II. 3. 1. Tipi di insediamento
Nella costruzione di quartieri operai vicini alle fabbriche si hanno diverse soluzioni, in risposta alle condizioni date. Secondo P. Thea[1]: - se le fabbriche si trovano nei grandi centri urbani, qualora si abbia a che fare con degli industriali sensibili alla “questione sociale” per i più svariati motivi che vanno dalla ricerca della tranquillità sociale o ad utopie comunitarie, si ha la costruzione di quartieri riservati alla classe operaia o la dotazione di servizi socio-sanitari degli stessi. Nel caso opposto si va incontro alla costruzione di quartieri-ghetto caratterizzati da tipologie “a caserma”[2].
- se le fabbriche si trovano decentrate in centri diffusi sul territorio, generalmente la manodopera di origine rurale […] continua ad abitare nelle località dove risiedeva in precedenza […] qualora si debbano costruire delle abitazioni lo si fa semplicemente oltreché per il direttore, che però abita di preferenza distante dallo stabilimento in un villino signorile per i custodi e i guardiani della fabbrica […] oppure per i quadri aziendali e impiegati che normalmente provengono da lontano e abiteranno in “villini” appositi siti nei pressi della fabbrica[3].
- se le fabbriche si trovano isolate in centri sperduti o nelle valli alpine (come si verifica a Villar Perosa), si contempla il caso della costruzione di villaggi operai nel senso che fabbrica e abitazione sono integrate in un tutt’uno organico con il compito di surrogare l’originaria provenienza rurale della manodopera[4],
ed è questa la tipologia di insediamento oggetto di questo studio. “Mentre la città diventerà il serbatoio della mano d’opera e l’industria cittadina uno dei fattori di inurbamento, è al contrario vero che là dove e quando occorreva una localizzazione precisa ed indipendente dai sistemi urbani del processo industriale, occorreva portarvi ed insediarvi la mano d’opera, e quindi determinare nuovi fenomeni urbanistici, cioè i cosiddetti villaggi operai”[5], dove gli abitanti divisi in fasce, dirigenti, impiegati, capi operai e operai, rappresentano le unità produttive necessarie al regolare funzionamento degli impianti, mentre la restante manodopera in mobilità usufruisce solo di alcuni servizi sociali di previdenza ed assistenza fondati dall’industriale.
II. 3. 1. 1. Un villaggio artificiale che sembri naturale
Il villaggio operaio esemplare è un organismo tutto integrato e autosufficiente, fabbrica - casa, lavoro - vita famigliare e sociale, secondo modelli le cui matrici culturali e storiche sono molteplici: il pensiero di ideologi utopisti, di filantropi, di uomini politici illuminati, di “ingegneri igienisti”. Un microcosmo in cui tutti i bisogni sono soddisfatti, allo scopo di ottenere una società stabile e di allontanare, anzi prevenire, il pericolo di proteste. Questa concezione trova riscontro nella struttura degli alloggi e nella ricca dotazione di servizi sociali. Più in generale, i villaggi operai appartengono alla categoria degli insediamenti pianificati, una tipologia di insediamento produttivo, che, secondo C. Fazzini, ha un diverso assetto produttivo e fisico, consistente
- nell’economia dell’accentramento delle funzioni produttive e residenziali; - nella possibilità di reperimento di manodopera grazie all’offerta insediativa; - negli stadi di crescita ed espansione non condizionati dai limiti di altre strutture produttive, come avviene nelle città; - nell’opportunità di scelta di una localizzazione che offra integralmente i requisiti richiesti dalla produzione, quindi pianificazione totale degli elementi che determinano la produzione stessa[6].
Il villaggio operaio è una struttura di connessione, di mediazione tra la utopia e la risoluzione di massa dei problemi socio - urbani indotti dai processi produttivo - industriali. In risposta al disordine della civiltà industriale c’è un'aspirazione all’ordine, in un momento in cui le misure prese con iniziative pubbliche non bastano a rinnovare il tessuto urbanistico delle città, e simmetricamente sono fallite le prospettive e le profezie degli utopisti di città immaginarie autosufficienti. I due programmi vengono composti, per A. Abriani, dagli ideatori del villaggio operaio,
in un progetto che consenta tuttavia di mettersi al riparo dai rispettivi inconvenienti: dell’uno mantengono il principio del controllo (padronale e quindi, anche se talvolta con molte mediazioni dello Stato) dall’altro l’autosufficienza con la casa individuale (casa individuale, orto e giardino). […] Il villaggio operaio va definendosi in tal modo come il risultato, da un lato, di un intervento a livello urbano o microurbano, strettamente legato ad un’attività industriale, dall’altro come il risultato di un’iniziativa paternalistica, fondata sui principi di famiglia, religione e proprietà[7].
La proliferazione dei villaggi aziendali per tutto il corso dell’ottocento corrisponde a una fase intermedia di produzione, gestione ed uso del territorio da parte del sistema capitalistico - industriale, tra una prima fase finalizzata al mero profitto, e una successiva, tra la seconda metà del secolo scorso e i primi anni del novecento si definiscono ruoli ed interrelazioni tra capitale e potere politico, tra imprenditori e governo centrale o locale. Nella fase intermedia dell’organizzazione del capitale, gli industriali “illuminati” costruiscono i villaggi operai, che costituiscono ”investimenti aziendali non circoscritti a spazi e strutture produttive, ma a tutto gli elementi che compongono il ciclo della produzione: riproduzione della forza lavoro, istruzione, organizzazione del tempo libero e così via”[8]. Nell’ultima fase lo stato e gli organi di governo locale saranno sempre più complici o strumenti del capitale privato nei processi di organizzazione socio - produttiva sollevandolo dall’onere della riproduzione, “manutenzione”, controllo e gestione della forza lavoro con misure dirette (edilizia residenziale e servizi pubblici) o con istituzioni ed organizzazioni parallele. La localizzazione della città operaia è condizionata dai fattori di produzione: la presenza di materie prime o fonti di energia, il basso costo della manodopera, la preesistenza di infrastrutture, la possibilità di integrare attività produttive industriali e agrarie. Insieme vengono totalmente pianificati i rapporti sociali, mirando, afferma P. Caputo,
nel lungo periodo alla “manipolazione” della coscienza di classe del proletariato: non a livello di massa, […] quanto piuttosto nei riguardi di “aristocrazie operaie”; [che] […] gli stessi meccanismi di produzione hanno progressivamente privilegiato all’interno della classe operaia, […] ora selezionate per fruire di ulteriori privilegi nella sfera sociale e nell’uso della città. […] Case dotate di servizi, quartieri residenziali modello, scuole professionali sono i primi elementi su cui fa leva la politica di coinvolgimento delle “aristocrazie operaie” e di divisione del proletariato [9].
L’operaio è trasformato grazie al possesso della propria casa, che a suo volta lo possiede, lo moralizza e lo inchioda[10]. Egli è condotto“ad operare non in quanto facente parte della sua classe, dotato cioè di connotati collettivi; ma come individuo preda di referenti individualistici nel momento in cui diventa proprietario, novizio del mito della proprietà, e dell’emulazione con un modello extra e anticlassista[11]”, costituito dalla classe piccolo borghese degli impiegati. Di fatto, dunque, il filantropismo applicato alla realizzazione del villaggio operaio sceglie accuratamente i soggetti da privilegiare, e non generalizza l’operazione, curando insieme la redditività dell’investimento, e di fatto, “la costruzione di villaggi operai raggiunge una notevole perfezione sia nelle forme di finanziamento che nel sistema costruttivo.”[12] Il villaggio industriale rappresenta il concretarsi di un modo di produzione, di un messaggio ideologico, e può quindi essere letto sia come fatto strutturale[13], che sovrastrutturale[14]. Nel villaggio operaio e industriale ottocentesco, spesso progettato e costruito come un tutto unico e omogeneo, si rispecchia in modo estremamente fedele l’ideologia dominante: le forme e i rapporti di spazi non sono più abbandonati all’anarchia costruttiva della speculazione selvaggia, ma sono leggibili come una sorta di manifesto, di dichiarazione di principi. Per A. e M. Negri il villaggio operaio ha prodotto, è stato una componente reale ed attivo della struttura economica della prima società industriale - ed in esso materialmente si realizzano […] rapporti di produzione determinanti. Ma contemporaneamente esso è il prodotto di un’ideologia e le sue forme architettoniche o spaziali sono leggibili come asserzioni ideologiche, la loro analisi può cioè condurre all’identificazione precisa di certi rapporti di produzione e della loro ideologia[15]. E’ la nuova classe egemone, la borghesia, a determinare la logica del linguaggio destinato a diventare famigliare e condizionante per la classe operaia che lo subisce, si determina così contemporaneamente alla nuova strutturazione dei rapporti sociali degli uomini una nuova strutturazione della percezione collettiva della realtà. I monumenti industriali corrispondono alle forme nelle quali si esprime più direttamente e prima di qualsiasi razionalizzazione e revisione ideologica il nuovo modo di produzione[16].
Il nuovo stile, al quale si affidano architetti, ingegneri e committenti per esprimere l’ideologia che sottende alla realizzazione delle architetture funzionali produttive si ispira ed attinge alle fonti più disparate. Una prima distinzione, che è anche, ma non necessariamente, cronologica, è tra gli insediamenti operai in campagna e quelli in città. Spesso gli edifici, anche se sono destinati a nuove funzioni sono realizzati con un linguaggio che riproduce la tradizione locale quasi sempre legata all’architettura rurale[17]. All’epoca del primo sviluppo industriale, infatti, le fabbriche sono localizzate in aperta campagna, e nella realizzazione dei villaggi operai, prevale il tipo di villetta per una o poche famiglie; solo con l’invenzione della macchina a vapore, esse possono spostarsi in città, e qui “per il maggiore costo dei suoli e il minore spazio a disposizione, saranno i grandi caseggiati multipiano a formare i quartieri operai”[18]. I villaggi operai, organizzati come comunità di villaggio sembrano offrire una buona occasione per tentativi di riforma sociale, “la campagna, priva degli impacci e dei condizionamenti di una grande città sembra il luogo ideale per sperimentare nuovi rapporti tra padrone ed operaio”[19]. La tipologia delle villette è ideale per moralizzare ed isolare gli individui sociali utili all’imprenditore, ma potenzialmente pericolosi; la disposizione delle case è artificiale, ma viene mimetizzata dai frammenti di natura disposti fra esse, e dal “piccolo giardino - orto che oltre a dare un’illusione di continuità con il passato contadino della manodopera ora impegnata in fabbrica, poteva dare vita a una sorta di economia di sussistenza a integrazione dei salari provenienti dal lavoro industriale”[20]. Nella seconda metà dell’800 va configurandosi il “modello” tipico di casa operaia, che viene definito da A. Abriani:
“casa di campagna urbana”, possibilmente unifamiliare, ma anche doppia, in serie, per operai, con giardino-orto produttivo; situata alla periferia di un agglomerato urbano. Tendenzialmente orientata verso l’architettura rurale, il suo ruolo è quello di permettere di nutrire una famiglia, (dunque di mantenere salari bassi); di favorire una “vita sana e morale”; di creare il senso della proprietà; di stabilizzare la manodopera; di disseminare le concentrazioni operaie per evitare lo scoppio dei conflitti sociali” [21].
