veneta: non deve quindi stupire se la Chiesa intervenne anche in fenomeni sociali apparentemente lontani dalla sua sfera di competenze, come appunto i viaggi alla ricerca di nuovi mestieri.
Ciò valeva per le emigrazioni a lungo raggio: basti pensare all'Opera Bonomelli, fondata dall'omonimo monsignore nel 1903 per gli emigranti in Europa, che aveva una sede anche a Tezze, in Valsugana10. Eppure, anche per gli spostamenti che potrebbero sembrare più semplici, in quanto non uscivano dai confini nazionali, i religiosi si mobilitarono.
"[...] erano gli industriali che chiamavano. Allora il prete faceva la selezione: se avevano due mucche nella stalla dovevano stare qua, se proprio erano poveri li mandava. Dava i nominativi. Anche per la mia mamma era questa la soluzione, quindi sono partiti dieci o dodici. [...] Per esempio a Varallo c'è stata una grande richiesta di ragazze che andavano a prepararsi per andare in giro per le case per i lavori, per la tessitura, per la filatura. Era soprattutto per i convitti che il prete decideva, era quasi sempre il prete che dava i nominativi. Una cugina di mio marito dice sempre: 'Mi no podéa andar in Piemonte perché g'aveva do vache'..." (testimonianza di L. Angelino).
Il parroco di Lusiana ebbe un ruolo di grande importanza nel reclutamento delle giovani. Nel 1952, dai registri di emigrazione del Comune, furono, ad esempio, cancellate diciannove donne dirette verso Varallo, importante centro della Valsesia, non molto lontano dalle vallate laniere dove poi si trasferirono parecchie venete. L'anno successivo si trattò di ben cinquanta ragazze, tutte tra i 14 e i 20 anni. Lì sorgeva un convitto gestito dalle suore salesiane di Maria Ausiliatrice, annesso alla manifattura "Rotondi"11.
Il prete curò personalmente i loro trasferimenti attraverso una fitta relazione epistolare con cui le suore lo aggiornavano sia sulla sistemazione delle sue parrocchiane, sia sull'eventuale richiesta di altre fanciulle.
A Varallo giunsero inoltre venete richiamate da altre emigrate, non in convitto ma in alloggi e provenienti anche da aree diverse dal Vicentino.
"[...] quando mia mamma è venuta su da Recoaro [...] è andata a Varallo con sua mamma, perché lì c'era un'altra amica. Poi la mia mamma è andata a lavorare alla Grober, dopo i Fila cercavano gente allora lei e la famiglia di questa amica sono andati ad abitare a Coggiola" (testimonianza di Letizia Rista).
Dunque, anche nel caso dell'immigrazione dei veneti nel Biellese, si può parlare di "catene di richiamo", oggetto di interesse da parte di numerosi studiosi e indispensabili per evitare l'isolamento. I nuovi emigranti seguivano percorsi già fatti da parenti o amici, le cui lettere e racconti stimolavano il desiderio, anche fra i più prudenti, di spostarsi per cercare il lavoro12.
Erano anch'esse meccanismi propulsivi, che incrementavano i flussi attraverso la circolazione di informazioni, soprattutto sulle opportunità di lavoro13. Per quanto qui ci si occupi di un contesto piccolo e particolare, si riscontra pur sempre la stessa regola: i primi immigrati nelle vallate laniere contribuirono ad incrementare gli arrivi dal Vicentino, non solo divulgando le opportunità lavorative, ma anche offrendo una prima sistemazione. Era questa una risorsa importante, poiché, come si è già accennato, trovare la casa era una delle esigenze più urgenti.
Se i primi immigrati lasciarono inizialmente la famiglia in Veneto, con gli anni le cose mutarono: i primi arrivati nel Biellese si erano integrati e potevano allora offrire un valido aiuto a coloro i quali avrebbero voluto raggiungerli, non da soli ma con i parenti al seguito.
Questi ultimi immigrati avevano visto tornare al paese, in varie occasioni (come le vacanze), i "pionieri" del Piemonte, che mostravano una maggiore disponibilità di denaro, visibile anche dall'abbigliamento e dalla cura della persona. I compaesani cominciarono a immaginare che quelle terre lontane fossero davvero molto diverse dai loro paesi. Non sempre l'impatto al loro arrivo soddisfaceva le loro aspettative, almeno dal punto di vista visivo.
"A volte i miei parenti venivano a casa da Coggiola, coi cappellini tutte eleganti e mi dicevo: 'Mamma mia che roba!', venivano così alla messa del paese. Quando ho sentito che i vegniva qui, anca mi i disiva: 'Oh matta!'. Ma quando ho visto com'era Coggiola, mamma mia... pensavo a un'altra roba, invece è in mezzo alle montagne ed è un paese come tutti gli altri" (testimonianza di C. Rizzolo).
"Ma quando si è trovata a Castagnea - l'intervistata si riferisce alla madre - ha detto: 'Oh ma Signur, ca sia partia da Velo per venire in questo paese qua!' Lei credeva di andare in una città e ha pianto tanto, ha pianto tanto" (testimonianza di L. Angelino).
Nonostante questo aspetto, il ruolo dei primi emigranti fu fondamentale per i flussi successivi; infatti i loro compaesani ne chiesero l'aiuto per organizzare la partenza: chi si era stabilito in precedenza nel Biellese trovava loro un impiego e un lavoro, disponibili sin dal loro arrivo.
"[...] la zia ci ha mandato i soldi [...] io sono arrivata a 4 anni [...] ero con la mamma e siamo arrivate in treno [...] e alla stazione tutti 'sti veneti che arrivavano giù ad aspettare se c'era qualcuno dei suoi o per dare lettere da portare a casa, perché se no ci volevano giorni. Io ero appesa alla borsa della mamma e mia sorella di appena 2 anni era in braccio. È venuta la zia a prenderci e il primo giorno ci ha tenuti a casa sua, poi ci ha portati nella nostra" (testimonianza di A. Frello).
"Ero di Lusiana ma quando mi sono sposata sono andata a Crosara, nel Comune di Marostica. Son partita dal Veneto il 20 dicembre del '50, i due figli avevano pochi mesi e siamo andati ad abitare a Persica [...] Siamo stati chiamati qua da due sorelle di mio marito, vivevano una a Pray alto e una a Fervazzo, sono partite da Lusiana ma i loro mariti abitavano qua già da tanti anni, erano venuti da bambini. Le mogli le avevano conosciute quando erano venuti a trovare i parenti là e volevano prendere una del paese, e così due fratelli hanno sposato due sorelle.
[...] Ci hanno trovato il posto a Persica e dopo abbiamo comprato una piccola casetta; quando i figli si sono sposati siamo andati a Pray e adesso sono qui a Quarona. [...] Venendo qua nel '50 c'erano già tanti veneti e mi hanno aiutata abbastanza, anche se poi io legavo con tutti.
[...] Ho chiamato su anche una mia amica dell'infanzia, ero andata nel Veneto perché mia mamma non stava bene e ho trovato la sua e mi ha parlato: 'Catinela - me ciamava Catinela - cerca qualcosa da far venire là anche la mia Ines', che stava in un posto bruttissimo. Abbiamo trovato una casa da affittare con una bella stanza, una cucina grande per mettere anche il vecio - sono venuti a Caprile con il vecio, erano in quattro con lei, il marito e il bambino" (testimonianza di C. Rizzolo).

