San Leucio
A San Leucio (Caserta) dal 1778 Francesco Collecini, l’architetto del re Ferdinando IV, inizia a dirigere la trasformazione di un antico casino di caccia nel corpo centrale di un grande edificio rettangolare comprendente manifattura per la seta, appartamenti reali, abitazioni per maestri e direttori della fabbrica, scuola normale[1]. Di fronte verranno costruiti due quartieri di abitazioni modulari con orto per operai atti a contenere trentasette unità famigliari. “L’antico nucleo […] [di San Leucio], è il cosiddetto Belvedere, un palazzo del XVI secolo […] che viene acquistato da Carlo III di Borbone nel 1750, insieme con tutta la circostante tenuta, per farne una riserva di caccia al cinghiale. […] Più tardi Ferdinando IV porta avanti i lavori, facendo recintare l’intera riserva e costruire un casino di caccia (1773) che, poi ampliato, ospiterà la famiglia reale, divenendo tenuta agricola. […] A San Leucio, però, il re perse […] il suo figlio primogenito, Carlo Tito, all’età di quattro anni”[2]. A seguito di ciò Ferdinando IV ordinò il restauro completo del Belvedere dove si trasferì con tutta la famiglia reale. Dei lavori di ripristino e ampliamento del Belvedere e dei successivi edifici leuciani si occupò Francesco Collecini, che era stato aiuto del Vanvitelli nelle opere eseguite alla reggia di Caserta. Alla base di questi lavori il re pose il proposito di realizzare un centro manifatturiero con ordinamenti egualitari, regolati da norme da lui composte. Come colonia manifatturiera egalitaria, a San Leucio ogni elemento edilizio altisonante doveva essere escluso e qualche nota di monumentalità è stata data solo sui prospetti del Belvedere. Fino a questo momento venne solo creato un ambiente che offrisse i mezzi per una tranquilla esistenza al centinaio di persone che gravitavano intorno al Belvedere. Ma nella prima metà del secolo la popolazione di San Leucio salì a 832 persone. Il re decise allora di trasformare San Leucio in una città manifatturiera, e la denominò Ferdinandopoli, costituendola nel 1789 in Real Colonia, cioè soggetta a lui e alle sue dirette dipendenze. Il progetto di Collecini prevedeva una città a pianta radiale: una grande piazza circolare al centro dalla quale partivano le strade intersecando i quartieri posti ad anelli concentrici e un asse prospettico principale concluso sulla facciata del palazzo-fabbrica. Architettonicamente vi era un accurato studio delle funzioni: le stanze erano larghe per tenere i telai in casa, ciascuna con un camino adatto a cuocere i bozzoli dei bachi da seta, i negozi, un albergo ed altri servizi permettevano lo sveltimento della produzione come in una vera fabbrica di tipo moderno. Tra il 1786 e il 1787 furono costruiti i quartieri di San Carlo e San Ferdinando, le uniche parti realizzate del progetto di “Ferdinandopoli”[3]. “L’unità di abitazione dei quartieri era composta da due moduli quadrati, di sei metri di lato, alti due piani, con seminterrato; e conteneva spazi definiti (il modulo formato dalla cucina, dal bagno, dalle scale e dalla zona pranzo) e spazi flessibili, senza mura interne. Nel 1794 viene costruita la “trattoria”, adiacente a uno dei due quartieri”[4]. I lavori furono bloccati nel 1799 dalla rivoluzione napoletana, ma la mancata realizzazione di Ferdinandopoli, comunque, va attribuita allo stesso re, cui non sarebbero mancati né i mezzi né il tempo per attuare il suo progetto avendo regnato ancora in Napoli per oltre quindici anni prima e dopo l’usurpazione[5]. Il paternalismo[6] di Ferdinando IV che lo aveva spinto alla creazione del centro manifatturiero fu sostituito da nuovi atteggiamenti maturati forse nei soggiorni in Sicilia, che lo restituivano alla vita fastosa della Corte. E’ significativo notare l’esperimento fallì dal momento in cui la colonia stava per allargarsi eccessivamente. San Leucio venne dichiarato comune il 26 maggio 1866 con Decreto Reale.
