S. B. CRESPI, Dei mezzi di prevenire gli infortuni e garantire la vita e la salute degli operai nell’industria del cotone in Italia. Memoria presentata al congresso internazionale degli infortuni sul lavoro e delle associazioni sociali in Milano dal dottor S. B. CRESPI, Hoepli, Milano, 1894.
E’ indiscutibile che la grande industria e l’accentramento del lavoro, sommi fattori dei progressi di questo secolo, avvicinano l’opera dell’uomo a quella della macchina, e fanno perdere in indipendenza all’operaio tutto quanto egli guadagna in produttività. L’uomo, creatura essenzialmente libera, amante d’aria e di luce e bisognosa di svilupparsi al sole […] è costretto invece a vivere dalla civiltà […] [a] servire soltanto come un ingranaggio. La grande industria è dunque contraria alla natura umana, al suo sviluppo fisico, e se essa non viene esercitata con intelletto d’amore propala la rachitide, l’anemia, il disamore alla famiglia e al suolo natale, il vizio, il deperimento delle razze. Ne segue la rivolta, sotto forma di socialismo per alcuni, d’anarchia per altri […]. La responsabilità di quegli imprenditori è dunque incalcolabile, come immensa la latitudine del suo dovere, in quali consiste nel conciliare la necessità dell’industria colle esigenze della natura umana, in modo che i progressi dell’una non sieno mai per inceppare lo sviluppo dell’altra. Fra quegli imprenditori collochiamo in prima linea i cotonieri, perché l’arte loro si vale di un vario e largo complesso di meccanismi che si susseguono ed agiscono da sé, e che l’uomo deve soltanto mantenere in buono stato. Nella meravigliosa loro industria le spese di produzione diminuiscono col crescere di questa; ond’é che essa tende sempre ad ingrandirsi, e i suoi opifici ad allargarsi, così che diventano talvolta dei veri villaggi industriali. Vi si radunano, e più ancora vi si raduneranno, legioni d’operai che da mattina a sera per anni ed anni attenderanno sempre alla stessa macchina, compiendo sempre le stesse operazioni, tanto che diventerebbero bruti, se non fossero soccorsi da quell’accennato intelletto d’amore di cui sopra dicemmo. Hanno i cotonieri la coscienza della loro responsabilità, del loro dovere? Per la più parte, sì. Siamo lieti di poter asserire che essi hanno già dato molte prove di sentimenti filantropici, col costruire i loro opifici in modo che la salubrità e la giocondità degli ambienti, valesse a mantenere sano il corpo e rialzato lo spirito di chi vi lavora; col curare gli alloggi, il mantenimento, l’istruzione; col non lesinare le paghe […]. Ultimata la giornata di lavoro, l’operaio deve rientrare con piacere sotto il suo tetto: curi dunque l’imprenditore ch’egli vi si trovi comodo, tranquillo ed in pace: adoperi ogni mezzo per far germogliare nel cuore di lui l’affezione, l’amore alla casa. Chi ama la propria casa, ama anche la famiglia e la patria, e non sarà mai la vittima del vizio e della neghittosità. E i cotonieri che hanno i loro opifici lontano dai villaggi, che sempre traggono da lontani paesi una parte dei loro operai e devono costruire per essi delle abitazioni, possono farlo in modo da procurare a se stessi e ai loro dipendenti le più vive soddisfazioni. Era seguito da tutti, fino a pochi anni or sono, il sistema di fabbricare case grandi, a più piani, capaci di contenere 10 e fino 20 famiglie: questo era un errore. si facevano delle caserme, non delle case, in cui il pianto ei bambini, i pettegolezzi fra donne I rumori d’ogni genere interrompono continuamente la quiete necessaria al riposo, e la vita vi si fa quasi in comune, con grave pericolo della moralità e della pace domestica, e la troppa vicinanza delle famiglie ingenera malumori, che finiscono in diverbi od in risse. Non s’illuda l’industriale di creare una manodopera affezionata usando di tale sistema di costruzione: avrà sempre degli operai girovaghi, cupiti soltanto di un maggior guadagno. La casa operaia modello deve contenere una sola famiglia ed essere circondata da un piccolo orto, separata da ogni comunione con altri. […] Fra i cotonieri ci permettiamo di presentare […] un paesello […] chiamato Crespi […] quel paesello consta di parecchie grandi case operaie, costruite col vecchio sistema, ma pure fornite di locali ampi, elevati, sano sotto ogni riguardo; e di una quantità di palazzine circondate da ortaglie e giardini, divise da cancelletti di ferro […]. Le palazzine sono di due specie; quali a una sola e quali a due entrate. Quelle a due entrate servono per due famiglie, di cui ognuna gode quattro camere, formanti di per se stesse una piccola casa completa. […] noi sappiamo che diversi cotonieri hanno seguito il sistema di costruzione che ormai anche in Italia è provato come ottimo; sicché invitiamo tutti gli interessati in materia ad esaminarlo e ad applicarlo sulla scala più larga possibile. Una palazzina del genere di quelle descritte costa dalle 7.000 alle 8.000 lire; meno cioè di mille lire per locale: una grande casa provvista d’ambienti di eguale capacità costa in ragione di 600 o 700 lire per camera. Ma che valgono cento o duecento lire in confronto ai vantaggi che si ottengono usando il sistema da noi raccomandato? Vantaggi che sono di sue sorta, materiali e morali; questi ultimi socialmente incalcolabili. I più bei momenti della giornata sono per l’industriale previdente quelli in cui vede i robusti bambini dei suoi operai scorrazzare per fioriti giardini, correndo incontro ai padri che tornano contenti dal lavoro; sono quelli in cui vede l’operaio svagarsi ad ornare il campiello o la casa linda e ordinata: sono quelli in cui scopre un idillio od un quadro di domestica felicità; in cui fra l’occhio del padrone e quello del dipendente corre un raggio di simpatia, di fratellanza schietta e sincera. Allora svaniscono le preoccupazioni d’assurde lotte di classi, e in cuore si apre ad ideali sempre più alti di pace, d’amore universale […].
28 settembre 1894
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