Una forte partecipazione femminile

La storia delle donne emigrate è stata a lungo trascurata: solo negli anni settanta gli studiosi hanno compreso il ruolo fondamentale che esse ricoprirono, come mediatrici fra le culture dei paesi di origine e i luoghi d'insediamento, nonché per il contributo economico che con il loro lavoro diedero alle famiglie.
Oltre ad essere stata ignorata, la partecipazione femminile venne a volte anche svalutata. Secondo Franzina l'opinione corrente descriveva le emigranti come donne rozze, ben lontane dal mondo maschile connotato da una forte mobilità. Alcune testimonianze descrivevano le partenze dal Biellese con le donne che accompagnavano scalze i mariti, portando le valige sulle gerle14.
Un notevole ritardo storiografico, se si considera che molte partirono, in particolare dai paesi agricoli, verso le mete che già avevano attirato i giovani italiani (Argentina, Brasile, Canada e Australia) e se si pensa al cambiamento del loro ruolo nella società.
Anche il Piemonte perse un notevole numero di giovani donne, ma nelle aree più avanzate della regione confluirono numerose immigrate, che in qualche modo sostituirono quelle partite. Le prime migrazioni imponenti giunsero nelle risaie per la monda del riso (nel 1905 erano già state reclutate tredicimila mondine provenienti da tutte le regioni settentrionali); successivamente furono invece i centri industriali ad attirare manodopera femminile, come operaie, domestiche e cucitrici.
Le migrazioni interne tra Vicentino e Biellese furono in buona parte dei fenomeni al femminile: in questa zona, infatti, giunsero due catene di immigrate, l'una dalla Sardegna e l'altra dal Veneto. Per quest'ultima, concentrata tra gli anni venti e sessanta, è possibile considerare tre tipologie territoriali e produttive; cioè la pianura, la collina e la montagna.
Un saggio di Paola Corti e Chiara Ottaviano ha ben analizzato la situazione. Tra il 1925 e il 1960, dal Triveneto giunsero nella pianura biellese milleduecento donne, di cui il 40 per cento erano sole, molte minorenni. Negli anni venti gli arrivi erano costanti e su bassi livelli, mentre nel decennio successivo ci fu un'impennata, che coincise con un periodo economico particolarmente nero per la regione di partenza. Un ulteriore aumento si verificò poi dopo la seconda guerra mondiale, quando numerose vedove partirono per trovare lavoro e crescere i figli15.
Trivero, paese altamente industrializzato delle montagne biellesi, assorbì il maggior numero di emigrate venete negli anni trenta, con il record di centotrentatré unità del 1933. Negli anni cinquanta ci fu un altro incremento, a causa degli arrivi dal Polesine, che nel 1951 era stato devastato dall'alluvione, e dai continui movimenti di popolazione dal Vicentino, in particolare da Conco e Lusiana. Proprio a Trivero si concentrava la maggioranza delle donne provenienti dall'Altopiano di Asiago16.
Alcune giungevano in Piemonte da sole, in cerca di lavoro, altre erano invece chiamate dai parenti. Potevano poi essere chiamate dagli agenti che le aziende biellesi inviarono in quella parte del Veneto e che si rivolsero alle famiglie più povere e numerose, proponendo ai genitori l'assunzione delle figlie adolescenti. Spesso, in casi simili, le ragazze dimoravano nei convitti, strutture nate per tutelare la moralità delle più giovani17. Un aspetto importante se si considerano gli alti rischi che le immigrate correvano spostandosi dai loro paesi; nelle grandi città fu questa una vera e propria piaga sociale perché molte di loro vissero vicende penose: la prostituzione, il lavoro sommerso, le maternità illegittime, lo sfruttamento, gli abusi sessuali erano frequenti, fino ad arrivare ai fenomeni che vanno sotto il nome di "tratta della bianche"18.
"Eravamo io, mia sorella e mia mamma" (testimonianza di A. Frello).
"Dopo qualche anno dalla morte del nonno la nonna e la mamma sono venute qui per la guerra [...] mia mamma [...] è andata a Varallo con sua mamma, perché lì c'era un'altra amica" (testimonianza di L. Rista).
La partenza costituiva un grande cambiamento, non solo di luogo ma anche di condizione sociale. I dati relativi all'occupazione dimostrano che il lavoro femminile, soprattutto al Nord, era frequentissimo; le mansioni erano però diverse dal passato. Se prima l'identità delle donne era definita in base al ruolo familiare, con l'incremento delle manifatture cambiarono anche i lavori svolti.
Nel Biellese c'era un alto tasso di attività femminile e le donne dei comuni industrializzati presto parteciparono anche alle lotte per i miglioramenti salariali19; ciò dimostra quanto le mete di arrivo delle immigrate aprissero sbocchi occupazionali, che le avrebbero gradatamente svincolate dalle mura domestiche.
Partite sole, ricongiunte a parenti e conoscenti, molte di loro furono reclutate dalle fabbriche tessili. Nella pianura biellese il lavoro in fabbrica occupava il 46 per cento delle donne, mentre pochissime passarono al lavoro in proprio o al livello di impiegate (l'1 per cento). Così anche nei comuni in altura, dove buona parte diventarono filatrici e tessitrici, poiché la provenienza agricola e la mancanza di specializzazione ne ostacolarono la riqualificazione20.
Furono poi numerose le richieste di domestiche, in particolare presso le famiglie signorili. Gli imprenditori (Zegna, Giletti, Zegna Baruffa, Barberis Canonico, Trabaldo e altri ancora) assunsero dunque le venete come cameriere e bambinaie. Un fenomeno riscontrabile nel Biellese come nel resto d'Italia, che permetteva alle domestiche di essere comunque ben nutrite e vestite dai loro titolari, come ricorda lo stesso Emilio Franzina.
"La mamma lavorava dai Bozzalla che avevano rilevato la Ubertalli e la Lesna. [...] Finite le scuole, io le ho finite con 12 anni, sono andata a fare la donna di servizio qui a Coggiola a casa di un banchiere. Tutti i giorni partivo via alla mattina e venivo a casa alla mezza perché preparavo il pranzo. Anche lì mi sono trovata bene e ho imparato tante cose; tutte noi siamo passate di là, anche le ragazze piemontesi. Si diceva che si 'andava a servizio'. Io lavavo i piatti, facevo le faccende e lavavo anche per la signora. Lei mi insegnava, perciò sono stata contenta di esserci andata. Il venerdì mi fermavo a mangiare perché era il giorno delle pulizie generali; si mangiava sempre la polenta col formaggio e il passato di carote, allora si guardava molto il venerdì ma non a casa mia perché si mangiava quando si mangiava. Quando sono venuta via io è andata mia sorella e dopo un'altra ragazza. Io sono poi andata a lavorare in marzo dai Bozzalla ed erano tutti uomini" (testimonianza di A. Frello).
"[...] mia mamma andava a lavare, faceva i lavori da casalinga per gli altri" (testimonianza di G. Covolo).
"Per entrare in fabbrica sono andata a casa del padrone, il signor Trabaldo, a fare i lavori perché quella che andava aspettava una bambina. Allora io partivo a piedi da Persica a Pray Alto per andare a fare tre ore. Quando sono andata a chiedere in fabbrica ho trovato il signor Serafino, che mi ha visto e riconosciuta e mi ha fatto segnare sul quaderno. Io ho aspettato che mi chiamassero, il ragioniere ha visto il mio nome e si è informato e ho iniziato a lavorare per sabato.
Facevo anche la lavandaia, un'ora e più a piedi per lavare nei torrenti le lenzuola; una volta mi è scappato dentro il sapone e a momenti finivo dentro anch'io" (testimonianza di C. Rizzolo).
Certo tutto questo ebbe influenza anche all'interno delle famiglie di immigrati, in cui la suddivisione dei ruoli fu cambiata: le donne potevano essere partite giovani, ancora da sposare e quindi contribuendo al sostentamento di genitori e fratelli, o al seguito di padri e mariti. In ogni caso aumentarono le attività che esse svolgevano fuori casa, rendendole indispensabili per il bilancio, ma anche un po' meno presenti nella crescita dei figli. Non tutte potevano fare la mamma o la moglie a tempo pieno e in questi casi i bambini erano accuditi da terzi, finché ad esempio alcuni industriali misero a disposizioni asili.
"[...] mia mamma avendo già 'sti lavori dava me e mio fratello più piccolo a queste persone. Li hanno aiutati tanto perché, Signore, c'era miseria. Faceva tanto a piedi perché soldi non ce n'erano" (testimonianza di G. Covolo).
"I bambini li teneva la suocera o una signora che mi ha dato anche tanta roba per lavoro" (testimonianza di C. Rizzolo).