Una architettura del villaggio che, afferma P. Caputo, sarà destinata ben presto a essere assorbita o “contaminata” da quella aulica o a matrice internazionale in relazione alle sempre più complesse e oggettive necessità della produzione, allo spostamento della fabbrica “a valle”, in aree culturalmente meno chiuse, ma soprattutto per quel processo ideologico politico, messo in atto dalla borghesia imprenditoriale, di trasferimento del linguaggio urbano, dell’effetto città in territori che progressivamente è necessario acquisire (in funzione dello sviluppo produttivo), e quindi di scollamento della forza lavoro dal proprio contesto storico culturale[22].
Un fattore fondamentale che ha determinato la struttura delle città attuali è la divisione tra alloggio e luogo di lavoro. Nel villaggio operaio succede il contrario, l’insediamento “non sorge semplicemente per procurarsi e assicurarsi la manodopera; ma è voluto anche in un rispetto attento e cosciente dell’urbanesimo: e cioè creato autosufficiente per controllarne lo sviluppo e dosarne l’estensione, senza incidere sulla città […] [per] un problema di controllo dei ritmi di addensamento delle classi antagoniste”[23] . A tal proposito, ancora nel 1940, per contenere l’inurbamento operaio nella città di Milano, veniva proposta la costruzione di villaggi operai in località periferiche per i seguenti motivi:
a) facilità di accesso per via ordinaria e ferroviaria o d’acqua; b) esistenza (o facilità di istituzione) di servizi pubblici adeguati; c) salubrità; d) possibilità di creare, a fianco dell’industria, zone di sfruttamento agricolo per i componenti le famiglie degli operai[24].
Le direttive considerate nello studio erano: a) Limitatissimo numero di appartamenti per ogni casa; b) Possibilità di sviluppo dei centri, dotando ogni appartamento di un adeguato appezzamento agricolo, da cui l’operaio potrà ritrarre parte del necessario alla alimentazione famigliare; c) Facilità di accesso alla città, con la eventuale creazione di nuovi tronchi di linee di comunicazione[25];
così da ottenere delle borgate operaie tipo formate da 400 locali dei quali 240 in costruzione estensiva a 160 in costruzione semintensiva; un piccolo centro con sede del P.N.F., O.N.M.I., O.N.D., negozi ed edificio per bagni; zone verdi per bambini e campo sportivo. […] La borgata tipo si compone in vari lotti tipo formati a loro volta da appezzamenti tipo […] [dotati di] un lavatoio, un pollaio e un portichetto per gli attrezzi. […] Le case studiate sono essenzialmente di 3 tipi: […] Casa ad alloggio di 3 locali su due piani […] [che] può essere isolata, accoppiata o a schiera […]. Casa ad alloggi di 3 locali, posti in un sol piano, la casa minima è composta di 4 alloggi su due piani […] [che] può essere isolata o collegata in modo da formare corpi a schiera. […] Casa di tipo semintensivo a più piani ad alloggi sovrapposti di 2 locali ognuno. Ogni scala serve tre alloggi per piano[26].
La trattazione tipo - morfologica sui villaggi operai prende spunto da un articolo di M. Scolari, secondo il quale:
la trattazione […] dei problemi tipo- morfologici […] non vuole in nessun modo sottovalutare gli aspetti politici della questione, ma leggerli invece attraverso le scelte architettoniche in quanto forme di volontà politiche, In questa prospettiva si può chiarire la scelta della casetta unifamiliare che la “filantropia” dell’industria ottocentesca vendeva alla propria élite operaia, raggiungendo simultaneamente due obiettivi: legare, attraverso la proprietà, la forza lavoro al luogo di produzione, ed aumentarne lo sfruttamento tramite il miglioramento delle condizioni “ambientali, fisiche e psicologiche”. […] Le scelte formali (topografiche e tipologiche) diventano così le metafore attraverso cui la classe dominante controlla la dislocazione delle forze sociali”[27].
Oggi facilmente leggibile, il senso di questi programmi è stato a suo tempo accettato dagli abitanti dei villaggi operai, diventando famigliare e condizionante, in quanto “percepibile ‘distrattamente’ in spazi ogni giorno vissuti e sperimentati”[28]. L’esistenza e la sopravvivenza del villaggio operaio sono strettamente legate alla fabbrica a cui è legato. Innanzitutto il villaggio si situa vicino a corsi d’acqua atti a essere sfruttati come forza motrice; oppure si colloca o nelle vicinanze delle grandi città storiche o non lontano dalle grandi zone minerarie, più spesso in zone agricole lontano dalla città, creando dal nulla ogni struttura, per impedire che la manodopera, d’origine in gran parte contadina, si sradichi dalla propria terra e dalle proprie consuetudini, ed ottenere così due attività, quella industriale nuova e quella tradizionale agricola che fornisce occupazioni per il tempo libero arrotondando il bilancio famigliare. Si instaura in questo modo “un tipo di rapporto di sudditanza specifica tra uomo e industria che ha […] vistose manifestazioni nei suoi riflessi sulle strutture architettoniche e il sistema planimetrico e urbanistico del villaggio operaio, oltre che sulla componente sociale”[29]. “Morfologicamente i villaggi operai si configurano secondo un modello semplificato di città ideale: fabbrica e istituzioni assumono il ruolo di nodo e fulcro della organizzazione urbana”[30]. La fabbrica è imposta, in fase progettuale, come “unico Monumento, luogo celebrativo unificante e onnicomprensivo.”[31] Le abitazioni si dispongono, quasi nella generalità, attorno o tangenzialmente agli edifici destinati al lavoro.
Fig. II. 3. Planimetria generale di Crespi d' Adda aggiornata nel 1971.
Ed esempio l’organizzazione planimetrica di Crespi D’Adda, che ruota intorno all’incrocio di due assi ortogonali, uno dei quali impostato all’ingresso della fabbrica, è così descritta da A. Negri:
l’asse più lungo divide gli spazi del lavoro […] dagli spazi del riposo e del tempo libero […] e conduce dall’ingresso del villaggio fino al cimitero. L’asse più corto unisce la piazza alberata – luogo privilegiato d’incontro e di vita sociale – con l’entrata della fabbrica. La residenza dell’imprenditore-fondatore è significativamente eccentrica, sia nella forma che nella collocazione, rispetto alla distribuzione regolare lungo vie parallele e perpendicolari delle case operaie […].Visivamente propone una precisa gerarchia rispetto alle case operaie tutte uguali […] che si ripete nel cimitero, con il faraonico mausoleo della famiglia Crespi, […] sovrastante le schiere di tombe tutte uguali dei dipendenti[32].
Nella planimetria generale dei villaggi operai si riflette anche il problema di evitare l’assembramento nei quartieri operai, di conseguenza, oltre alla frammentazione del tessuto edilizio mediante un allargamento spaziale di tipo orizzontale (notiamo infatti che le cittadelle operaie sorgono spesso in luoghi isolati, con possibilità di sfruttare terreni in larga estensione, a basso costo e senza precisi punti cui far riferimento eccetto, ben s’intende, la fabbrica), lo stesso piano operativo di costruzione della pianta generale viene ricondotto a una precisa concezione di ordine e di equilibrio, tanto più ossessivo quanto più razionalizzato[33].
Il piano urbanistico del villaggio operaio è unitario, e generalmente si sviluppa da una figura geometrica; per M. Lorandi è quasi sempre rappresentato da una piazza centrale intorno al perimetro della quale si edificano le costruzioni e alla quale tendono tutte le vie principali che tagliano simmetricamente in sezioni uguali la pianta stessa. […] Tale geometrizzazione tende poi a manifestarsi come caratteristica costante anche negli altri spazi architettonici più peculiari del villaggio operaio, quali la mensa comune degli operai, gli asili e le scuole primarie, la chiesa, l’albergo, la villa padronale, il teatro o un ambiente di ricreazione comune, il giardino o parco, e naturalmente la fabbrica e le abitazioni degli operai, con la suddivisione degli orticelli privati a uso e consumo della casa unifamiliare e plurifamigliare[34].
La pianificazione dei quartieri operai secondo il volere dell’industriale paternalista si struttura sempre in uno schema rigido ed ortogonale, che L. Guiotto riassume in:
vie diritte, incroci ad angolo retto, case poste a distanze predeterminate e costanti, netta divisione tra zone dedicate alla vita pubblica e zone residenziali: la geometria presa a modulo espressivo di una più generale concezione sociale di ordine, di disciplina, di gerarchia. Il mito dell’ordine, l’obiettivo dell’igiene fisica mentale da raggiungere diventa, nella stesura di progetti a schema rigido, pratica quotidiana ed immutabile, fisicità su cui bloccare ogni tendenza all’affermazione di necessità alterative. La rappresentazione esteriore come rifinitura e strumento al tempo stesso della più importante organicità formalizzata della struttura sociale totale. La pianta ortogonale diventa simbolo di appiattimento, negazione, rinuncia ai valori culturali più vitali e stimolanti in nome di una semplicità e pulizia artificiose e oppressive. La struttura della città riflette così fedelmente l’ideologia di dominanza - sottomissione tipica dei rapporti sociali, nell’ambito dello scambio lavoro - salario, allargandolo a comprendere l’intera vita associata, in una pianificazione martellante di distruzione dei rapporti interindividuali più spontanei e creativi[35]. E’ interessante a proposito il caso di Nuova Schio, in cui la versione originale del progetto dell’architetto Negrin, incaricato dall’industriale A. Rossi, è diversa da quella realizzata. Sapendo che l’industriale interviene direttamente nella progettazione, le modifiche a favore di un piano prettamente ortogonale, sono considerate da F. Mancuso come un adattamento alle richieste del committente:
Schio è il caso nel quale emerge con evidenza massima la diversa incidenza delle scelte dell’operatore privato nei confronti della tipologia di crescita che la città assume […] ; dipendenza che è così determinante all’inizio, al punto da originare una forma tipica di città, strettamente corrispondente alle esigenze dell’imprenditore industriale[36].
Fig. II. 4. Planimetria del progetto realizzato di “Nuova Schio”dove, rispetto alla prima soluzione proposta dall’arch. Negrin compare la tipologia a schiera che, insieme alla maggiore regolarità dei tracciati viari, permette una utilizzazione più fitta dei lotti edificabili.
Lo schema ortogonale di costruzione dei diversi villaggi operai apparentemente ovvio e semplice, riflette invece una programmazione precisa, un’esplicità volontà di dominio, presente già nel passato[37]; ad esempio nelle città coloniali ellenistiche e romane la pianta a scacchiera rappresenta il modulo unico di sviluppo come rigida rappresentazione dell’ordine nell’imposizione di un potere sovrastante, esterno alla vita propria della città, o durante il Medioevo, nelle piante urbane della nuove colonie tedesche nei paesi slavi e nelle città inglesi in cui la comunità è totalmente asservita al potere temporale della chiesa, fino alla pianificazione modulare utilizzata nelle nuove città americane in tempi più recenti ed alla città di Chandigarth progettata da Le Corbusier che esprime, nella ripartizione a scacchiera rigorosa, l’assetto istituzionale della società indiana, con la impossibilità di avere contatti tra membri appartenenti a caste differenti.
La casetta unifamiliare accentua nello stesso tempo l’individualità piccolo-borghese e sottolinea ogni sfumatura di differenziazione sociale corrispondente ad un diverso grado di responsabilità nell’industria, “non solo con disparità nella superficie interna della casa, […] ma anche attraverso svariati dispositivi stilistici che vanno dal cottage eclettico, romantico, neomedioevale sino all’uso degli ordini dal dorico al corinzio. Per l’ultimo gradino della scala sociale è riservata la casetta […] ricalcata sulle tipologie più semplici fornite dalla manualistica” [38].
Fig. II. 5. Progetto di villini per il quartiere Regina Elena a sud del Milanino (1911).
