Le riforme fatte a tempo opportuno prima che queste siano imposte dalle passioni delle masse, sono quelle che allontanano le rivoluzioni. Cavour, Discorsi Parlamentari[1]
La preparazione di una maestranza disciplinata, formare degli operai abituati a lavorare con stipendio e senza orari fissi, con la disciplina di fabbrica nel sangue è stato sempre l’assillo degli industriali. I diversi modi per risolvere il problema sono tutti riconducibili a forme paternalistiche, più o meno programmate, che permettono all’imprenditore non solo di stabilizzare la manodopera, ma di ottenere “la vittoria sulla coscienza di classe, il dominio sulla interiorità dell’operaio. Con un misto di utopismo razionalista, di scienza dello sfruttamento, di umanesimo paternalista egli conquista nella sua fabbrica la pace sociale di cui ha bisogno”[2]. Se il paternalismo può essere considerato un modo di sfruttamento, questo assume alti gradi di razionalità e raffinatezza nell’800 in concomitanza della importanza attribuita dagli industriali al nuovo ruolo dell’industria nello sviluppo economico. Per L. Guiotto, il paternalismo, nel suo senso più completo: è l’appropriazione da parte dell’industriale, della sfera totale di vita dell’operaio a lui sottoposto. Non soltanto nell’ambito ristretto del rapporto produttivo, ma pure nelle funzioni più personali e rappresentative della vita, privata e sociale, del lavoratore, il padrone intromette il suo potere. L’assunto di base sta nell’imposizione di una pretesa totale inferiorità dell’operaio e della sua generale incapacità all’autogestione. Il padrone il tal modo gli si sostituisce, lo guida e lo inquadra nel piano di un suo personale progetto[3].
Un progetto alla base del quale sta il momento produttivo, che giustifica l’allargamento del dominio al di fuori del luogo di lavoro. Il paternalismo vero e proprio si sviluppa nella circostanza del passaggio dal momento organizzativo proprio del mondo pre - industriale al sistema di fabbrica nella sua totalità. Esso propone al cittadino una divisione classista dentro e fuori del luogo di lavoro, con ruoli gerarchizzati e fissi, l’ ingerenza del padrone e la necessità della ragione di fabbrica in tutti i momenti della vita, sia nelle forme associative che nella sfera privata. Sulla base ideologica che muove la progettazione, possono essere individuate diverse forme di paternalismo. L. Guiotto definisce tre fasi di paternalismo. Nella prima, definita del protopaternalismo:
l’intervento operativo dell’industriale si configura nella creazione d’infrastrutture sociali elementari al solo scopo di fornire un’ossatura tecnico-urbanistica alle esigenze di tenere le maestranze nelle immediate vicinanze della fabbrica. Questa strutturazione è la forma più rozza, più elementare, meno intrisa di manipolazioni ideologiche, tesa soltanto a organizzare in maniera immediata la disponibilità totale della forza-lavoro[4].
La forma protopaternalistica si nota dove maggiore è la dispersione della manodopera, e le infrastrutture presenti si riducono al minimo vitale di case isolate e sentieri. La seconda fase è quella del paternalismo vero e proprio, in cui, nella politica sociale attuata dal singolo industriale, il sistema di fabbrica viene allargato alla comunità del villaggio.
L’industriale esce dai naturali confini del luogo di produzione per appropriarsi dell’intera vita dei suoi sottoposti. Si realizza una sorta di neo-feudalesimo, dove il capitalista assume il ruolo carismatico del capo, del padre (più che padrone) di tutta la ‘sua’ comunità. Soprattutto importante è il momento educativo, d’inquadramento pedagogico della classe operaia secondo schemi di disciplina e sotto missione. Attraverso le costruzioni sociali (case, scuole, spacci, mense, convitti), ma soprattutto tramite le istituzioni (libretti di risparmio, prestiti sull’onore, concessione di “dote” alle operaie, privatizzazione della vita individuale, etica della famiglia, ecc.) il padrone perviene a manipolare la coscienza operaia, a rompere o impedire l’unità di classe[5].
Nell’ultima fase si ha il coinvolgimento delle istituzioni governative nell’opera di inquadramento delle masse, che sfocia, in Italia, nella politica sociale del regime fascista. In questo stadio più perfezionato, ci sono l’inquadramento più totale, il controllo più ossessivo e la gerarchizzazione più esplicita:
l’applicazione del paternalismo protetto diviene prassi istituzionale, assume forme di applicazione strutturate su ambiti più vasti, parte di un più allargato disegno sorretto da apparati repressivi più potenti, dilatando quindi all’estremo la copertura all’opera del singolo industriale[6].
G. Baglioni classificando i rapporti tra industriali e manodopera in quattro tipi di ideologie, attribuisce il paternalismo all’ideologia della dipendenza[7], che, già presente nei rapporti sociali precedenti all’età industriale, viene ripresa negli ambienti industriali.