Le abitazioni

Si è già accennato alla questione delle abitazioni, il primo problema che qualsiasi emigrato doveva risolvere, perché avere un tetto sotto cui ripararsi, un alloggio confortevole per il dovuto riposo dopo il lavoro, era una speranza legittima. Ma la realtà nel Biellese, come nel resto d'Italia e di Europa, era molto difficile.
Un giornale locale dedicava l'attenzione, proprio all'inizio degli anni trenta, a questo aspetto delicato: "La scarsezza di abitazioni manifestatasi ovunque dopo la guerra, si è fatta sentire in modo particolare nella nostra Città dove, per ristrettezza di territorio e per l'elevato prezzo delle aree fabbricabili, l'incremento edilizio non è stato adeguato alla crescente e continua affluenza di immigrati e quindi le case, specialmente quelle popolari, si sono sovrappopolate in una misura impressionante"21.
In effetti, specialmente chi partì di propria iniziativa, faticò a trovare immediatamente una casa, passando da un paese all'altro prima di riuscire a sistemarsi in un'abitazione decorosa22. Molto spesso, annesse alle fabbriche e ai cantieri, sorgevano baracche abitate da maschi giovani e soli, provenienti dallo stesso paese e che lavoravano insieme. Era una soluzione voluta, perché aveva il vantaggio di contenere i costi, risparmiando il più possibile sulla paga.
"Allora lei - l'intervistata riporta un discorso della madre - dice: 'Eravamo in uno stanzone, in dieci o dodici e dormivamo tutte in un letto unico, con dei materassi sopra le tavole. Quello che doveva andare a fare la pipì doveva attraversare tutti, e allora la sera dopo si spostava', lo facevano perché non avessero tutte le notti da attraversare tutta la fila. Quando cambiavano le lenzuola cambiavano posto" (testimonianza di L. Angelino).
"Arrivati su si dormiva tutti in una stanza, cinque o sei come abitano adesso i marocchini; la casa la trovava mio papà chiedendo qualcosa tanto per ripiegarci almeno alla sera" (testimonianza di S. Rodighiero).
È chiaro che si trattava di soluzioni temporanee, dovute all'esigenza di risparmiare per inviare i soldi alla famiglia in Veneto o per potersi permettere più avanti un'abitazione migliore. Inoltre non bisogna credere che la casa fosse vissuta come oggi: allora essa costituiva solo un posto per mangiare e dormire, non era il focolare domestico, perché quello era stato lasciato in Veneto, con il resto della famiglia.
Per coloro che scelsero di partire in seguito alle esperienze positive di altri compaesani, la ricerca della casa era svolta proprio da questi ultimi che, tramite conoscenze, riuscivano a fornire le prime abitazioni, pur essendo costretti, come negli altri casi, ad accontentarsi del poco che si trovava.
"È venuta la zia a prenderci e il primo giorno ci ha tenuti a casa sua, poi ci ha portati nella nostra" (testimonianza di A. Frello).
"Ci hanno trovato il posto a Persica e dopo abbiamo comprato una piccola casetta; quando i figli si sono sposati siamo andati a Pray e adesso sono qui a Quarona. Quando siamo venuti in Piemonte avevamo già la casa, ce l'hanno trovata i miei cognati" (testimonianza di C. Rizzolo).
L'attesa di sistemazioni più adeguate poteva anche durare anni e nel Biellese, come altrove23, molti presero in affitto locali più o meno idonei (soffitti, seminterrati o garage) oppure alloggi in stabili degradati.
"E per dormire venivo a casa dal lavoro e andavo nella travà, fuori, dove si mette il fieno, vestito, come andavo a lavorare, coperte non ce n'era, in mezzo al fieno" (testimonianza di S. Rodighiero).
La situazione poteva essere altrettanto disagevole anche quando gli immigrati avevano con sé la famiglia. Infatti, non coabitavano solo i colleghi di lavoro, anche interi nuclei familiari dovettero adattarsi a spazi angusti.
"Abitavamo in una casa che era un salone e c'era una tela che lo divideva, mio papà ha pitturato e ha messo un cancelletto, ma tame [come] i suma fai a supravive? quand' angh'era la bura [alluvione] e gniva l'ava an ca'..." (testimonianza di G. Zanella).
"Hanno trovato poi un affitto lì a Zuccaro dal Fava, uno sgabuzzino. [...] Dopo abbiamo trovato una casa solo per noi perché uno sgabuzzino non si poteva" (testimonianza di G. Covolo).
La condivisione dello stesso appartamento permetteva la suddivisione dei costi, che all'epoca erano molto elevati, a causa della scarsità di locali disponibili. Gli affitti erano saliti raggiungendo livelli sproporzionati in confronto alle paghe percepite dagli inquilini e il sovraffollamento divenne una vera piaga, poiché aumentava i rischi di malattie dovute alla mancanza di servizi24. Non per niente i paesi più industrializzati erano afflitti da un alto tasso di mortalità infantile e di rachitismo25.
Il fatto che molte case fossero in pessime condizioni è spiegato nell'articolo già citato, che proseguiva accusando la cattiva igiene e la necessità di porvi un rimedio concreto: "Purtroppo in Biella si contano a centinaia e centinaia le abitazioni con scarsa illuminazione, con camere prive di finestre verso l'esterno, con insufficiente cubatura, in condizioni cioè contrarie al vivere collettivo. [...] Scompariranno le cause principali di tante malattie che ancora flagellano l'umanità, prima e più temibile: la tubercolosi. Non è necessario essere ricchi per avere un'abitazione pulita. Bisogna che sia compresa questa necessità: prima dai proprietari di case, che devono sentire il dovere di fornire ai propri inquilini alloggi rispondenti ai giusti criteri dell'igiene per non lucrare al danno della loro salute; e poi dagli inquilini che devono, in ogni tempo mantenerli salubri, perché curando la casa si cura se stessi e tanto più le abitazioni sono tenute con ordine e pulizia tanto maggiore è il grado di civiltà raggiunto".
Si trattava di provvedimenti basati sul concetto di igiene sociale, che erano stati assunti in tutte le nazioni più coinvolte dallo sviluppo industriale e dal conseguente inurbamento. Anche nel Biellese l'idea dell'abitazione operaia si trasformò, seguendo in parte il modello dei "familisteri" francesi, ideati da Fourier, per un controllo diretto dell'azienda anche nell'ambito privato.
Inizialmente, dunque, prevalse la coabitazione in alloggi di parenti e amici, anche perché l'accesso alle case popolari non fu né facile né immediato, essendo queste costruite da cooperative e cantieri edilizi improvvisati, con l'arruolamento di manovali pagati pochissimo26. E anche una volta ottenuto un alloggio le condizioni restavano precarie.
Come raccontava una testimone ascoltata da Caterina Corradin, "nella zona Valsessera, da Pray a Coggiola a Crevacuore, erano istituite le case operaie che erano né più né meno dormitori. Quattro persone per stanza, c'erano quattro letti, un guardaroba - armadio con una tenda, una stufa, una tavola, due panche".
Col tempo i villaggi operai o le case furono fatti costruire anche dagli imprenditori biellesi, anche se qui si riscontrarono gli stessi pregiudizi manifestati dagli operai parigini: a fondamento di tali progetti edilizi, infatti, si percepiva il concetto dell'operaio come un essere inferiore. I padroni, seppur in forma paternalistica, avrebbero avuto un controllo diretto a tempo continuato, dentro e fuori la fabbrica27.
Nel circondario biellese sorsero così due villaggi operai (presso la Filatura di Tollegno e la Pettinatura di Vigliano), dove ogni abitazione era accuratamente separata dalle altre, con ingresso proprio o, se in comune con altri, aperto e in piena luce verso la strada. Ogni famiglia aveva un proprio orto e il solo punto di riferimento era l'azienda.
Nei centri delle vallate laniere sorsero poi numerose case operaie, integrandosi agli insediamenti preesistenti e rispettando gli stessi rigorosi principi di convivenza. I giovani che alloggiavano insieme dovevano rispettare delle regole, esattamente come le ragazze nei convitti.
"Avevano costruito anche le case operaie e davano a tot persone tot stanze; c'era un lavandino, anche per lavare le robe, il gabinetto in comune. Capitava di avere la camera e la cucina distanti e ti trovavi con gli altri nel corridoio, non avevi un tuo appartamento. Ed erano tutti veneti che sappia io. E tu dovevi firmare che entravi lì e avevi una regola: 10 e un quarto dovevano essere a casa tutti quanti e se arrivavano ragazzi giovani c'era qualcuno lì che rispondeva per loro" (testimonianza di A. Frello).
"Questa casa è stata costruita proprio per i lavoratori che il Silvio Bozzalla è andato a prendere nel Veneto, ha costruito questa casa e li ha inseriti qui, erano circa seicento persone, il 90 per cento erano veneti e il rimanente erano del Novarese e della bassa Vercellese. Non c'erano appartamenti, c'erano solo camere e basta, come questa. Prima ogni camera aveva la sua entrata e lì abitavano 'sti lavoratori; un tavolo, una stufa, la sedia, c'era una divisoria, un lenzuolo o una tenda. Magari erano sei sette in una camera. Per avere queste stanze bisognava lavorare per la Bozzalla, non si pagava niente, la luce arrivava solo la sera fino agli anni '54-55. Nel '49 han messo la luce di giorno però proprio a posto legalmente fino a quegli anni.
Perché anche prima qui, come uscivano alle 10 era l'ultimo turno e alle 10 e un quarto chiudevano tutto, chi era fuori era fregato. Doveva dormire fuori. C'era una portinaia che accendeva le luci, chiudeva. Perché tra questi immigrati c'erano tante ragazze e la responsabilità era della ditta, e allora cercavano di raggrupparle in queste camere, e il portinaio continuava a girare perché se no...
Mio papà è venuto subito ad abitare qui nella casa operaia, con altri colleghi. Dormivano insieme e per mangiare c'era la stufa a legna, si mettevano su il mangiare. C'è stato un periodo in cui la ditta distribuiva la minestra e con la fame andava bene anche quella. Compaesani di Marostica non ce n'erano, dovevi andare su verso Trivero. Erano tutti di Lusiana, Fontanelle, Vitarolo, Velo e tutta quella montagna" (testimonianza di V. Nichele).
Con gli anni, grazie all'avvenuta integrazione e alla maggiore disponibilità sia di case sia di denaro, molti veneti acquistarono gli alloggi o ristrutturarono vecchi edifici. Una tappa fondamentale e molto sentita dagli stessi intervistati.
"Poi è rimasto qui perché lentamente si è svuotata la casa che han cominciato a trovare alloggi in giro. Han continuato l'affitto fino all'82 quando li hanno messi in vendita e noi l'abbiamo comperato perché in quegli anni non trovavi un buco, non c'era un alloggio fuori. Allora qui abbiamo fatto delle unioni e sono usciti gli alloggi. Sono quindici e sette o otto sono stati presi dai figli degli emigrati. Mio padre si è fermato qui perché aveva la famiglia, là aveva solo i fratelli. Allora la casa l'ha comprata qui" (testimonianza di V. Nichele).
"Questa dove vivo è una casa dei Bozzalla, sotto c'erano cavalli e mucche nella stalla, affittavamo e poi l'abbiamo comprata e aggiustata" (testimonianza di A. Frello).
"[...] [abitavano] da gente che aveva delle proprietà, poi abbiamo comperato" (testimonianza di G. Covolo).
"Tanti hanno poi messo a posto la casa, io ho fabbricato qui, ho comprato il terreno e ho dovuto fare il magazzino, e da una parte mi son fatto l'abitazione, dove siamo stati ventisette anni. I primi anni però abbiamo abitato nella casa dei miei suoceri.
A Pray gli industriali non costruivano case per gli operai, erano tutte per gli impiegati. Le case operaie c'erano in altri paesi, come a Ponzone, fatte dai Giletti, o a Pratrivero, dove c'erano i Canonico. Erano tutti veneti che andavano lì. Ma tutti quelli arrivati qua hanno fatto una casa, dopo quel periodo del boom si poteva fabbricare dappertutto, certi posti dove abbiamo fabbricato adesso non si potrebbe più" (testimonianza di B. Girardi).
(2- continua)