Non si tratta di una standardizzazione generale tendente all’eliminazione di disparità e stratificazioni, che invece saranno sempre ricercate e strumentalizzate con “tipi di case diverse a seconda della loro destinazione: dalle più semplici e scarne, destinate agli operai, alle ‘villette per operai centrali e piccoli impiegati […] fino alle lussuose ville con giardini e fontane ‘per i dirigenti e i maggiori impiegati’ […] [e la] netta divisione tra i luoghi di svago degli operai e quelli destinati a impiegati e dirigenti”[39]. Insieme, nei villaggi operai, c’è in generale una “razionalizzazione degli interni, che tende ad una minimizzazione degli spazi abitativi, e la massima semplificazione degli esterni”[40], dettate dal bisogno di alloggi da allestire in tempi brevi e che siano insieme economici. Per S. D. Squarzina:
Lontana dal caos e dalla promiscuità urbana l’architettura diventa così strumento per definire in vitro e con nitezza l’ordine sociale, la perfetta rispondenza fra le mansioni all’interno della fabbrica e la gerarchia di classi e sottoclassi in una fissità che promette però possibilità di promozione ed elevazione; […] solo attraverso il miglioramento dell’individuo e delle sue potenzialità interiori e di lavoro si sarebbe giunti ad una società riformata[41].
Le norme di organizzazione spaziale del villaggio operaio elaborate dalla classe dominante sono successivamente analizzate e divulgate dai manualisti che si occupano del problema della casa operaia. Secondo l’ing. Alberini:
allorché il quartiere operaio deve servire un grande stabilimento industriale, converrà che l’area sul quale esso deve sorgere sia scelta in modo che i venti dominanti non vi rechino le esalazioni o il fumo che possono provenire dall’esercizio dell’industria. Analoga preoccupazione si dovrà avere per gli scoli dei residui liquidi provenienti da talune industrie che possibilmente dovranno eliminarsi in direzione opposta a quella nella quale si vuol collocare il quartiere operaio, e in ogni modo senza attraversarlo. […] La planimetria di un quartiere operaio deve essere da parte del progettista oggetto di serio e ponderato studio. E’ intuitivo che il centro di irradiazione del quartiere operaio dovrebbe essere costituito dagli edifici di uso pubblico, come il municipio, la chiesa, le scuole, gli asili, gli spacci di generi alimentari, i pubblici lavatoi, i depositi delle pompe da incendio. Di qui dovrebbero dipartirsi le strade principali, quando la configurazione del terreno lo consenta, in senso radiale. Tale forma appare preferibile allo scopo di indirizzare lo sviluppo del quartiere operaio secondo le principali arterie, così da rendere in ogni caso minima la distanza dal centro. La formazione di angoli molto acuti all’incontro delle vie […] non ha qui importanza data la opportunità, anzi la necessità, di alternare le aree fabbricate con abbondanti spazi a giardino. Un accorgimento facile ed intuitivo farà sì che i giardinetti smussino l’eccessiva ristrettezza di taluni angoli, quando non si creda di risolvere più radicalmente il problema colla formazione di piazze poligonali o simili. […] Infine converrà tener presente, ove si tratti di un quartiere operaio da crearsi ex novo, che sul principio è economicamente conveniente costruire le case a parecchi piani, e che in generale i villini vengono construtti quando la fabbricazione si è già estesa e l’industria è avviata al punto da concedere ad operai ben retribuiti l’uso di una abitazione più costosa com’è quella del tipo a villini [42].
II. 3. 1. 3. Strumenti che consentono il riconoscimento del villaggio operaio
Le caratteristiche generali che permettono di distinguere la tipologia del villaggio operaio possono essere riassunte in tre aspetti, che A. Abriani[43] chiama morfologici, tipologici e semantici. Essi costituiscono i diversi livelli attraverso i quali si attua l’introduzione forzata nella coscienza collettiva dello stato di cose di imposizione padronale.
Aspetti morfologici Da un punto di vista localizzativo, territoriale ed urbanistico innanzitutto il villaggio operaio si pone in posizione antitetica rispetto alle città attuali strutturate con la divisione tra alloggio e luogo di lavoro. “Esso non è fatto sorgere semplicemente per procurarsi e assicurarsi la manodopera; ma è voluto anche in un rispetto attento e cosciente all’urbanesimo: è cioè creato autosufficiente per controllarne lo sviluppo e dosarne l’estensione, senza incidere sulla città”[44]. La posizione geografica è un dato imprescindibile di riconoscimento: la delimitazione del territorio, sia in termini propriamente fisici, sia come condizione di isolamento che fornisce la motivazione più immediata per la creazione di infrastrutture urbane nei dintorni della fabbrica[45]. In questo modo si dissipano le concentrazioni operaie e si evita lo scoppio di conflitti sociali.
L’impianto microurbanistico è di norma organizzato secondo linee e assi strettamente gerarchici, che tracciano percorsi e comparti rigidamente assegnati: complesso di villini per impiegati, di case per capi operai, per operai, ecc..; prospettive convergenti sui simboli-funzione del villaggio: dalla casa allo stabilimento, alla scuola, alla chiesa ecc… con rimandi incrociati, in cui l’oggetto spaziale dominante è l’opificio[46].
Aspetti tipologici
Da un punto di vista tipologico, si rileva come l’aspetto fisico più appariscente in quell’insieme che chiamiamo villaggio operaio, è dato dal complesso delle case e degli edifici[47].
Esso offre tipologie diverse: le abitazioni per impiegati, i capi operai, il cappellano, il medico ecc. , talvolta anche fra quelle destinate genericamente agli operai, che corrispondono non solo a diverse dimensioni e funzioni dei nuclei famigliari, ma anche ad altrettante gradazioni di merito, e che, in ogni caso, stimolano l’emulazione e la concorrenza. Ogni alloggio, in generale, ha ingresso proprio, tale da isolare le famiglie tra loro, una latrina, una cantina, e un giardino - orto.
Fig. II. 6. Villa per impiegati a Crespi d’Adda, Ernesto Pirovano, 1923 – ’25.
Aspetto semantico L’aspetto semantico è il vero elemento connettivo di tutto il complesso del villaggio, dato, per A. Abriani,
dall’insieme delle iniziative nel campo dell’organizzazione della assistenza sociale, che esprime tipologie edilizie corrispondenti. […] Refettorio e mense, cassa di previdenza, per le malattie, per la pensione egli impiegati e agli operai, bagni e lavatoi, circoli sportivi, teatro (e cinema poi), cassa per le puerpere e cassa nuziale, ambulatorio, ufficio postale, club per gli impiegati, “dopolavoro” per gli operai, chiesa, convitto per le giovani operaie[48].
La lettura di un villaggio operaio, avviene così attraverso due livelli, quello pragmatico, strutturale e quello ideologico, sovrastrutturale. Sul primo piano troviamo, oltre alla localizzazione isolata e limitata spazialmente:
la struttura industriale, in stretto rapporto con la possibilità di sfruttamento di energia motrice e, soprattutto di forza lavoro, ciò che permette un sufficiente margine di opportunità di sviluppo […]. Le caratteristiche socio-evolutive del tipo di organizzazione del lavoro. Si riscontra una connessione diretta tra sviluppo dell’industria e mantenimento della struttura socio-economica del mondo rurale […]. Il carattere monopolistico dell’industria nell’ambito territoriale d’influenza [49].
Sul piano sovrastrutturale, ideologico si nota invece:
l’isolamento sociale della comunità, […].La caratteristica di monopolio culturale attuato nell’imposizione di schemi e valori estranei all’effettiva realtà di classe della massa operaia.L’imposizione della figura carismatica del padrone come unico depositario di questi nuovi valori imposti è come solo riferimento alle istanze di sviluppo dell’intero ambito sociale. La conseguente gerarchizzazione dei rapporti di potere all’interno del tessuto politico e sociale si struttura come una suddivisione di ruoli subalterni alla sola volontà e possibilità di sviluppo imposta dall’alto […] Attraverso l’imposizione di un ruolo del tutto subordinato, al limite di non poter gestire le proprie necessità, gli operai vengono educati all’accettazione di posizioni riduttive, al solo scopo di poter sopportare […] anche la rinuncia alla propria vitale autonomia, totalmente delegata al padrone. Nulla si può pretendere come diritto, ma tutto deve essere atteso come gratificazione[50].