I privilegiati esigono sottomissione, obbedienza e lealtà e cioè un coinvolgimento primario ed emozionale dei subordinati nei loro confronti; essi, in cambio […] si assumono responsabilità nei confronti degli inferiori e cercano di alleviare i disagi e gli imprevisti che a questi possono presentarsi. […] I subordinati - normalmente indicati con l’appellativo di poveri - sono considerati ripetutamente vittime innocenti dei loro difetti e della loro imprevidenza: tutto ciò sembra essere inevitabile e va perciò riguardato con diffusa benevolenza e comprensione. Il superiore, l’autorità, il ricco si atteggiano come i parenti adulti del povero nel senso di proteggerlo; convinti, tuttavia, che esso non potrà mai sfuggire al suo destino di essere incapace di regolarsi da solo e, quindi, bisognoso di tutela e di guida[8].
Baglioni presenta il paternalismo come forma aggiornata della tradizionale ideologia della dipendenza, che “estende il potere del superiore alla sfera extralavorativa della vita del subordinato e presuppone l’incapacità del secondo di risolvere i suoi problemi e di prendere iniziative adeguate”[9]; e nel contempo la supera perché implica il riconoscimento dell’esistenza del lavoro operaio nella sua dimensione collettiva e costante.
I fautori dell’industrializzazione, individuati prevalentemente nei rappresentanti del settore tessile, ricorrono spesso ad elaborate forme paternalistiche a causa della localizzazione decentrata e della prevalenza di manodopera rurale nelle loro manifatture. La manodopera operaia, una volta istruita al lavoro in fabbrica, diviene difficilmente sostituibile, per questo l’imprenditore tessile provvede a legarla a se il più stabilmente possibile, tenendola “occupata in modo stabile e continuativo, […] corresponsabilizza interi nuclei parentali, […] dando loro un tetto per la notte, una chiesa e un’osteria e una famiglia da tenere a modello: la sua […] [oltre ad] un medico, [ed] […] opere filantropiche [alle quali] provvedono in prima persona la moglie o le figlie del padrone. […] Al disegno edilizio sottostà dunque un apparato di relazioni sociali perfettamente rispondente, caratterizzato da una ridotta mobilità con conseguente fissità dei ruoli, strutturati in un rapporto piramidale, gerarchico. Sulla cima della piramide [c’è] l’imprenditore[10], che per molti autori viene quasi a riproporsi come un feudatario medievale; egli, per U. Bernardi:
dotato di potere assoluto sulla gleba, è altresì obbligato moralmente e giuridicamente a mantenerla in condizione di efficienza funzionale[11].
Il paternalismo ottocentesco, legato alla necessità di localizzare le industrie vicino ai corsi d’acqua, è destinato a finire con l’avvento dell’elettricità. La relazione tra datore di lavoro ed operaio può allora essere portata sul piano puramente economico, e gli operai, lasciati liberi fuori della fabbrica, cominceranno a organizzarsi in associazioni. Con ciò, il paternalismo non può dirsi concluso, semplicemente si trasforma.
Il sociologo F. Ferrarotti indica tre tipi di paternalismo, in successione temporale, ai quali corrispondono due tipi estremi di rapporto fra direzioni aziendali e rappresentanti operai. Il primo tipo di paternalismo è quello autoritario:
In questo tipo l’impresa è completamente posseduta, diretta e controllata dalla famiglia; la famiglia proprietaria si pone come l’oggetto di una lealtà assoluta. Il capo-famiglia è anche il direttore generale dell’impresa. […] Il valore chiave di questo tipo di rapporto è l’obbedienza, la subordinazione pura. La direzione concepisce la fabbrica come una grande famiglia[12].
Il secondo tipo di paternalismo è definito manipolativo, in questo caso:
Il gruppo famigliare è ancora in posizione di proprietà e di controllo dell’impresa, ma non è più la sola fonte del personale direttivo. Le dimensioni dell’impresa sono tali che è inevitabile un certo ricambio dei lavoratori. […] Il problema più importante che le direzioni affrontano in questa situazione sembra consistere nel come determinare un atteggiamento di lealtà verso la famiglia da parte di persone che, pur appartenendo all’azienda, non se ne sentono partecipi in alcun modo. Il valore chiave qui è la lealtà; non l’obbedienza [13].
L’ultimo tipo è costituito dal paternalismo democratico o di partecipazione:
L’impresa in questo caso può ben essere ancora in gran parte di proprietà della famiglia, ma non è più diretta su una base famigliare. Essa è amministrata e diretta da professionisti. Membri della famiglia sono presenti nella struttura gerarchica dell’azienda, ma non occupano necessariamente le posizioni chiave e le loro opinioni non sono decisive. […] Il criterio fondamentale nella retribuzione e nell’avanzamento diventa la prestazione [il merito] […], anche per i membri del gruppo famigliare proprietario[14].