 

Note


* Saggio tratto dalla tesi di laurea Da un Nord all’altro. Aspetti, problemi, vite vissute dell’emigrazione veneta nel Biellese del Novecento, Università del Piemonte orientale, Facoltà di Lettere e Filosofia, a. a. 2001-2002, relatore prof. Claudio Rosso.

1 Monica Bassotto Paltò, Donne e lavoro. Industria e immigrazione nel Biellese (1900-1930), in "l'impegno", a. XVIII, n. 2, agosto 1998, p. 8.

2 Ibidem.

3 Caterina Corradin, Emigrazione al femminile. Dalla montagna vicentina alle vallate tessili biellesi, tesi di laurea, Università degli Studi di Verona, 1988, p. 46.

4 Alberto Lovatto, L'ordito e la trama. Frammenti di memorie su lotte e lavoro dei tessili in Valsessera negli ultimi cinquant'anni, Genova, La clessidra; Borgosesia, Cgil Valsesia-Isrsc Vc, 1995, p. 39.

5 C. Corradin, op. cit., p. 180.

6 Delisio Villa (a cura di), La valigia dell'emigrante. L'emigrazione nell'area bassanese da Asiago alla Valsugana, da Marostica alla Pedemontana del Grappa, da Breganze a Sondrigo e Castelfranco, Vicenza, La Valigia, 1999, p. 86.

7 Amalia Signorelli, Movimenti di popolazione e trasformazioni culturali, in Francesco Barbagallo (a cura di), Storia dell'Italia repubblicana, Torino, Einaudi, 1996, vol. II, p. 610.

8 C. Corradin, op. cit., p. 198.

9 Per ulteriori informazioni sul ruolo del clero si veda Angelo Gambasin, Parroci e contadini nel Veneto alla fine dell'Ottocento, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1973, e Luciano Allegra, Il parroco: un mediatore fra alta e bassa cultura, in Corrado Vivanti (a cura di), Intellettuali e potere, Torino, Einaudi, 1981.

10 D. Villa (a cura di), op. cit., p. 69.

11 C. Corradin, op. cit., p. 240.

12 M. Bassotto Paltò, art. cit., p. 10.

13 Franco Ramella, Reti sociali, famiglie e strategie migratorie, in Piero Bevilacqua - Andreina De Clementi - Emilio Franzina (a cura di), Storia dell'emigrazione italiana. Partenze, Roma, Donzelli, 2001, pp. 143-160.