[1] THEA P., Aspetti dello sviluppo industriale in val di Lanzo, in: AA.VV., Patrimonio edilizio esistente - Un passato e un futuro, Atti del convegno, a cura di A. Abriani, Torino, Designers Riuniti, 1980. [2] Ivi, p. 101. [3] Ibidem. [4] Ibidem. Un esempio di due diversi casi di pianificazione degli alloggi, il primo secondo quartieri inseriti nel tessuto urbano, che riempiono i vuoti ai margini della città e della fabbrica, e il secondo con l’intervento decentrato di villaggio operaio vicino agli stabilimenti industriali del territorio in alternativa alla città è descritto in: BORDINI S., Villaggi operai a Terni, “Ricerche di storia dell’arte”, n. 7, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1979. [5] BORSI F., Introduzione all’archeologia industriale, Roma, Officina, 1978, p. 43. [6] FAZZINI C., Sistemi produttivi di antica formazione, in: PIVA A., CAPUTO P., FAZZINI C., L’architettura del lavoro, Venezia, Marsilio, 1979, p. 102. [7] ABRIANI A., Il villaggio operaio, in: AA.VV., Villaggi operai in Italia, a cura di A. Abriani, Torino, Einaudi, 1981, p. 39. [8] CAPUTO P., L’architettura del consenso e della pace sociale, in: PIVA A., CAPUTO P., FAZZINI C., L’architettura del lavoro, Venezia, Marsilio, 1979, p. 125. [9] Ivi, pp. 142 - 145. [10] Si veda: ROZZI R. A., Psicologi ed operai, Milano, Feltrinelli, 1975. [11] ABRIANI A., Il villaggio operaio, in: AA.VV.,Villaggi operai in Italia, a cura di A. Abriani, Torino, Einaudi, 1981, p. 40. [12] ABRIANI A., I villaggi operai nell’Italia settentrionale come modello di insediamento, in: “Atti” del II seminario LAU, Gargnano, ottobre 1975, p. 5. [13] F. Borsi propone, nel caso di monumenti industriali, l’adozione del termine monumento-struttura ovvero “relazione motivata storicamente tra oggetti”; si veda: BORSI F., Prospettive dell’archeologia industriale in Italia, “Nuova antologia”, n. 1023, Firenze, marzo 1976, p. 412. [14] Negli ultimi decenni si è assistito ad un interessamento al recupero ed alla valorizzazione dei villaggi operai da parte dell’archeologia industriale che attua una “selezione degli oggetti non già in base a considerazioni puramente quantitative o di singolarità’, quanto con il continuo riferimento al ruolo svolto dai diversi oggetti nel modo di produzione“ [NEGRI A., NEGRI M., L’archeologia industriale, Messina - Firenze, G. D’Anna, 1978, p. 21], ed in questo modo intende “l’opificio e la macchina come ‘materialità’del capitale, […] punto di incontro dei fattori della produzione che si organizzano concretamente nel processo produttivo” [Ibidem]. L’archeologia industriale “considera i manufatti di tutte le epoche non solo come mezzi elementari di sostentamento e di produzione, ma anche come strumenti di comunicazione e di messaggi. E’ quindi necessario […] poter ricomporre attorno agli oggetti costruiti l’insieme di gesti e di idee che gli hanno prodotti […]. L’oggetto […] testimonia di come i manufatti non si situino al di fuori dell’universo segnico, ma siano invece ‘significanti di significati’” [SELVAFOLTA O., La ricerca archeologico - industriale, “Sapere”, Bari, aprile -maggio 1979, pp. 21 - 22]. [15] NEGRI A., NEGRI M., L’archeologia industriale, Messina - Firenze, G. D’anna, 1978, p. 103. Lo stesso brano, riportato come proprio, si legge in: CAPUTO P., L’architettura industriale come asserzione ideologica, in: PIVA A., CAPUTO P., FAZZINI C., L’architettura del lavoro, Venezia, Marsilio, 1979, pp. 199 - 200. [16] NEGRI A., NEGRI M., L’archeologia industriale, Messina - Firenze, G. D’Anna, 1978, pp. 109 - 110. [17] “[I villaggi operai costituiscono] tentativi di ricucitura della residenza con il lavoro, dedotti dalla precedente tipologia del villaggio rurale e, come questa, affetti da una parcellizzazione preselettiva della vita associata” [Dizionario enciclopedico di architettura ed urbanistica, diretto da Paolo Portoghesi, Roma, Istituto Editoriale Romano, 1969, voce “Villaggio”, p. 421]. [18] NEGRI A., NEGRI M., L’archeologia industriale, Messina - Firenze, G. D’Anna, 1978, p. 42. [19] Ivi, p. 43. [20] NEGRI A., Villaggi operai, in: AA.VV., Archeologia industriale, Milano, Touring Club Italiano, 1983, p. 96. [21] ABRIANI A., Il villaggio operaio, in: AA.VV., Villaggi operai in Italia, a cura di A. Abriani, Torino, Einaudi, 1981, p. 45. [22] CAPUTO P., L’architettura industriale come asserzione ideologica, in: PIVA A., CAPUTO P., FAZZINI C., L’architettura del lavoro, Venezia, Marsilio, 1979, pp. 207 - 208. [23] ABRIANI A., I villaggi operai nell’Italia settentrionale come modello di insediamento, in: “Atti” del II seminario LAU, Gargnano, ottobre 1975, pp. 10 - 11. [24] BOTTONI P., PUCCI M., Indagini sul problema dell’abitazione operaia nella provincia di Milano e proposte per la sua soluzione, “Casabella”, Milano, novembre 1940, p. 9. [25] Ivi, p. 11. [26] Ivi, pp. 11 - 13. [27] SCOLARI M., Tipi e trattati delle case operaie. Le origini, “Lotus International”, n. 9 , Milano, 1975 [28] NEGRI A., NEGRI M., L’archeologia industriale, Messina - Firenze, G. D’Anna, 1978, p. 106. [29] LORANDI M., Crespi e la tipologia del villaggio operaio, in: AA.VV., Villaggi operai in Italia, a cura di A. Abriani, Torino, Einaudi, 1981, p. 188. [30] FAZZINI C., Sistemi produttivi di antica formazione, in: PIVA A., CAPUTO P., FAZZINI C., L’architettura del lavoro, Venezia, Marsilio, 1979, p. 9. [31] GUIOTTO L., La fabbrica totale, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 77. [32] NEGRI A., Villaggi operai, in: AA.VV., Archeologia industriale, Milano,Touring Club Italiano, 1983, pp. 98 – 99. [33] Ivi, p. 74. [34] LORANDI M., Crespi e la tipologia del villaggio operaio, in: AA.VV., Villaggi operai in Italia, a cura di A. Abriani, Torino, Einaudi, 1981, p. 188. [35] GUIOTTO L., La fabbrica totale, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 74. [36] MANCUSO F., Schio, “Nuova Schio” e Alessandro Rossi, “Storia Urbana”, n. 2, Milano, Franco Angeli, 1977, p. 46. [37] Si veda: GUIOTTO L., La fabbrica totale, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 78. [38] SQUARZINA S. D., La fondazione dei villaggi operai industriali in Europa nel secolo XIX, in: AA.VV., Villaggi operai in Italia, a cura di A. Abriani, Torino, Einaudi, 1981, p. 84. [39] GUIOTTO L., La fabbrica totale, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 75. [40] NEGRI A., NEGRI M., L’archeologia industriale, Messina - Firenze, G. D’Anna, 1978, p. 40. [41] SQUARZINA S. D., op. cit., p. 84. [42] ALBERTINI, Case operaie, in: L’arte moderna del fabbricare, vol. 4, Milano, Vallardi, 1910, pp. 7 - 9. [43] ABRIANI A., Il villaggio operaio, in: AA.VV., Villaggi operai in Italia, a cura di A. Abriani, Torino, Einaudi, 1981, pp. 44 - 45. [44] Ivi, p. 44. [45] Un esempio estremo di pianificazione totale in una situazione di isolamento è dato dal villaggio operaio di Campione sul Garda, sorto insieme alla fabbrica fra il 1896 e il 1898, di proprietà del Cotonificio Olcese-Veneziano S. p. A. Le case del tipo a “casermone” a due piani vennero costruite su uno stretto lembo di terra che era raggiungibile fino al 1930 solo via lago o attraverso un ripido sentiero. Si veda: I monumenti storico - industriali della Lombardia - Censimento regionale, a cura di A. Garlandini e M. Negri, serie Quaderni di Documentazione Regionale, n.17, Regione Lombardia settore cultura e informazione, Milano, 1984. [46] ABRIANI A., Il villaggio operaio, in: AA.VV., Villaggi operai in Italia, a cura di A. Abriani, Torino, Einaudi, 1981, pp. 44 - 45. [47] Ivi, p. 44. [48] Ivi, p. 45. [49] GUIOTTO L., La fabbrica totale, Milano, Feltrinelli, 1979, pp. 63 - 64. [50] Ivi, pp. 65 - 67.
Il dibattito agli inizi dell’epoca delle cités operaie (intorno al 1848) si impernia su di una serie di antinomie, che formeranno il rovello di amministratori, legislatori, inquirenti e moralisti: falansterio (agglomerazione) o città operaia distribuita sul territorio (diluizione); quartiere integrato nel tessuto della vecchia città storica o nuovo insediamento al di fuori della cinta urbana; edifici unifamiliari o plurifamigliari; accessione in affitto o in proprietà[1].
L’agglomerazione, con la centralizzazione, consentiva economie alla piccola scala ma, per contro, permetteva una socializzazione eccessiva. La diluizione, viceversa, aveva maggiori oneri urbanistici ed edilizi, ma permetteva fisicamente di isolare gli individui sociali intrinsecamente utili ma potenzialmente pericolosi, e consentiva, sul lungo periodo, economie alla grande scala territoriale. Una questione dibattuta era se le case dovessero essere affittate o vendute agli operai. Al possesso della propria casa veniva attribuita dai diversi autori un’influenza moralizzatrice, per M. Amoruso:
Mancato quel senso di proprietà che deve governare sin dai primi giorni di vita di un individuo, in seguito non se ne ha che un disordine generale, e difficilmente coloro che non hanno cura della propria persona possono riuscire degli ottimi operai, giacché le cattive abitudini contratte sin da bambini non si possono eliminare varcando la soglia dell’officina. […] [Nei quartieri operai degradati] la salute delle madri perisce sotto il peso delle continue lotte; i fanciulli crescono con dei vizi originari; le ragazze si corrompono; i padri si allontanano e aumentano la miseria delle famiglie[2].
L’on. Mafi, che possedeva una casetta di due camere in via Conservatorio a Milano, diceva nel 1884, indicando un vicino[3]:
E’ un ottimo operaio, guadagnava passabilmente, ma quanti ne prendeva altrettanti ne spendeva. […] Il bicchierino lo tentava ed egli non sapeva resistere alla seduzione. In un momento di buona ispirazione comperò una azione della Società edificatrice [di Milano] pagandola cinque lire al mese: concorse per avere una casetta e la sorte lo favorì. Da quel giorno fu un altr’uomo. Il pensiero di avere una casa sua, tutta sua propria, dove sarebbero diventati grandi i suoi figli, dove egli sarebbe vissuto sicuro e chiuso gli occhi in pace; quel pezzettino di terra da coltivare, la vista della casa bella e pulita, lo trasformarono. Non sa staccarsi da casa sua. Le ore libere dal lavoro le consacra ad abbellire le camere, a renderle più comode, a curare i fiori, a sorvegliare la verdura: e intanto non ha più occasione di spendere, non ha più debiti, è puntualissimo nel pagare la pigione ed ha già messo alla Banca qualche risparmio. Ecco un uomo salvo per tutta la vita.
Il possesso della casa era considerato una garanzia di stabilità sociale, tanto da far affermare a G. B. Cipani:
Date all’operaio un’abitazione sana, pulita, circondata da verzura; fate possibilmente c’egli rivolga i suoi risparmi all’acquisto di essa per divenire proprietario, e che ci formi il suo nido; ed egli vi diventerà un conservatore dell’ordine sociale, egli sarà una fida sentinella di più che volontariamente si pone alla guardia dell’opificio che gli dà lavoro e pane[4].
Nonostante tutte le opinioni favorevoli all’acquisto, si scelse per lo più, soprattutto nei villaggi, la soluzione dell’affitto[5]. Il motivo è così spiegato dall’Amoruso:
Lo scopo della costruzione deve avere a fondamenti i principi di salubrità, di moralità e di economia, e in sott’ordine può tendere a far sì che gli operai addivengano un giorno proprietari delle case. Ma , diciamo subito, quando si è fuori dall’abitato, l’industriale non deve obbedire a quest’ultimo desiderio delle classi lavoratrici, perché i danni che ne derivano a lui nel momento in cui gli operai, addivenuti proprietari, abbandonano il lavoro, possono essere risentiti pesantemente sia pel fatto che le terre vicine acquistano un valore maggiore, quindi si accresce la difficoltà di costruire nuove case economicamente, sia per la considerazione che l’industria possa essere, dopo un certo lasso di tempo, minata nelle sue basi. I villaggi operai debbono mantenersi tali da non permettere che estranei alle famiglie adibite al lavoro possano un giorno sfruttarli, giacché se questo avviene, si toglie il carattere che deve formare fondamento della sua costruzione. […] La maggiore difficoltà che i proprietari di officine incontrano […] è quella di assicurare la successione della proprietà della casa ad individui che fanno parte dei lavoratori della proprie industria[6].
Per ovviare a questo problema il più delle volte si instaurava allora un sistema di affitto a riscatto, il quale si intendeva come parte percentuale del prezzo dell’intera abitazione, naturalmente comprensivo di interessi e tangenti, così che dopo alcuni anni (in media 15-20) l’operaio ne diventava proprietario. In linea generale comunque il padrone restava nel pieno diritto di scegliere quali lavoratori potessero godere il privilegio di abitare in queste case ed eventualmente di revocare ogni forma di contratto e cacciare gli inquilini in qualsiasi momento[7].