Ai suddetti modi di intendere il paternalismo corrispondono due tipi di direzione aziendale che nella vita reale si presentano spesso interrelati e confusi. Da una parte:
la direzione di tipo familistico o dinastico, in cui tutti i livelli e le funzioni direzionali sono considerate prerogativa della famiglia […]. Non può venire insegnata o imparata, ma l’autorità va considerata come una qualità innata o un tratto ereditario, trasmissibile solo attraverso legami di famiglia o di sangue. […] L’atteggiamento del dirigente familistico rispetto alla produzione è determinato dal suo desiderio di accumulare profitti nell’interesse della famiglia
dall’altra la direzione professionistica o funzionale […] in cui il compito direttivo è considerato una professione, quindi qualche cosa che può essere insegnata e che si può imparare a scuola o direttamente in fabbrica o con ambedue i modi. […] Retribuzione ed avanzamento non sono collegati con i diritti di proprietà, bensì fondati sulla qualità della prestazione e sulla produttività. […] L’autorità del dirigente funzionale è acquisita attraverso la delega da parte di consigli di amministrazione o di proprietari individuali. […] Il dirigente funzionale o professionista […] tende ad andare oltre il paternalismo. Preferisce una realistica contrattazione collettiva ad ogni tentativo di manipolare la lealtà delle maestranze […] non ha generalmente alcuna difficoltà a firmare un accordo con i rappresentanti operai per un aumento di salario basato su un aumento di produttività[15].
Nella realtà in Italia si propongono contemporaneamente diverse tipologie di paternalismo aziendale, sintetizzate da S. Merli in:
quello volgare di Marzotto che tiene Valdagno con la mentalità e la tecnica del ras e dello sbirro, […] quello baronale dei Crespi e dei Raggio [a Novi Ligure] e quello venato di istanze cristiano-sociali dei Poma […] il paternalismo anonimo della società per azioni tipo Cotonificio Udinese […] i paternalismi del Sella a Biella, del Rossi a Schio, del De Lardarel a Montecerboli irripetibili nella loro unicità […] legati appunto alla personalità dei loro creatori o a circostanze particolari [16].
Ognuno di questi imprenditori, oltre ad importare le tecniche paternalistiche dai paesi europei più evoluti, vi ha aggiunto:
un miscuglio di filosofia personale (come il Rossi o il De Larderel) fatto di scientismo, illuminismo, darwinismo, utopismo sociale, […] che con il simbolismo trionfalistico (dei Gavazzi [17], dei Raggio, dei Poma, dei Crespi, ecc...) contribuiva a creare una mitologia politico-industriale, da buttare davanti allo stato e alle masse operaie cui richiedevano protezione, deleghe e libertà di sfruttamento [18].
[1] Citato in: GUIOTTO L., La fabbrica totale, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 18. [2] MERLI S., Proletariato di fabbrica e capitalismo industrial: il caso italiano 1880 - 1900, 2 voll., Firenze, La Nuova Italia, 1972 - ’73, p. 328. [3] GUIOTTO L., La fabbrica totale, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 29. [4] Ivi, p. 30. [5] Ivi, p. 31. [6] Ivi, p. 33. [7] BAGLIONI G., L’ideologia della borghesia industriale nell’Italia liberale, Torino, Einaudi, 1974. Le altre tre sono: dell’autonomia, degli ideali superiori e della collaborazione. [8] Ivi, pp. 49 - 50. [9] Ivi, p. 59. [10] BERNARDI U., Ricerca sociologica sul villaggio operaio di Crespi d’Adda, in: AA.VV., Villaggi operai in Italia, a cura di A. Abriani, Torino, Einaudi, 1981, pp. 128 - 129. [11] Ibidem. [12] FERRAROTTI F., Il rapporto sociale nell’impresa moderna, Roma, Armando, 1961, pp. 40 - 45. U. BERNARDI [op. cit.] indica come caso di paternalismo autoritario il caso di Crespi d’Adda, e a questo tipo sono ascrivibili in gran parte i villaggi operai ottocenteschi nati per il volere di una famiglia imprenditrice [13] Ibidem. [14] Ibidem. [15] Ibidem. [16] MERLI S., Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale: il caso italiano 1880 - 1900, 2 voll., Firenze, La Nuova Italia, 1972 – ‘73, p. 360; il villaggio operaio dei Raggio è a Novi Ligure (AL), quello dei Poma a Miagliano (BI). [17] La famiglia Gavazzi impiantò diverse manifatture seriche, la più grande a Desio (MI). [18] MERLI S., op. cit., p. 361.
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