14 Bruna Bianchi, Lavoro ed emigrazione femminile (1880-1915), in idem, pp. 257-274; sul ruolo delle donne cfr. inoltre A. Signorelli, Il pragmatismo delle donne. La condizione femminile nella trasformazione delle campagne, in P. Bevilacqua (a cura di), Storia dell'agricoltura italiana in età contemporanea, Venezia, Marsilio, 1977.

15 Vedi anche Paola Corti - Chiara Ottaviano (a cura di), Fumne. Storie di donne, storie di Biella, Torino, Cliomedia, 1999.

16 Idem, p. 298.

17 Idem, p. 290.

18 Per maggiori dettagli sulla condizione femminile si veda Maura Palazzi, Famiglia, lavoro e proprietà: le donne nella società contadina fra continuità e trasformazione, in P. Corti (a cura di), Società rurale e ruoli femminili in Italia tra Ottocento e Novecento, "Istituto Alcide Cervi Annali 12/1990", Bologna, il Mulino, 1992.

19 M. Bassotto Paltò, art. cit., p. 6.

20 Si veda inoltre P. Corti - C. Ottaviano (a cura di), op. cit.

21 Per la miglioria delle nostre abitazioni, in "Il Popolo Biellese", a. IX, n. 83, 16 ottobre 1930.

22 C. Corradin, op. cit., p. 204.

23 A. Signorelli, Movimenti di popolazione e trasformazioni culturali, cit., pp. 616-626.

24 Teresio Gamaccio, L'industria laniera tra espansionismo e grande crisi. Imprenditori, sindacato fascista e operai nel Biellese (1926-1933), Borgosesia, Isrsc Vc, 1990, pp. 182-184.

25 Giovanna Cova, Problematiche sociali nell'industrializzazione biellese. Il villaggio operaio della filatura di Tollegno, in "l'impegno", a. V, n. 3, settembre 1985 e a. V, n. 4, dicembre 1985.

26 Si veda inoltre Valerio Castronovo, Una nuova realtà umana e sociale, in Id (a cura di), Storia d'Italia per regioni. Il Piemonte, Torino, Einaudi, 1978.

27 G. Cova, art. cit., p. 2.

Maurizia Palestro

Piemonte e Veneto: confronto tra due pezzi d'Italia che si sono riequilibrati*



Dal 1970 l'emigrazione italiana è quasi scomparsa, con un numero di espatri pari a quello dei rientri, almeno sino agli anni ottanta; dopo, infatti, la tendenza si è invertita, trasformando la penisola in un paese d'immigrati e rendendo indispensabile l'intervento governativo per regolarizzare il flusso di extracomunitari1.
La situazione era cominciata a mutare negli anni precedenti, portando anche all'esaurimento delle migrazioni tra Veneto e Piemonte: oggi lasciare quelle zone per trasferirsi nel Nord-Ovest avrebbe poco senso, poiché le regioni orientali hanno avuto uno sviluppo tale da riequilibrare i rapporti con le altre aree avanzate.
Mentre il Piemonte, ed il Biellese, dopo il boom economico si sono assestati ed ora vivono anche momenti di grave crisi, con un impatto negativo sull'occupazione, il Veneto traina l'economia nazionale, con tassi di disoccupazione bassissimi.
I flussi di popolazione diretti verso le vallate tessili hanno in ogni caso modificato molti aspetti delle due regioni coinvolte, sotto il profilo demografico - particolarmente rilevante per il Piemonte - e sotto quello dello sviluppo - specialmente in Veneto.
Infine, resta l'ambito umano, dei sentimenti e dei legami che ancora mantengono vivi i rapporti tra le generazioni coinvolte nelle emigrazioni e i loro paesi di origine.

L'evoluzione della popolazione in Piemonte

Le prime conseguenze degli spostamenti avvenuti tra Veneto e Piemonte si riscontrarono nell'evoluzione demografica della regione di arrivo. La situazione attuale è la risultante di più componenti, fra le quali le più rilevanti sono i livelli di natalità, mortalità e migratorietà.
Il Piemonte, come tutte le regioni sviluppate, è transitato da livelli di natalità e mortalità elevati a tassi bassi, anticipando questa tendenza sin dalla prima metà del secolo scorso. Il trend negativo fu però interrotto per circa quindici anni dall'immigrazione di massa, concentrata tra il 1950 e il 1960. La maggior parte degli immigrati erano giovani e dunque le generazioni nate tra gli anni trenta e cinquanta, ripopolate da tali immissioni, risultarono più numerose2.
Fu una fase che cambiò momentaneamente la tendenza demografica che, a causa dell'elevata speranza di vita e del declino delle nascite, rende oggi la regione una delle più invecchiate d'Italia. Oltre ad avere pochi giovani, essa detiene un'alta percentuale di anziani; un quinto della popolazione infatti, supera i sessantaquattro anni3. Quando hanno fatto ingresso nella "terza età" gli immigrati, è stato visibile un certo incremento.
Gli spostamenti modificarono la composizione etnica e, in parte, il comportamento degli abitanti. Tra il 1951 e il 1971 la quota di popolazione non originaria era più che raddoppiata, anche per i massicci arrivi dal Sud. Gli immigrati, spesso con bassi livelli d'istruzione, riuscirono ad importare i loro modelli riproduttivi, molto diversi da quelli locali che, appunto, consentirono una ripresa del saldo naturale in alcune parti della regione4.
In particolare il Biellese rispecchiava quei comportamenti: accanto a comuni che si venivano progressivamente spopolando, ce n'erano altri che conoscevano un notevole incremento. Erano i luoghi delle grandi manifatture, che registrarono l'aumento più consistente di abitanti5. Gli anni compresi tra il 1911 e il 1936 registrarono un aumento demografico in relazione allo sviluppo dell'industria, che attirò forza lavoro soprattutto dal Veneto. Allora i centri principali delle vallate tessili (come Mosso, Croce Mosso, Pray, Valle Mosso, Trivero, Pratrivero, Portula e Coggiola) incrementarono il numero di abitanti, registrando fra essi i nuovi operai6. L'incremento massiccio di popolazione, nei comuni caratterizzati dall'attività tessile, coprì tutto il periodo tra gli anni venti e settanta e Trivero raddoppiò quasi il numero di abitanti: nel 1921 essi erano circa cinquemila, mentre nel 1970 arrivarono a ottomilanovecento; lo stesso valeva ad esempio per Portula, che da millenovecento abitanti passò a tremilacinquecento7.
In questi centri inoltre la popolazione era composta solo per il 40 per cento da famiglie piemontesi, poiché il restante 60 per cento era costituito da famiglie che si erano stabilite in quei luoghi durante il cinquantennio precedente e che ormai erano inserite perfettamente nel contesto biellese. La loro massiccia presenza è testimoniata anche dai cognomi di origine veneta: su un totale di cinquecento cognomi, trecentotrentadue provengono da quella regione, oltre che dal Trentino e dal Friuli Venezia-Giulia; fra i luoghi di provenienza spicca la provincia di Vicenza.
Il loro apporto comportò un aumento della prolificità; la loro regione di provenienza aveva ancora un alto tasso di natalità e famiglie numerose. Gli uomini si assentavano per i mestieri stagionali e il loro rientro coincideva regolarmente con un incremento delle nascite. Durante la loro assenza, invece, aumentavano le nascite illegittime.
Contrariamente, in Piemonte, i nuclei familiari si erano ridotti e si diffondevano sempre di più quelli con un solo figlio: l'occupazione stabile in fabbrica e l'impegno fuori casa, anche femminile, toglieva tempo alla cura dei bambini. Non solo, crebbe anche l'età da matrimonio, con un rinvio generalizzato e la conseguente riduzione del periodo di fecondità delle coppie8.
Agli inizi, invece, gli immigrati continuarono a proliferare anche nel nuovo contesto, fungendo da equilibratori per il ricambio generazionale. Ciò avvenne in realtà solo per pochi anni: anche i veneti, come gli altri forestieri, si adeguarono successivamente ai modelli comportamentali piemontesi e la popolazione non si è più rinnovata in modo sufficiente. Nessuna generazione di donne ha riprodotto se stessa almeno in pari quantità e l'andamento recente oscilla intorno alla "crescita zero".
A questo punto entrano in gioco i nuovi flussi migratori, che sembrano essere l'unica risposta al saldo naturale. Non sono più spostamenti interregionali, che negli anni novanta sono giunti ad una soglia minima, ma spostamenti di stranieri; nel 1971 in Piemonte erano settemilatrecento, mentre nel 1999 ammontavano già a settantamila unità9.
Se gli immigrati dei decenni scorsi oggi non contribuiscono più all'aumento della natalità regionale, lasciano comunque il segno nel problema degli anziani.
Si è detto prima della tendenza all'invecchiamento, dovuta principalmente alla minore mortalità, grazie agli effetti dello sviluppo, che ha permesso il miglioramento delle condizioni di vita. In Piemonte, però, gli anziani sono particolarmente numerosi perché incrementati dagli immigrati. Un tempo erano giovani forti che costituivano una grossa perdita per i loro paesi natali; attualmente sono persone, spesso sole, che necessitano di assistenza. Molti avrebbero i parenti altrove (in Veneto nel caso considerato): fratelli, sorelle e cugini a cui appoggiarsi in caso di bisogno.
Avvicinarsi ai consanguinei è una scelta compiuta da molti, per invecchiare in serenità al fianco dei propri cari. Di conseguenza, negli ultimi anni si nota una forte mobilità residenziale, innescata dall'esigenza di avvicinarsi ai figli che in precedenza si erano trasferiti in Piemonte10.