Un riassunto della questione è fatto ai primi del ‘900 da Casalini sulla rivista “Critica sociale”[8]:
a) Le case operaie furono costrutte dagli industriali per ragioni strettamente connesse con lo sviluppo delle loro industrie; b) Le industrie, che hanno costrutte case operaie si trovano in speciali condizioni o di monopolio o di quasi monopolio o comunque in situazione privilegiata; c) Le case operaie, costrutte dagli industriali, servirono per i lavoratori delle industrie più rimunerate; d) I tipi di costruzione furono diversi, dalle case caserme alle casine individuali, con evidente tendenza a quest’ultimo tipo; e) L’aver scelto il tipo a casina determinò un aumento di costo, di affitto o di vendita. Cioè il costo risulta in ragione diretta della comodità e dell’igiene; f) Nonostante la diversità nel prezzo del terreno della costruzione, della mano d’opera, il prezzo di costo di ogni alloggio oscillò a 1000 lire per ogni camera nelle casine, a 800 nelle case medie, a 600 nelle case caserme; g) Numerose industrie, da principio vendettero ed incoraggiarono la compera delle casine per parte dei dipendenti. Ma il sistema fu abbandonato da parecchi e la maggior parte ora fabbrica e mantiene di sua proprietà le case operaie; h) Il prezzo di vendita è quasi sempre accessibile solo agli operai più remunerati; i) Il prezzo di affitto è accessibile sovente anche alle borse più piccole; l) Quando il prezzo di vendita ed il prezzo di affitto sono bassi, gli industriali sono in perdita, talora notevole: la perdita è più considerevole per aver adottato il tipo a casine; m) Il reddito delle case operaie fu in genere basso, in qualche caso nullo, in pochi salì a 4 - 5%; n) Il prezzo di vendita è inaccessibile al nostro proletariato. Il prezzo di affitto estero sarebbe accessibile in pochi casi; o) Le case operaie degli industriali, per essere costrutte in terreni quasi disabitati o in campagna, hanno il terreno a basso prezzo; p) L’esazione delle annualità e degli affitti si trova facilitata dalla possibilità di fare ritenute sul salario; q) La costruzione di villaggi operai coincide con lo sviluppo dell’industria nei singoli paesi. Nonostante i capitali ingenti impiegati nella loro costruzione, non fu inceppata l’ascensione industriale ne dell’Inghilterra, né della Germania, né della Svizzera, né del Belgio.
La tipologia delle case operaie, sia costruite che proposte nei diversi manuali del periodo, si muove tra due poli: il “casermone” a più piani per più nuclei famigliari in stretta relazione abitativa e la villetta unifamiliare, spesso con un minimo orto; tra questi due estremi si collocano le numerose soluzioni intermedie. “I vantaggi e gli svantaggi economici, sociali, politici e tecnici delle due alternative che si contrapponevano - le villette e i casermoni - furono sviscerati a fondo […]. Poiché, in pratica, per gli operatori risultava determinante i costo dei suoli […] e la solvibilità degli abitanti”[9]. Entrambe le soluzioni vennero adottate a seconda delle circostanze locali. I due modelli residenziali ebbero infatti sempre due versioni, una ricca e una povera, applicate nei nuovi quartieri, in località ben distinte.” Nelle aree migliori si costruirono o isolati di dignitosi palazzotti o bei quartieri di ville eclettiche per magnati e professionisti, con ampi lotti versi e viali alberati”[10]. In quelle peggiori o pioniere, come il caso dei villaggi operai costruiti ex novo, “case a ringhiera o semplici aggregati di casette isolate o a schiera con piccoli orti”[11]. I numerosi manuali del periodo, quando trattano la localizzazione delle case operaie, si interessano innanzitutto, a garanzia della economicità dell’operazione, della salubrità delle aree. I requisiti, per l’ing. Albertini sono:
Un terreno che disponga di acqua in pressione, e discarichi tout-a-l’-egout, avrà sempre preferenza sugli altri, ancorchè il prezzo ne risulti di alquanto maggiore Saranno poi da preferirsi le aree che non provengano dalla demolizione di fabbricati preesistenti, […] e […] i terreni […] permeabili, che […] eviteranno che l’umidità […] salga dalle fondazioni ai locali abitati. […] Ogni causa […] per la quale l’area riesca inquinata, o anche soltanto ristagni o comunque perda le sue qualità di purezza e di freschezza possono controindicare un’area in confronto di un’altra che vanti questi requisiti.[…] Aree che abbiano comodità di comunicazioni colle località ove si trovano gli stabilimenti industriali, che godano della vicinanza di scuole, di magazzini di vendita, che in generale siano favorite da equo sviluppo, da servizi pubblici, riusciranno preferibili a parità di condizioni igieniche alle altre. […] Non deve preoccupare la lontananza dal luogo di lavoro: in generale l’operaio, quando abbi mezzo di recarsi rapidamente sul luogo di lavoro o con tramvay o con altro mezzo, preferisce che la sua vita privata si svolga fuori della zona d’influenza - diremo così - dei suoi capi d’officina[12].
Fig. II. 7. Generale classificazione delle abitazioni operaie data da A. ABRIANI, I villaggi operai dell’Italia settentrionale come modello di insediamento in: “Atti” del II seminario LAU, Gargnano, ottobre 1975.
E’ un edificio di tipo intensivo, a molti piani, serviti da varie scale, in cui ciascuna disimpegna parecchi alloggi per ogni piano. Il “casermone” è economico poiché permette un risparmio sulle spese di costruzione, grazie all’unificazione dei servizi, alla ripartizione del costo del tetto e delle fondazioni sui tanti piani ecc . Con il “casermone” viene offerta, nel modo più economico, una generica opera assistenziale, per contro, questo tipo di edificio è poco conveniente all’igiene e alla morale e non offre all’operaio la tranquillità necessaria per una buona produzione, perché, come afferma S. B. Crespi al Congresso internazionale degli infortuni sul lavoro e delle assicurazioni sociali in Milano (1894):
Ultimata la giornata di lavoro, l’operaio deve rientrare con piacere sotto il suo tetto: curi dunque l’imprenditore che egli vi si trovi comodo, tranquillo e in pace; adoperi ogni mezzo per far germogliare nel cuore di lui l’affezione, l’amore alla casa. Chi ama la propria casa, ama anche la famiglia e la patria, e non sarà mai vittima del vizio e della neghittosità[13].
Il tipo storico degli edifici a “casermone” è descritto da C. Alberini:
Una scala al centro di un corpo di fabbrica doppio dà accesso ad ogni piano ad una ringhiera: su questa si aprono le porte di ogni gruppo di due camere. […] A ciascuna estremità delle ringhiere si trova una latrina e un vaso di acquaio. Peggior tipo non potrebbe offrirsi agli strali degli igienisti […]. Accorgimenti opportuni oculatamente adottati potranno attenuare gli inconvenienti che sono insiti nella stessa natura di questo tipo. Limitare il numero dei piani a non più di tre oltre il terreno, aumentare le scale in modo da dar accesso ai gruppi di locali senza dover ricorrere a ballatoi, disporre le ritirate in modo conveniente così che ciascun gruppo abbia la propria, e tutt’al più ve ne sia una ogni due gruppi[14].
Dunque si tratta di mantenere il più possibile indipendenti gli alloggi riducendo al minimo ogni comunanza di passaggi e servizi, perciò si avranno molte scale o, se non se ne può fare a meno, ballatoi sufficientemente larghi, di almeno 1,8 m difesi da sole e pioggia. Inoltre converrà tener presente, ove si tratti di un quartiere operaio da crearsi ex novo, che sul principio è economicamente conveniente costrurre le case a parecchi piani, e che in generale i villini vengono costrutti quando la fabbricazione si è già estesa e l’industria è avviata al punto da concedere ad operai ben retribuiti l’uso di una abitazione più costosa com’è quella dei tipo a villini[15].
La costruzione di edifici a “casermone” è indicata nel cuore dei grandi centri industriali, dove, per l’alto costo del suolo, meglio risponde ai requisiti di massima rendita con minimo costo[16].“A differenza che nelle aree rurali di recente industrializzazione dove l’abitazione operaia assumeva la funzione di attrazione e stabilizzazione della forza lavoro, essa era al suo semplice apparire in città un semplice mezzo di investimento economico, riducendo ai soli aspetti essenziali il tema della residenza”[17].
Fig. II. 8. Il vecchio tipo di casa operaia a “caserma”descritto da Alberini.
Una classificazione più precisa è data da G. Samonà considerando il modo in cui sono distribuiti le scale e i disimpegni che stabiliscono, con la loro posizione e col loro numero, lo schema che l’organismo d’abitazione deve avere: In maniera generale, a seconda che gli organismi della casa popolare hanno o non scale e disimpegni comuni, essi sono di tipo collettivo o di tipo individuale. In maniera più dettagliata, la posizione della scala e dei disimpegni definisce il tipo di fabbricato ad abitazione collettiva. Si ha infatti: 1) il fabbricato di tipo denso con disimpegno centrale, quando più appartamenti per piano sono situati da bande opposte ad un disimpegno centrale comune, rilegato generalmente ad una o due scale; 2) il fabbricato di tipo denso con disimpegno di scale, quando più appartamenti per piano ognuno dei quali affaccia da una sola parte del fabbricato, sono disimpegnati dal tavoliere di una sola scala; 3) il fabbricato di tipo semidenso, quando due appartamenti per piano, che occupano tutta la profondità del fabbricato, sono disimpegnati da una scala; 4) il fabbricato di tipo rado, quando più appartamenti per piano sono disimpegnati da un ballatoio esterno collegato a scale di estremità o ad una o più scale centrali[18]. In città il tipo più usato era quello “a ballatoio”, che, afferma O. Selvafolta:
riprendeva direttamente, sviluppandosi in altezza, le caratteristiche della cascina foranea per il bracciantato agricolo. la planimetria, basata sul disimpegno collettivo all’aperto con servizi igienici in numero di uno o due per piano, si trasferiva così immutata nella città ottocentesca, riproponendo schemi di vita comunitaria fondati su vincoli di più o meno stretta parentela e sull’identità sostanziale casa-lavoro, che non erano più attuabili nella nuova organizzazione sociale.[…] Ma perché l’applicazione della più stretta economia non venisse interpretata come un puro strumento di rendita, si cercavano nel ballatoio requisiti di rigenerazione fisica e morale[19],
ed ecco spiegato l’utilizzo di corridoi esterni, più salubri di quelli interni che rendono più difficile la circolazione di persone e il ricambio dell’aria.
Tra i quartieri operai costruiti, quello di via Solari a Milano dalla (Società Umanitaria, 1906) progettato dall’architetto Giovanni Broglio costituì uno degli esempi più conosciuti:
Undici edifici […] a padiglione isolato attorno ad una corte articolata in tre parti, dedicando particolare attenzione all’orientamento degli edifici ed evitando i cortili chiusi e i passaggi comuni […] Duecentoquaranta appartamenti […] disimpegnati direttamente da scale interne, muniti di latrina privata, condotto per le immondizie, di acquaio, acqua potabile, balcone e in gran parte anche di terrazze e terrazzini. […] Il quartiere di via Solari si imponeva soprattutto per la straordinaria presenza di attrezzature di servizio[20].
Gli stessi accorgimenti vennero tenuti nella costruzione di un nuovo quartiere operaio che la Società Umanitaria costruì nel 1909 in Località alle Rottole (oggi viale Lombardia). Si realizzò un “quartiere modello che venne ampiamente illustrato dalla pubblicistica dell’epoca, dimostrando come anche nel settore dell’edilizia economica ci si potesse cimentare nella ricerca progettuale proponendo soluzioni che esulassero dal settore specifico per diventare, secondo l’opinione di Alessandro Schiavi ‘micropoli operaie ideali, embrione della città futura per tutti i cittadini’”[21]. Sempre a Milano dal 1919 vennero realizzati il Villaggio della Società Cooperativa Edificatrice “La Postelegrafonica”, su progetto dell’arch. Giovanni Broglio (divenuto frattanto direttore dell’Ufficio Tecnico dell’Istituto per le Case Popolari di Milano) con 238 alloggi, organizzati in un vero e proprio quartiere dotato di fabbricati a parte per negozi e locali di ritrovo comune; e altri quattro villaggi, per un complesso di 560 alloggi con una varietà di ben dodici tipi diversi di casette a uno o due piani[22]. Il risultato dell’operazione fu buono: ”ripresa edilizia, soprattutto procurando lavoro a tutte le svariate categorie di operai addetti al settore […]; drenaggio sociale; creazione di obbligazioni da parte della classe proletaria impegnata nell’operazione casa; suo controllo ed isolamento”[23]
Fig. II. 9. Planimetria del villaggio della società coop. edificatrice "La postelegrafonica", Milano.