Nel gennaio 1789 Ferdinando aveva pubblicato lo statuto, con le leggi corrispondenti al buon governo della colonia; in tal modo non si attuava soltanto un esperimento produttivo ma soprattutto un esperimento sociale, in un momento in cui le nuove idee illuministiche che giungevano dall’Europa sollecitavano nuovi modelli di società, ispirati all’ideale del “buon governo” ed una società razionalmente ordinata. L’organizzazione comunitaria tratteggiata dalle leggi aveva degli aspetti talmente singolari da essere considerata per certi aspetti utopistica. La comunità era concepita come emanazione di un personaggio carismatico (il Re stesso), si identificava con tradizioni create intenzionalmente ed ex novo aventi però carattere cerimoniale ed era tenuta insieme da vincoli di sangue, cioè da matrimoni esclusivamente interni quindi incrociati da affinità di mestiere. Il sovrano fungeva da padre collettivo, oltre che essere il fondatore ufficiale, legislatore, amministratore e sacerdote della comunità. Il re riteneva che in una società bene organizzata l’educazione pubblica dovesse essere alla base della tranquillità, la buona fede la base di ogni rapporto sociale, il merito la base di ogni distinzione fra gli individui. La chiesa non fu, per i primi decenni, visibile nel panorama della comunità, essendo inglobata dentro il palazzetto reale; si rispecchiava in questo modo il tipo di religione invocata nel codice, che era vicina al deismo, cioè ad una concezione puramente razionale della teologia e quindi indirettamente del potere morarchico. Lo statuto emanato da Ferdinando IV era una sintesi delle concezioni e delle teorie economiche formulate a Napoli da Gianbattista Vico e Filangieri, un’idea dello Stato di impostazione paternalistico-monarchica in cui il re si poneva al vertice di una rivoluzione sociale e il vincolo tra lui e la colonia era rappresentato dal collegamento tra il palazzo e la fabbrica. Il re si preoccupò che la mancanza di educazione potesse creare “una pericolosa società di scostumati e malviventi” e per questo istituì una casa di educazione e si occupò del doposcuola. Gli abitanti di San Leucio per essere considerati tali dovevano saper lavorare la seta, solamente loro potevano vivere nella colonia e lì sposarsi, ricorrere alla Cassa di carità in caso di bisogno e avere un alloggio sicuro. Il principio base su cui si fondava tutta la struttura ideologica della colonia era quello dell’uguaglianza, e la prima applicazione di questo principio da parte di Ferdinando IV fu la proibizione del lusso ed in particolare quello del vestire: quindi tutti i cittadini erano vestiti in modo eguale, ma soprattutto tutti dovevano essere uguali nel rispetto e nella venerazione del sovrano. Nella colonia il nucleo familiare aveva una particolarità, quella di potersi formare solo tra individui nati e vissuti a San Leucio, inoltre gli ambedue futuri sposi potevano contrarre matrimonio solo in seguito alla dichiarazione del direttore dei mestieri, di essere provetti nella arte della seta e capaci di poter guadagnare un onere sicuro atto al loro mantenimento. Nel contrarre matrimonio il re vietò l’usanza di apportare la dote ed egli stesso dava ai due giovani una casa con tutto ciò che a loro era necessario, ponendo sempre più i coloni alle proprie dipendenze[7]. Dalla nascita alla morte e alla successione, ben poca autonomia il re lasciava ai suoi sudditi. I testamenti erano vietati, le successioni erano limitate solo tra genitori e figli e con i collaterali di primo grado, per evitare l’accumularsi su di una sola persona di più beni. Il lavoro veniva considerato dalle leggi leuciane più che un diritto, come un dovere, ed infatti coloro che giungevano all’età di sedici anni senza essere impiegati, per mancanza di volontà, nelle maestranze, venivano mandati in una casa di correzione e non potevano più ritornare nella colonia. L’assistenza era diretta sia agli orfani che agli inabili al lavoro. L’ultima parte delle leggi si occupava delle norme penali. Per i delitti, oltre alle pene previste nel regno borbonico, vi era l’immediata espulsione dalla colonia, e la stessa pena era inflitta a chi consentiva in un’osteria il gioco delle carte, dimostrando una volta di più la preoccupazione che hanno dato, fin dall’inizio, le attività nel tempo libero “non controllato” dai superiori.
[1] GENOVESE R. A., Note sul complesso architettonico industriale di San Leucio, “Restauro”, n. 38 - 39, Napoli, 1978. L’autore chiama”Falansterio” questo edificio rifacendosi alle teorie di C. Fourier. [2] Ivi, p. 95. [3] Si veda: AA.VV., Quartieri operai a San Leucio, 1786, “Abitare”, n. 158, Milano, 1977. [4] ROSSO DEL BRENNA G., voce “Collecini Francesco”, in: Dizionario biografico degli italiani, Roma Istituto della Enciclopedia Italiana, 1982, p. 799. [5] Si vedano i siti internet: www.comune.caserta.it e www.casertaweb.com [6] Il carattere paternalistico dell’operazione è da alcuni autori messa in discussione: “E’ […] da sottolineare il preciso disegno politico-economico che sottende l’iniziativa, la quale, tuttavia, conserva un suo carattere chiaramente sociale (sancito dal Codice Leuciano) e, forse, nella sua ideazione assai più umanitario e paterno (date le circostanze che l’hanno dettato) [la morte del figlio] che non paternalistico” [GENOVESE R. A., Note sul complesso architettonico industriale di San Leucio, “Restauro” n. 38 - 39, Napoli, 1978, pp. 95 – 96]. [7] Un atteggiamento analogo verrà talvolta assunto dagli industriali paternalisti ottocenteschi: Francesco De Larderel, nel villaggio da lui fondato a metà ‘800 vicino a Montecerboli, rinominato Larderello, imporrà il suo consenso e la concessione di una dote ad ogni ragazza che si sposa. A Larderello i “matrimoni vengono per lo più celebrati tra le famiglie dell’opificio, cementando in misura sempre maggiore i rapporti tra comunità e territorio, e tra questi e l’industria, evitando nel contempo pericolosi rapporti con il resto del mondo” [GUIOTTO L., La fabbrica totale, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 101].
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