I cambiamenti in Veneto

Per comprendere perché si è esaurito l'esodo degli abitanti del Veneto occorre prendere in esame, almeno sommariamente, le trasformazioni che hanno segnato la nascita della cosiddetta "Terza Italia", ossia di quell'area che si è contrapposta al primato del triangolo industriale.
Nel 1967 le province venete misero a punto un programma economico di sviluppo che si prefiggeva due obiettivi: ridurre il divario di ricchezza rispetto alle regioni sviluppate e fermare l'emigrazione facendo diminuire la disoccupazione11. Entrambi gli scopi furono raggiunti.
Le statistiche industriali, attraverso l'analisi di produzioni, prodotto industriale e fattori di produzione, dimostrano che il Nord-Ovest è passato dal 51 per cento dell'occupazione manifatturiera nazionale nel 1911 al 40 per cento nel 1991, con una caduta spettacolare delle regioni tipicamente industriali, fra le quali spicca il Piemonte. Per altre invece il saldo è diventato positivo e tra queste emerge proprio il Veneto (con Emilia-Romagna, Marche e Lazio). Tale fenomeno ha avuto come esito importante lo spostamento d'asse in direzione del versante adriatico, contrassegnato da un forte dinamismo12.
I nascenti complessi industriali hanno assorbito la maggior parte di manodopera che negli anni precedenti aveva cercato lavoro altrove.
Oggi la regione è caratterizzata da un'armatura produttiva basata sullo sviluppo di piccole e medie aziende, trainate dallo spirito d'iniziativa degli imprenditori che, con innovazione tecnologica e una crescente integrazione col settore terziario, hanno dimostrato una validità tale da superare i confini regionali e nazionali13.
Industrializzazione e meccanizzazione si sono diffuse a partire dagli anni settanta (quindi in concomitanza con la fine delle emigrazioni), partendo dall'imitazione del modello del Nord-Ovest, con grandi fabbriche in grossi poli, per giungere alla struttura produttiva definita "capitalismo molecolare", dominata da piccole imprese in piccoli centri14.
Una rimonta storica segnata dalle fortune di industrie conosciute in tutto il mondo, sorte dai comparti tradizionali: abbigliamento, pelli, cuoio, produzione di occhiali e settori di alta tecnologia. Si pensi ai marchi più noti, come Benetton, Stefanel, Luxottica, Ligabue, Marzotto, Coin. O come Diesel, azienda che, producendo jeans, è riuscita a conquistare il mercato internazionale, contrastando addirittura gli americani, creatori del famoso tessuto. La fabbrica è situata proprio nella vallata sottostante ai comuni dell'altopiano che, si è visto, si spopolarono in seguito al fenomeno migratorio.
Oltre ad aver incrementato lo sviluppo industriale, il Veneto ha saputo valorizzare il territorio in maniera equilibrata. Le Prealpi venete e le Dolomiti hanno un'antica vocazione turistica che, negli ultimi due decenni, è stata potenziata con l'incremento delle attività sportive estive e invernali. Inoltre, fra città e campagna si sono instaurati legami proficui, grazie alla presenza di centri di piccola e media grandezza, ma molto importanti dal punto di vista culturale e artistico (come Bassano del Grappa, noto per il ponte del Palladio, per le ceramiche e la grappa, o Marostica, con la famosa piazza degli scacchi), in grado perciò di attirare molti visitatori, che a loro volta aumentano le possibilità di guadagno per tutta la zona.

Il nesso fra emigrazione e sviluppo

Il successo della regione, che coinvolse in particolare il Vicentino e il Trevigiano, ebbe come fattore di sviluppo l'emigrazione. È vero che essa comportò la perdita di persone, soprattutto giovani, e lo svuotamento di alcuni paesi, ma d'altra parte furono proprio gli emigranti a dare un fondamentale contributo al successivo progresso.
Il loro apporto si verificò in molteplici modi, innanzitutto attraverso le rimesse che inviavano a casa, ossia i risparmi per comperare casa e campi. L'attaccamento al lavoro trasformò la loro vita di semplici contadini, migliorando la produzione agricola o facendo di loro imprenditori di successo15. Ciò emerge anche da alcune testimonianze raccolte tra i veneti nel Biellese.
"Invece quelli che sono rimasti in Veneto avevano l'agricoltura, avevano il loro pezzo, tiravano avanti e dopo han cominciato ad avere delle attività e adesso stanno meglio di noi. Per esempio i miei cugini avevano una cascina, una stalla, e han fatto una villa: ma la facevo anch'io. Il 50 per cento erano fondi del Piano verde per la Forestale - erano gli anni settanta - metà a fondo perduto... ecco perché sono venute su tutte quelle attività. Hanno anche avuto soldi dalle altre regioni, non è campanilismo ma i soma dagh-je noi e loro ci han messo del suo come attività, come lavoro e volontà. Adesso sono venuti anche troppo, lavorano in nero e sono dei caini. Io coi miei lo dicevo sempre: 'Ho sbagliato a darvi i soldi'.
Comunque tutti quelli che sono rimasti là hanno un'attività artigianale, con sei-sette dipendenti" (testimonianza di Vittorio Nichele).
In realtà alcune aspettative si rivelarono vane: per anni si pensò che al loro rientro gli emigranti temporanei avrebbero valorizzato le conoscenze professionali e le esperienze maturate nelle fabbriche. Non sempre accadde. Però le nuove conoscenze tecniche arricchirono la qualità del lavoro.
Attualmente è in corso il passaggio generazionale e i veneti più anziani, che hanno costruito le imprese, temono che i giovani, i quali non hanno condiviso le loro esperienze, non continuino il loro dinamismo imprenditoriale. Invece i veneti di prima generazione, ma emigrati in altri luoghi, vedono i loro figli perfettamente integrati in posti lontani dalla regione di origine. In entrambi i casi si sente il bisogno di mantenere i riferimenti culturali, con il giusto equilibrio tra tradizione e innovazione.
Questo perché si è diffusa la convinzione che il Veneto abbia fatto le sue conquiste grazie a valori come l'ingegnosità, la laboriosità e lo spirito di sacrificio. Si mette d'altra parte in risalto la permanenza di taluni valori tramandati dalla forte tradizione cattolica. Tutte queste componenti hanno fatto sì che i veneti, sia nella loro regione sia altrove, siano stati fortemente sostenuti dai valori della famiglia e della cultura locale. Il passaggio generazionale, dunque, potrebbe mettere a repentaglio la struttura delle famiglie-imprese, che è alla base del modello di sviluppo del Nord-Est16.
Non tutti condividono questa preoccupazione, per esempio Gabriele Orcalli vede nelle nuove generazioni, e in particolare negli emigrati, una risorsa importante per il sistema economico locale. A suo avviso la vera sfida consiste nel gestire il rapporto con essi in modo da favorire l'integrazione della regione nel mercato globale. Disporre di un "veneto all'estero" significherebbe avere una sorta di agente che fornisca assistenza e collaborazione agli imprenditori veneti17.
Gli emigrati e, soprattutto, i loro discendenti potrebbero rivelarsi preziosi per la loro conoscenza dei mercati delle altre nazioni. Essi potrebbero rappresentare gli interessi delle imprese venete all'estero, collaborando, se necessario, con organismi pubblici e privati.
Lo stesso Orcalli ha citato come esempio un'esperienza fatta in Argentina - dove emigrarono numerosi italiani, tra cui molti veneti - con il sostegno della Regione. Si trattava di organizzare nelle università alcuni corsi multidisciplinari sull'integrazione economica e circa i problemi relativi ai commerci internazionali.