Per quanto riguarda Torino, la crisi delle abitazioni, seguente allo sviluppo industriale avutosi negli anni 1901-1907, divenne urgente nel primo dopoguerra. La situazione torinese è descritta da A. Abriani:
Studiate le cause della crisi e ricercati i rimedi, questi furono attuati dal Comune insieme con la Cassa di Risparmio e con l’Istituto delle Opere Pie di San Paolo, promuovendo la costituzione dell’Istituto per le Case Popolari, eretto in Ente autonomo sullo scorcio del 1907 […]. L’Istituto di Torino, al suo primo sorgere, si è rivolto al grande fabbricato a più piano, (quattro o cinque), del tipo a casamenti isolati. I primi quartieri comprendevano da tre a otto caseggiati, generalmente a cinque piani fuori terra, separati da cortili. […] Ogni edificio aveva alloggi da una a tre camere, ed era servito da più scale, disposte in modo che ciascun alloggio avesse accesso diretto dal pianerottolo e fosse assolutamente escluso ogni passaggio comune. […] I quartieri di questo primo periodo ebbero però mosso l’appunto, soprattutto di dar luogo ad un eccessivo agglomerato di persone […]. Così, dopo dettagliate considerazioni ed analisi, l’Istituto, nella ideazione dei nuovi quartieri […] del primo dopoguerra, […] fece in modo che la semplice valutazione economica non si ritorcesse contro quello che era il suo scopo precipuo: di ‘”sterilizzare” una quota di popolazione operaia. I primi due quartieri costruiti a partire dal 1919 sono infatti progettati a piccoli corpi di casa a tre piani fuori terra “fra ampi spazi liberi […]”. Le scale sono state aumentate di numero, essendosi ridotti a due gli alloggi per piano, sempre allo scopo di diminuire i riscontrati cattivi effetti dell’agglomeramento. […] L’affollamento medio risulta […] ridotto rispetto all’indice del primo gruppo d’anteguerra[24].
Una lettura ideologica complessiva della distribuzione territoriale di tutti questi quartieri popolari ed economici, mostra “una precisa tendenza allo scaglionamento di essi in zone periferiche, distanziate e frazionate, evitando così ulteriormente un collegamento ed agglomeramento proletario troppo massiccio, e quindi non controllabile”[25].
Fig.II. 10. Case a Lorazzo (BI - industriali: f.lli Poma).
La villetta unifamiliare e la casa plurifamigliare
La casetta tendenzialmente unifamiliare, ma anche doppia o in serie, con giardino – orto produttivo, è la forma abitativa preferita dall’azione filantropica dei grandi industriali, per diversi motivi. Innanzitutto le grosse industrie promotrici erano prevalentemente situate in campagna o all’estrema periferia della città, dove il costo dell’area non incideva molto sulla costruzione, poi vi era l’interesse a “fissare”, e nello stesso tempo disseminare lontano dalla pericolosa concentrazione cittadina, una popolazione operaia sana e ben alloggiata, quindi più produttiva; infine la casetta unifamigliare o plurifamigliare costituiva anche una risposta al problema igienico-sanitario posto dal dilagare delle epidemie nel corso dell’ottocento, e la presenza di un orto, permetteva di nutrire una famiglia, integrando i bassi salari. In Italia questa tipologia trovava, sostiene M. Scolari,
i maggiori sostenitori nell’ala socialista che oltre ai motivi etico-sanitari vedeva nella bassa densità dei sobborghi-giardino un modo per arginare il costo dei suoli e quindi degli affitti. Contro lo sfruttamento massimo del suolo, reiterato planimetricamente dalla casa alta d’affitto, i teorici socialisti opponevano l’immagine della città - giardino. […] Considerando poi che il costo del suolo veniva determinato dalla scelta del modo di costruire, la casetta unifamigliare agiva in un certo senso da calmieratrice sui costi dei suoli urbani, arginando la formazione del plusvalore delle aree[26].
Il modello, che si configura in Europa nella seconda metà dell’ottocento, è quello definito come casa di campagna urbana, che recupera alcuni aspetti della architettura e del mondo rurale. Nel suo manuale sulle abitazioni operaie E. Magrini scrive che il tipo di casa isolata (cottage) non venne quasi mai adottato dalle società costruttrici:
perché costando troppo queste abitazioni debbono affittarsi ad un prezzo elevato e quindi la rendita del capitale impiegato non può essere molto elevata. Invece troviamo applicato questo tipo di case da molti industriali nelle case che costruiscono per i loro operai: ciò è possibile perché il terreno all’industriale costa poco avendolo comperato prima ancora che la costruzione di case ne avesse aumentato il prezzo e poi anche perché l’industriale, avendo interesse che i suoi operai abitino case comode e sane, non cerca, nelle case operaie, di fare una speculazione [27].
La soluzione unifamigliare è poco economica sia nella costruzione che per la maggior area occorrente, perciò, nella maggior parte dei casi, i costruttori si orienteranno verso la soluzione intermedia delle case plurifamigliari, che costano di più dei casermoni, ma offrono benefici che compensano dell’investimento. Case per due o quattro famiglie, che mantengono l’ingresso indipendente, sono ampiamente illustrate nei manuali[28].
Fig. II. 11. Progetto di casette operaie per 4 famiglie elaborato dalla Cooperativa Popolare Vita, Milano.
Lo stesso Silvio Benigno Crespi, il fondatore di Crespi d’Adda, descrive nei suoi scritti il suo modello di casa operaia, che deve contenere una sola famiglia ed essere circondata da un piccolo orto, separata da ogni comunione con altri. Ricordiamo le città operaie inglesi, composte da lunghe file di abitazioni fronteggiate da un piccolo giardino, e avente a tergo un piccolo orto. Il giardino è cintato e serve d’ingresso; la porta dà poi di solito in uno stretto corridoio, che di fianco accede ad un salotto, di fronte alla cucina, Fra il salotto e al cucina è situata la scala a una sola mandata, che mette alle due camere da letto al primo piano; la latrina è sul di dietro della casa e isolata; le case sono unite fra loro ai lati opposti[29].
Di seguito descrive le case da lui costruite, che costituiscono una mediazione tra il modello ideale e le condizioni reali:
Le palazzine sono di due specie; quali a una sola e quali a due entrate. Quelle a due entrate servono per due famiglie, di cui ognuna gode quattro camere, formanti per se stesse una piccola casa completa. Vi si accede mediante un corridoio che mette alla scala e alla cucina: e la scala è disposta ora longitudinalmente alla casa, ora perpendicolarmente […] dietro la casa si ha un piccolo porticato con un lavatoio e di seguito la latrina, che è così completamente staccata dall’abitato. Le camere ricevono aria e luce da due parti[30].
Da notare che le entrate di ogni alloggio hanno sempre, in tutti i casi, un ingresso separato, così “l’isolamento dei nuclei famigliari non permette una aggregazione superiore a quella progettata. […] La tipologia della casa fa appello al senso di proprietà e di appartenenza alla comunità: lo stesso operaio diventa difensore delle istituzioni, biasimando ogni comportamento deviante”[31].
Fig. II. 12. Piante di case operaie bifamigliari a Crespi d’Adda riportate da E. Magrini nel manuale Le abitazioni popolari. Case operaie, 1905.
Dal punto di vista igienico, la soluzione della villetta era considerata la migliore. Ancora nel 1939 l’ing. C. Albertini sosteneva, in un articolo sulle abitazioni operaie nelle grandi città:
l’importantissimo corrispettivo che la costruzione rada ha nelle migliori condizioni igieniche della vita dei lavoratori e conseguentemente sia nel loro migliore rendimento, sia nelle minori spese da parte dei pubblici enti di assistenza, per minori giornate di malattia, minori necessità di cure marine e montane per bimbi ed in genere minori spese di carattere assistenziale, sia per effettive economie da parte delle amministrazioni comunali che possono assai ridurre le spese per giardini, campi di gioco, scuole all’aperto, campi solari e simili. […]. I quartieri operai non dovranno trovarsi troppo discosti dagli stabilimenti industriali. […] Mentre d’altra parte i servizi civili, gli uffici, i magazzini di vendita, i luoghi di svago e simili […] dovranno essere […] distribuiti in vari centri secondari, talché per tutte le necessità ordinarie non occorra trasferirsi nel nucleo centrale della città nel quale dovrebbe la popolazione operaia recarsi solo per ragioni di carattere eccezionale […]. Occorre anche che le grandi città si provvedano di mezzi di trasporto rapidi, economici, potenti, in modo che l’abitare alla periferia non rappresenti aggravio di spesa, perdita di tempo, consumo di energia per l’operaio. Solo per questa via sarà possibile evitare che gli operai si agglomerino in case a parecchi piani ed ad alloggi multipli ed ottenere che invece preferiscano le casette individuali, dove più vigorosa fiorisce la stirpe e dove più intensamente si affermano le virtù famigliari e l’amore per la propria abitazione[32].
Fin dal 1900 la campagna igienista si occuperà anche degli interni delle case operaie, che dovranno riunire le migliori condizioni possibili d’uso, di manutenzione, di comodità, di solidità, di economia e di bellezza. G. Heller riporta le raccomandazioni fatte a proposito:
Le camere e gli oggetti devono essere facili da pulire, le superfici devono essere lisce e le tinte chiare. Si raccomanda di tinteggiare ad olio le pareti piuttosto che tappezzarle, di coprire i pavimenti con linoleum, di verniciare i mobili in legno affinché siano chiari e lavabili, di mettere semplici tende di cotone bianco alle finestre[33].
La stessa attenzione deve essere data ai pochi soprammobili concessi:
La decorazione e gli oggetti non funzionali non sono inutili, ma devono essere seriamente selezionati. […] Per evitare di lasciare nude le pareti, alcuni autori propongono decorazioni geometriche allo stampino, possono esservi inserite delle massime d’incoraggiamento: “Sii retto”, “Sii probo”, “Sii onesto”. Nell’opera pubblicata dalla fabbrica di cioccolata di Suchard […] rivolta alle famiglie degli operai, si trova riassunta la decorazione così com’è concessa alla gente umile: […] immagini […] non troppo numerose [con] […] soggetti religiosi […]. Un’immagine del Redentore, od una scena della sua vita, la fotografia dei genitori e dei suoceri, […] una statuetta o un vaso di fiori, […] [ma soprattutto] un abbigliamento in casa [della madre di famiglia] […] sempre integro, senza strappi, senza macchie[34].
Con l’argomentazione della pulizia domestica si trova il bisogno di dare un ordine alla vita privata quotidiana della popolazione, promuovere la pulizia significa combattere le malattie, ma anche garantire una certa disciplina: sorveglianza e ubbidienza sono indissociabili dalla pulizia. La pulizia è moralmente ed economicamente utile, permette una minima qualità di vita, la coesistenza delle classi sociali, risveglia la dignità delle classi umili, rafforza la manodopera e diminuisce gli oneri per la pubblica assistenza. Nei manuali si ritrovano regole igieniche e costruttive ben precise. Per C. Alberini il locale più importante in una casa operaia è la cucina:
essa è non solo il luogo dove si preparano i cibi, ma il locale di permanenza continua ed abituale degli inquilini. Pertanto deve essere illuminata ed aerata abbondantemente[35],
e indica egli stesso una serie di regole per la sua disposizione e per la collocazione al suo interno degli apparecchi necessari: camino, condutture acquaio ecc. I locali destinati a stanza da letto, invece:
dovranno aver una superficie di almeno 15 mq e una cubatura di almeno 16 mc per individuo. L’altezza non sarà inferiore a m 3. Saranno da evitare nel finimento le tappezzerie e i rivestimenti di legname, […] [sono consigliate] le tinte a calce poco costose e facilmente rinnovabili. […] Il complesso della costruzione deve inspirarsi a criteri di benintesa economia. Nessuna spesa che, sia pure lontanamente, possa aver carattere di superflua. E così decorazione sobria della facciata, senza eccessi di ornamentazione, senza inutile dispendio di parti accessorie; lo spreco in simil genere di costruzioni costituirebbe un vero delitto[36].
All’interno del villaggio operaio costruito esistono diversi tipi di case operaie. La diversa fisionomia e la dislocazione degli edifici rivelano una precisa gerarchia sociale, a rispecchiare le diverse scale di merito, o la gerarchia di fabbrica. Nel villaggio Leumann, dove originariamente sono i capi famiglia, provenienti da esperienze artigianali a trasmettere ai figli l’arte della tessitura, si pone il problema della resistenza che questi tessitori possono opporre al reclutamento di maestranze esterne non specializzate. “L‘ostacolo viene affrontato con la creazione di un sistema abitativo privilegiato, con l’assegnazione di gratifiche e posti di responsabilità”[37].
Il mito dell’orto-giardino perfezionava nella casetta unifamigliare, proprio là dove il capitale coltivava i sogni di libertà dell’operaio nel possesso della propria abitazione, la tecnica dello sfruttamento[38].
L’orto che gli industriali costruttori di villaggi operai si premurano di attribuire ad ogni casa è uno dei modi per ovviare al pericolo dell’osteria e alla comunicazione spontanea che vi avviene, non mediata e guidata nell’ambito delle attività ricreative promosse direttamente dalla ditta. “Applicandosi all’orto l’operaio resta in casa, si evitano pericolose forme di vita associata che, se condotte al di fuori dell’iniziativa della ditta, possono anche sfociare in intese di carattere rivendicativo; un basso livello salariale trova la sua integrazione a mezzo dei frutti della terra; […] [inoltre l’orto può concorrere alla] qualificazione competitiva”[39]. Quest’ultimo aspetto è ben visibile nel caso di Crespi d’Adda, dove il padrone passa costantemente in rassegna gli orti. Per lo stesso Crespi, “l’orto costituisce l’antidoto al logorio di fabbrica e un modo per curare le malattie professionali”[40]. L’orto annesso alla casa è anche un richiamo alle tradizioni contadine di moltissimi operai. L’operaio, sentendosi ancora un po’ contadino, dimentica nel proprio orticello i ritmi imposti dall’organizzazione del lavoro. Altri aspetti utili saranno evidenziati ancora nei decenni successivi. Nel 1939 l’ing. C. Albertini sostiene che gli orti costituiscono un utile e vantaggioso complemento dell’alloggio, in quanto consentono quella vita all’aria aperta che è valido presidio igienico per la sanità della stirpe e permettono di ridurre al minimo le dimensioni della casa, le funzioni della quale si riducono sempre più a quelle di ricovero durante la notte e durante le giornate di maltempo[41].
Negli stessi anni, in un’indagine sul problema della abitazione a Milano, si legge:
Nella zona industriale la proprietà agricola è per lo più assai frazionata e generalmente nei centri minori si possono riscontrare nella stessa famiglia individui addetti all’industria, artigiani ed anche lavoratori della terra. Questo tipo di economia famigliare mista dovrà essere favorito al massimo, ubicando le zone di sviluppo industriale in località che permettano ai componenti le famiglie degli operai di dedicare all’agricoltura almeno parte della giornata (orto-frutteto)[42];
di conseguenza, propongono il tipo di appezzamento progettato da S. Molli, il quale aveva affrontato “scientificamente” il problema[43].
II. 3. 2. 2. – I servizi sociali
La chiesa, l’asilo, la scuola, il convitto, lo spaccio ecc. offrono i servizi sociali che garantiscono alla comunità del villaggio una sostanziale autosufficienza. Da un punto di vista semantico, sono queste le iniziative che A. Abriani[44] indica come vero elemento connettivo di tutto il complesso del villaggio operaio. Essi associano alla funzione preventiva quella ordinatrice. Anche le opere prettamente assistenziali, quali gli orfanotrofi, la protezione dei fanciulli e della giovane, gli istituti per infermi, gli ospedali, istituzionalmente legati all’industriale paternalista, sono pianificati “filantropicamente per il soccorso dei meno abbienti all’interno della complessiva politica di difesa dell’ordinamento sociale”[45]. Le infrastrutture sono realizzate dai padroni paternalisti per favorire l’adattamento del lavoratore ed integrare, come afferma L. Guiotto,
la perdita di ricchezza individuale nel lavoro ripetitivo e monotono con una serie di oggetti di affezione esterni alla fabbrica, anche se ad essa strettamente legati […]. Se l’operaio perde tutto sé stesso con l’entrata in fabbrica, per mantenere un equilibrio statico e funzionale basterà spostare fuori di essa il suo momento di autoriconoscimento e prospettargli una serie di alternative su cui egli possa fondare la propria idea di sé[46].
Diventa importante l’organizzazione del tempo libero operaio, perché la produzione e la riproduzione della forza-lavoro non è solo un fatto materiale, economico e naturale, ma riguarda anche, e sempre più, nella misura in cui il capitalismo si sviluppa, il campo cosiddetto “sovrastrutturale”. La formazione della forza-lavoro (scuola, qualificazione, ecc) e la sua riproduzione ‘spirituale’ e politica (il dominio della classe borghese nel campo dell’ideologia), sono tutti fenomeni che avvengono prevalentemente […] proprio fuori della sfera del tempo del lavoro […]. Nel tempo libero si rende la forza-lavoro disponibile per il processo produttivo dal punto di vista materiale e spaziale, ma anche da quello politico, ideologico e culturale[47].
Il settore dei servizi era già stato previsto dai primi utopisti; si sviluppa nei villaggi operai, ma non si esaurisce con loro: “non solo passa attraverso la Carta di Atene; ma farà testo per l’urbanistica residenziale del regime fascista; e addirittura giunge a più recenti ipotesi urbanistiche, quelle dei ‘quartieri’, [con] […] spazi specializzati per la vita comunitaria (centri sociali, chiese, case del popolo...)”[48].
A Leumann nel 1902 veniva inaugurato l'edificio adibito a bagni pubblici, con locali separati per uomini e donne, ognuno dei quali con 6 box doccia ed un locale con vasca da bagno, con erogazione d'acqua calda e fredda. Sia i lavoratori che le proprie famiglie, potevano usufruire di tale servizio tutti i giorni nel periodo estivo ed il sabato e la domenica nel periodo invernale[49].
Fig. II. 13. I bagni pubblici del villaggio Leumann in una stampa d’epoca. Anche per questo servizio pubblico, dettato a prima vista dalla sola motivazione filantropica di assicurare l'igiene degli operai, si devono considerare altre ragioni meno evidenti. Dalla fine del XIX secolo la concezione dei bagni pubblici era stata sensibilmente modificata dall’introduzione della doccia. Nato come impianto di idroterapia, la doccia permetteva una pulizia più economica e rapida di quella offerta dalla vasca da bagno usata fino a quel momento. Ad essa venne associato un fine moralizzatore, per G. Heller:
Prima di pensare ad installare degli impianti individuali per la pulizia personale degli operai, ci si preoccupa di mettere a disposizione impianti collettivi. Si tratta infatti di introdurre nuove abitudini, nell’intento […] di lottare contro le malattie, […] ma anche […] di risvegliare la dignità del popolo. […] Il sistema della doccia propriamente detta è comunque adottato dagli anni 1890 in tutti i bagni pubblici costruiti in quell’epoca […]. E’ al popolo, ai bambini, ai soldati, che la doccia, economica e rapida è destinata, mentre il bagno rimane l’appannaggio delle classi privilegiate. […] Il carattere disciplinare della doccia, a quell’epoca, non lascia adito a dubbi. Non si tratta di rilassarsi; se la pulizia è lo scolo dell’operazione, la disciplina, la rapidità, l’educazione, il denudamento, sono i suoi mezzi[50].
Fig. II. 14. Sezione e pianta del pianterreno dei bagni-lavatoi del quartiere operaio a Mulhouse, 1855.
Tra gli apparati di infrastrutture e servizi sociali computati come un investimento a lunga scadenza, la scuola riveste un ruolo particolare. E’ un mezzo economico per procurarsi una manodopera preparata, fidata, di sicuro rendimento, e l’asilo e la scuola elementare per i primi anni di vita dei bambini favoriscono il meno costoso lavoro femminile. Per A. Abriani:
E’ nel complesso delle istituzioni scolastiche, in genere strettamente controllato dai proprietari-fondatori del villaggio operaio, che si applicano e si disvelano tutte le azioni di prima e seconda intenzione messe in moto dal meccanismo filantropico-riformatoristico che […] presiede al funzionamento del villaggio: dall’asilo infantile, alle scuole elementari, alle scuole serali, alla biblioteca, alla scuola della buona massaia, alla eventuale colonia marina o montana per i figli dei dipendenti, il ciclo dell’educazione è interamente fornito, imposto e controllato[51]
in modo da comprendere l'intera vita del ragazzo, e in questo senso l'apprendimento e la formazione sono permanenti. La scuola serve innanzitutto per "integrare culturalmente parte del proletariato e, di conseguenza, per dividere ideologicamente il fronte della classe operaia. Dall’alfabetizzazione all’insegnamento tecnico, la trasmissione e la assimilazione culturale avviene non solo attraverso i canali disciplinari, le nozioni tecniche, la pratica dei livelli elementari di acculturazione […], ma grazie ad una generale impostazione didattica finalizzata all’educazione del lavoro, a ‘predisporre’ l’allievo al lavoro”[53]. Per U. Bernardi attraverso l'intera carriera scolastica il ragazzo veniva temprato e reso pronto per l'arruolamento nell'esercito industriale:
Ordine, disciplina, rispetto per la gerarchia e stimolo al raggiungimento di più elevate qualificazioni erano le munizioni nel suo zaino e molti avevano vigilato che egli ve le ficcasse […]. Disciplina. che vuol dire assimilazione del concetto gerarchico; ordine: che vuol dire produttività accellerata e rifiuto di ogni atteggiamento capace di sminuirla; devozione: che vuol dire timore reverenziale ed attaccamento affettivo; delega di responsabilità: acquiescenza all'esercizio di patria potestà che si manifesta in ogni attimo della giornata nello stabilimento, nella famiglia, dentro la Chiesa e fra i banchi di scuola[54].
Fig. II. 15. L’edificio delle scuole a Crespi d’Adda.