I legami attuali fra Vicentino e Biellese

Oggi nel Biellese è difficile distinguere una famiglia piemontese da una veneta: gli emigranti degli anni passati si sono inseriti e amalgamati con il resto della popolazione e hanno formato le loro famiglie, hanno costruito le case e alcuni sono anche riusciti a realizzare buoni successi professionali, sia in fabbrica sia nell'edilizia.
Inoltre si è vista la diffusione dei matrimoni misti, che hanno rafforzato ulteriormente la fusione tra due popolazioni diverse e sono stati sempre più accettati dagli autoctoni18.
I figli crescevano qui, frequentando le scuole con i ragazzi piemontesi: anche questo facilitava l'integrazione e certamente le nuove generazioni di veneti si sentivano una parte radicata della cittadinanza, senza problemi di lingua (per loro era più semplice, attraverso l'abitudine, imparare il dialetto delle vallate).
"I miei figli sono cresciuti qua e non volevano nemmeno venire via da Caprile [...] Però non ho mai pensato di tornare ad abitare là, mi è mancato il figlio e ce l'ho qui. Anche a mia figlia piace andare ma conosce solo gli zii e andare col marito in casa di altri non se la sente, allora girano per Asiago, per Bassano e io vado dai parenti" (testimonianza di Caterina Rizzolo).
In Veneto erano cresciuti i genitori: i figli erano nati in Piemonte o, comunque, qui si erano trasferiti sin dai primi anni di età. È ovvio che sia anche mutato il rapporto con la terra di origine: molti vi si recavano in estate, durante le vacanze, imparando a conoscere i parenti lontani e i luoghi che si andavano spopolando. Difficilmente, invece, prevedevano un rientro in Veneto, perché ormai si sentivano piemontesi a tutti gli effetti, ad eccezione di alcuni più anziani che, dopo anni di lontananza, sentivano una forte nostalgia per il loro paese o che, comunque, ancora oggi ritengono casa loro quella lasciata in Veneto.
"Desideravo entrare in una grossa fabbrica, ma non ci riuscii, intanto però, più il tempo passava, più aumentava la nostalgia del paese lontano e con essa la voglia di fare ritorno. D'altra parte ri-emigrare con la conseguenza di dover ricominciare ancora da capo ci incuteva timore [...] Il paese non era cambiato di molto: ancora la strada molto stretta e in forte salita. E in salita, all'inizio, fu anche il nostro reinserimento"19.
"[...] sento dentro quella là come casa mia, anche se per le persone qui ho molto rispetto e ho avuto tanto [...] poi la mia mamma ne parlava molto" (testimonianza di Angela Frello).
Con il passaggio generazionale le cose sono cambiate. In alcuni casi, le abitazioni paterne e materne di cui sono in possesso gli abitanti del Biellese con origini venete, oggi sono state vendute. Per i primi immigrati costituivano un patrimonio fondamentale, da curare e mantenere; per i loro figli, invece, rappresentano sovente una fonte di eccessive spese, considerato l'affievolirsi dei legami con quella regione.
"La casa l'ha sempre tenuta Bruno [...] Poi l'abbiamo divisa io e mio fratello nel '55. Adesso ho voglia di sbarazzarmene per la spesa che pago" (testimonianza di Bortolo Girardi).
"Mi piace andare su, però non stare. Siamo andati tre anni ma sembrava che le cose non andassero bene. Il lavoro c'era a Bassano e Marostica, lì ti adatti o ad andar giù o ad Asiago. Allora andiamo su quando vogliamo" (testimonianza di Silvano Rodighiero).
Se i più giovani sembrano dimenticare le proprie radici e una parte di storia così importante, esistono comportamenti opposti tra le generazioni più anziane. Coloro che vissero in prima persona l'esodo non vogliono cancellare i ricordi.
Nonostante questo forte attaccamento, anche i veneti che sono partiti da parecchi anni, quando ritornano a casa, riscontrano cambiamenti e un senso di sradicamento. È ad esempio eloquente la conversazione avvenuta fra un emigrante di ritorno al paese e un cittadino locale, in merito ai cambiamenti avvenuti nella toponomastica, accolti dall'emigrato con una certa tristezza "Sò tornà dal Piemonte e quasi quasi no trovavo pì la me casa. Sercavo na via e no la ghe g'era pì [...] Me pare che i gà fato un pò massa. Qua a Fontanele che ghe g'era solo Via Rodighieri, desso ghi n'é na desina e x'é restae sempre le solite case. E Via Rodighieri dove x'e-la 'ndà? [...] x'era giusto che anca Fontanele la ciamasse - allude alla piazza - Madona dela Salute [...] non vedo cosa c'entra il Primo maggio [...] L'unica vera e purtroppo triste storia dei nostri paesi la x'é fata de emigrasion e de emigranti. Pitosto se i voleva ricordare el vero sacrificio de chi lavora i podea ciamarla Piassa Emigrasion"20.
Ma le iniziative affinché i rapporti tra i veneti rimasti nella loro regione e quelli partiti continuino ancora ai nostri giorni sono numerose. È sufficiente navigare in Internet per accorgersi di quanti siti siano curati dai veneti con la volontà di riallacciare i contatti con i conterranei sparsi in tutto il mondo: alcuni servono a fare ricerche sulle origini dei comuni, altri a riunire parenti, e così via.
Anche l'area esaminata in questa ricerca, il Vicentino, segue la stessa strada e gli esempi spaziano dalla creazione di monumenti dedicati all'emigrazione, ad associazioni e giornali inerenti a queste tematiche.
Consapevoli di aver perso molti compaesani a causa dell'emigrazione, gli abitanti dell'area vicentina hanno eretto monumenti che li ricordassero.
"Capisco della chiesetta, quando è stata fatta abbiamo cercato di collaborare in tutti i modi. L'emigrazione è tanto sentita qua, penso che più della metà siano andati in giro per il mondo" (testimonianza di Luciana Angelino).
La chiesa di Velo non fu un caso isolato, sebbene l'impatto che ebbe fu notevole. A Gomarolo il parroco don Ottavino Predebon, emigrato in Svizzera, ha fatto erigere una rosa dei venti che rappresenta il fenomeno migratorio, cominciato centoventicinque anni fa, quando i primi contadini veneti andarono in America21.
Un ulteriore esempio di come i veneti cerchino di mantenere i rapporti con i loro emigranti è rappresentato da alcune iniziative di stampa. Per un qualche periodo è stato ad esempio pubblicato un bollettino dal titolo "Onde Corte".
"[...] noi facevamo un giornalino, 'Onde Corte', si scriveva qua e si mandava in tutto il mondo. Lo facevamo qua in casa mia, uno portava un articolo, l'altro un altro. [...] ci trovavamo qua e tutti scrivevano lettere di grande nostalgia" (testimonianza di L. Angelino).
Attualmente il suo esempio è seguito dal giornale "4 Ciacole fra noi altri de Conco", curato da volontari residenti in quel comune. Ogni anno sono pubblicate alcune copie, inviate a tutti gli interessati. Oltre alla gente di Conco il giornale è ricevuto dai conchesi sparsi nel resto d'Italia e nel mondo. Basta farne richiesta alla redazione per poter leggere notizie di vario genere sui luoghi lasciati in cerca di lavoro.
Infatti il giornale dedica spazi a fatti di cronaca, ad annunci di ricorrenze, morti, nascite, lauree. Pubblica inoltre lettere inviate da persone lontane, che ricordano la loro emigrazione o semplicemente ringraziano per l'opportunità di essere messi a conoscenza di ciò che avviene nella loro terra.
"Era mio grande desiderio poter raccontare le mie impressioni e i miei ricordi sull'ultimo 'esodo' dei nostri valligiani emigrati in Italia e oltre oceano"22.
Inoltre sono pubblicati articoli dedicati ai ritrovi di alcune famiglie, di veneti emigrati e con lo stesso cognome.
"Da Coggiola e da Portula (Bi) riceviamo informazioni sul prossimo incontro dei Crestani. A scriverci sono stati Crestani Pilati Azzurra e Crestani Luigi che ci ringraziano per aver dato spazio nel nostro giornale al primo raduno di tutti coloro che portano l'importante cognome Crestani tenutosi in Piemonte nell'aprile del 2000"23.
Tali incontri sono l'occasione per passare giornate all'insegna dell'amicizia e della fratellanza, sia all'estero che in Italia; lo stesso giornale ricorda la grande attività dei Crestani residenti in Piemonte, citati anche dal bisettimanale "Notizia Oggi".
Ma gruppi di emigranti giungono anche in Veneto per simili occasioni.
"Il 15 settembre è arrivato a Fontanelle un pullman carico di biellesi. Hanno voluto trascorrere una serena giornata nel paese dal quale partirono molti anni fa uomini e donne in cerca di lavoro.
Accolti dal suono festoso delle campane hanno assistito alla S. Messa nella Chiesa parrocchiale gremita di fedeli [...] un animatore della comunità parrocchiale si è rivolto ai graditi ospiti con queste parole: 'Fontanelle e il Biellese non hanno bisogno di proclamare ufficialmente il gemellaggio, perché questo sussiste da anni, cioè da quando forti braccia e tasche vuote hanno raggiunto il Biellese in cerca di lavoro. L'hanno trovato e si sono fermati, formando nuclei familiari in unione alla forte e generosa gente del Piemonte, Biella in particolare'.
A Biella, Cossato, Valle Mosso, Croce Mosso, Trivero, Candelo, quanti sono i Rodighiero, Pizzato, Crestani, Poli, Ciscato e Trotto?"24.

Note


* Saggio tratto dalla tesi di laurea Da un Nord all'altro. Aspetti, problemi, vite vissute dell'emigrazione veneta nel Biellese del Novecento, Università del Piemonte orientale, Facoltà di Lettere e Filosofia, a. a. 2001-2002, relatore prof. Claudio Rosso.

1 Federico Romero, L'emigrazione operaia in Europa (1948-1973), in Piero Bevilacqua - Andreina De Clementi - Emilio Franzina, Storia dell'emigrazione italiana. Partenze, Roma, Donzelli, 2001, p. 397.

2 Maria Cristina Migliore, L'evoluzione della popolazione. Uno sguardo alla storia per capire le caratteristiche strutturali della demografia piemontese di oggi, Torino, Ires, p. 3.

3 Idem, p. 4.

4 Corrado Bonifazi - Giuseppe Gesano - Frank Heins, Popolazione e società in Piemonte. Mutamenti e meccanismi nell'ultimo mezzo secolo, in "Working Paper", Torino, Ires, 2001.

5 Remo Valz Blin, Le comunità di Trivero e Portula. La loro evoluzione durante gli ultimi secoli dalla pastorizia, all'artigianato e all'industria, Biella, Teb, 1973, p. 34.

6 Caterina Corradin, Emigrazione al femminile. Dalla montagna vicentina alle vallate tessili biellesi, tesi di laurea, Università degli Studi di Verona, 1988, p. 230.

7 Idem, p. 251.

8 Per ulteriori notizie sui matrimoni e la fecondità delle coppie si veda ad esempio Massimo Livi Bacci, La trasformazione demografica nelle società europee, Torino, Loescher, 1977, e Marzio Barbagli, Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia dal XV al XX secolo, Bologna, il Mulino, 1988.

9 C. Bonifazi - G. Gesano - F. Heins, op. cit., p. 38.

10 Idem, p. 29.

11 Giuliano Petrovich, Evoluzione del modello veneto e presenza dei veneti nel mondo, nuove possibilità di globalizzazione, in “I veneti nel mondo”, a. II, n. 11, dicembre 1998, p. 1.

12 Franco Amatori - Duccio Bigazzi - Renato Giannetti, Un ritratto quantitativo dell'industria italiana, in Aa.Vv., Storia d'Italia. Annali 15. L'industria, Torino, Einaudi, 1999, p. 263.

13 La fabbrica "diffusa", in L'Italia delle regioni, Milano, Touring club italiano, 1997, p. 44.

14 G. Petrovich, art. cit., p. 2.

15 Emilio Franzina, Dopo il '76. Una regione all'estero, in Aa. Vv., Storia d'Italia per regioni. Il Veneto, Torino, Einaudi, 1984, p. 526.

16 Per maggiori notizie cfr. Ulderico Bernardi, Comunità venete tra persistenza e mutamento nel passaggio delle generazioni, in Atti della conferenza permanente dei veneti nel mondo, Verona, Conferenza permanente veneti nel mondo, 1996.

17 Gabriele Orcalli, I "veneti nel mondo" come agenti di internazionalizzazione della regione, in Atti della conferenza permanente dei veneti nel mondo, cit.

18 C. Corradin, op. cit., p. 230.

19 M. Furlani, Memorie e passioni di un emigrante, in "4 Ciacole", n. 55, settembre 2001, p. 9.

20 Un Emigrato, Ancora sulla toponomastica, in "4 Ciacole", n. 4, settembre 1981, p. 5.

21 Comitato Relazioni Pubbliche Gomarolo, Gomarolo inaugura il Monumento all'emigrante, in "4 Ciacole", n. 54, marzo 2001, pp. 17-18.

22 M. Furlani, art. cit., p. 9.

23 Incontri di famiglie, in "4 Ciacole", n. 54, marzo 2001, p. 9.

24 A. Fiorese (a cura di), Cronache da Fontanelle, in “4 Ciacole”, n. 28, novembre 1985, p. 3.