L'educazione dei residenti nei villaggi operai viene eseguita a cominciare dalla più tenera infanzia. A Schio sono istituiti: l'Asilo di maternità, sorto nel 1878 a spese particolari di Alessandro Rossi, che accoglie 50 bambini d'operai dell'età dai 15 giorni agli anni 3 […], l'Asilo infantile, […] pel quale fu eretto nel 1872 su un'area di 1200 metri quadrati, un edificio per accogliere 500 bambini dai 3 ai 7 anni. […] La Colonia alpina Maria, fondata nel 1896 da Giovanni Rossi, [che] completa gli intendimenti coi quali è creato l'Asilo, accogliendo in un sito delizioso a 770 metri sul livello del mare, per cura climatica, 30 bambini l'anno[55].
A Crespi d'Adda c'erano l'asilo e le cinque classi elementari, e le maestre venivano scelte dai Crespi: Di qui uscivano i ragazzi destinati a divenire operai, capi, assistenti ed impiegati. Il controllo sulla loro condotta scolastica era pari a quello esercitato sui padri all'interno dei reparti, e la loro disciplina doveva essere pari a quella degli adulti nelle strade del villaggio. […] Piani piano veniva instillato loro il senso della propria fortunata condizione, del ricevere un'educazione migliore nella scuola del villaggio rispetto ai paesi circostanti. […] La scuola doveva fornire operai disciplinati e fedeli, su tale criterio formativo andavano plasmati orari e programmi scolastici. Perciò, niente divagazioni, niente attività creative, ma esecuzione di compiti, stimolazione competitiva, premi e castighi, orario di studio pari quasi all'orario di lavoro. D'altronde, se un alunno è recalcitrante alla disciplina, viene spedito agli umili lavori dello stabilimento anche a dieci anni di età[56].
Per finire, anche nel villaggio Leumann le cure e i controlli più attenti si ebbero per l'educazione, con l'istituzione di Asilo e scuola elementare (1903), corsi serali e "scuola per la buona massaia" (1910). Qui "le scuole […] erano fra le più avanzate del tempo quanto a metodi didattici ed ad attrezzature. L'esperienza […] [aveva] insegnato che l'istruzione è il primo elemento per avere un buon operaio, ed è dunque dovere […] l'incoraggiarla e favorirla per quanto possibile"[57]. Il personaggio che più divulgò, attraverso i suoi scritti l'importanza da darsi all'istruzione, fu l'industriale Alessandro Rossi, il fondatore di Nuova Schio. Per L. Guiotto la concezione di base di tutta la struttura sociale nel pensiero di Rossi:
risiede nell'idea che i rapporti sociali esistenti non devono mutare, ma consolidarsi nel riconoscimento delle nuove forme produttive. Importante soprattutto che l'ordine gerarchico e classista non venga attaccato da pretese di uguaglianza. […] Da una simile ideologia derivano l'accettazione e il rispetto per la tradizione e nel contempo un maggior inserimento tecnico e ideologico nel nuovo sistema che si viene formando. In ciò si giustifica il ruolo primario che viene ad assumere la scuola […]. La funzione della scuola è quella di trasmettere le basi morali tradizionali mentre fornisce una preparazione tecnica e professionale. […] [A Schio] l'amministrazione e la direzione dell'asilo spettano al fondatore che ha pure facoltà di determinare il numero di ragazzi da accogliere a di adottare i libri di testo usati per l'insegnamento; il Rossi infatti ricopre anche la carica di Direttore Distrettuale della Primaria Istruzione […]. Il programma scolastico era ispirato "alla condizione futura degli allievi e alle cognizioni a loro propriamente necessarie e adatte; quindi disponendo le ragazze ai lavori di famiglia anche con macchine a cucire e banche a stirare, e i ragazzi ai lavori di fabbrica"[58].
A Vicenza A. Rossi istituì una scuola industriale assumendosi tutti gli oneri dell'impianto, per lui "lo sviluppo delle 'scuole industriali' […] poteva avvenire solo sotto l'egida dell'iniziativa privata, perchè il contenuto della formazione professionale dei giovani - come la determinazione della domanda di tecnici - dovevano essere subordinati ai bisogni della produzione"[59]. Egli era contrario anche alle università, considerate "'vestibolo di rivoluzionari' nella stessa misura in cui sono 'vestibolo di funzionari'. Lo sviluppo dell'istruzione tecnica, dunque, è indispensabile ai fini di stabilizzazzione sociale […] almeno quanto lo è a fini d'incremento qualitativo e quantitativo della produzione nazionale[60]. Con l'industrializzazione la specializzazione tecnica è dunque diventata fondamentale come "disciplina mirante all'accettazione di una realtà sociale mutata, di una precisazione di ruoli che non si limita ai confini della fabbrica, ma diventa generale all'intera società"[61]. Attraverso l'educazione tecnica l'allievo, oltre ad aspirare ad un "buon posto" in fabbrica, è spinto, nello stesso tempo, come afferma P. Caputo:
alla meritocrazia e alla emulazione (nell’esperienza scolastica quotidiana ma soprattutto con la selezione) con la “premiazione di fine anno” che ha il suo corrispettivo negli attestati di profitto o di fedeltà rilasciati dalle aziende ai dipendenti più meritevoli. E’ allenato alla dipendenza, a sentirsi parte di un tutto […]. E’ educato al rispetto dell’autorità: personaggi quali il capo - classe, l’insegnante, il direttore, il benefattore nella vita lavorativa si tramutano nel capo - squadra, nel capo - officina, nell’imprenditore, nell’uomo politico[62],
senza dimenticare che innanzitutto la specializzazione tecnica consentirà di abbreviare il periodo di apprendistato in fabbrica. I corsi per operai e l’istruzione professionale in genere da parte delle associazioni industriali continuarono ad essere propagandati nei primi decenni del '900; in questo modo si promettevano, per G. Musso, agli imprenditori maestranze disciplinate, orgogliose delle tecniche produttive cui erano addette, e ai lavoratori [...] possibilità di miglioramenti, di carriera nella condizione lavorativa. […] Il riconoscimento dell’importanza del ruolo produttivo e dunque sociale, del lavoratore esperto e preparato […] avviene per lo più per sottolineatura del distacco dell’operaio qualificato e specializzato dalla manovalanza. […] Non bisogna con ciò pensare che la differenziazione salariale tra operai appartenenti alla medesima categoria fosse spinta oltre un certo limite: gli effetti, peraltro ricercati, di divisione degli operai e di creazione tra di essi di spirito di emulazione competitiva, avrebbero potuto avere conseguenze controproducenti se diseguaglianze retributive troppo marcate avessero creato senso di ingiustizia[63].
La tendenza fu assorbita e continuò negli anni del fascismo. Nel 1936 furono istituiti dei corsi biennali serali di specializzazione organizzati dalla Federazione dei Fasci che ripresero le strategie padronali del miglioramento individuale: spirito di emulazione, esaltazione del merito individuale, competitività per riconoscimenti che aprano più facilmente uno sbocco nell’avanzamento professionale, "una stretta collaborazione tra scuole e sindacato doveva favorire la benefica influenza, sull'educazione delle masse, del lavoro e della cultura professionale, presentati come la base dei processi di selezione e differenziazione dei diversi ceti sociali”[64].
L’educazione della donna.
La posizione della donna nell'organizzazione famigliare è in contrasto con quella assegnatale dalla fabbrica, ed è in primo luogo per alleggerirne il ruolo di casalinga in favore a quello di operaia che gli industriali fondano gli asili per l'infanzia. All'assenza della donna dal focolare domestico viene imputata la mancanza di igiene ed imputata la mancanza di igiene e di ordine nelle case operaie, che contribuisce alla disorganizzazione del nucleo famigliare, per cui l’uomo frequenta le osterie e cerca soddisfacimenti all’esterno delle mura domestiche. Di conseguenza "la donna deve imparare ad arieggiare regolarmente il suo alloggio, a far entrare il sole, a far regnare la pulizia più rigorosa. […] I principi teorici e i metodi pratici dell'economia domestica sono stati divulgati inizialmente per mezzo di manuali, [successivamente] […] ci si è invece preoccupati di creare un insegnamento specializzato"[65]. In Italia una circolare del Ministero di Agricoltura Industria e Commercio del 5 gennaio 1910, indirizzata ad imprenditori tessili e proprietari di aziende, invita alla creazione di scuole ed istituzioni per l’insegnamento delle arti domestiche alle proprie operaie. lo stesso anno a Leumann viene aperta, per le giovani operaie,la “Scuola della Buona Massaia”, con lezioni teorico - pratiche che si tengono unicamente nei giorni festivi, "finalizzata all'economia domestica e alla preparazione al compito di madre per la trasmissione dei modelli culturali inculcati [66];e per rafforzare ulteriormente l’organizzazione dei lavori domestici proposta, sono istituiti speciali premi in denaro per la pulizia e l’ordine delle abitazioni.
L’industriale paternalista trova un valido appoggio nella strumentaliz-zazione della religione. Per L. Guiotto:
Il sentimento religioso diventa anzi il monito primario che sottolinea ogni azione sociale dei nuovi padroni. Da una parte esso si risolve nella propaganda dell’azione caritatevole di soccorso ai poveri e ai derelitti […]. Di contro proprio ai sottoposti vengono sbandierati i precetti cristiani dell’ubbidienza e della rassegnazione, nel fondamentale rispetto a genitori (il Padre) e superiori (il Padrone)[67].
Spesso allora, la chiesa viene eretta prima di ogni altra costruzione di carattere sociale. Così accade a Crespi d’Adda, dove Silvio Benigno Crespi insieme alla sua famiglia “forniva agli abitanti del villaggio l’esempio della fede […], [e] chiariva in maniera precisa e dettagliata quali erano i compiti che i cappellani di fabbrica via via assunti per il villaggio erano chiamati ad assolvere: […] onorario, […] messe, […] l’insegnamento religioso nell’Asilo o nella Scuola, […] l’assistenza degli ammalati”[68]. Gli stessi cappellani erano poi tenuti a sorvegliare e riferire al padrone sull’andamento morale del villaggio e dello stabilimento.
Figg. II. 16./II. 17. La Chiesa di Crespi d’Adda(a sinistra) e quella di Nuova Schio.
Un caso atipico è costituito dal villaggio Leumann a Collegno. Qui, essendo Napoleone Leumann di dottrina protestante, la chiesa non venne inizialmente progettata all’interno del villaggio. Fu costruita dal Leumann “in seguito alle numerose istanze rivoltagli dagli abitanti della borgata […]. La chiesetta veniva fornita di impianto di riscaldamento, di organo e di tutti gli arredi occorrenti”[69]. Varie altre istituzioni all’interno del villaggio operaio sono inoltre date in gestione ad ordini religiosi: asili, convitti, colonie, ecc. Nel caso della filatura di Aranco, in provincia di Biella, vi è un esempio estremo di convitto operaio gestito da suore, “un grosso ed articolato complesso costruito di fronte alla fabbrica, cui in origine era collegato da percorsi coperti […]. Dove è interessante da un lato il circuito chiuso istituito tra il luogo di lavoro e l’abitazione […] e d’altro canto l’identificazione, non rara soprattutto in Italia, dell’alloggio operaio con il convitto religioso”[70]. A tal proposito, C. Poni considera i nessi tra il controllo attuato attraverso i regolamenti aziendali, e tutta una famiglia di segni, a cui appartengono sia l’ospedale dei poveri come il reclusorio dei vagabondi, il collegio come la caserma, la prigione e il convento[71],
e cita l’abate architetto Tubini che verso la fine del XVIII secolo paragonava l’ordine che doveva regnare nelle filande e filatoi a quello della “clausura di un monastero di monache”[72],
e suggeriva di costruire l’edificio ad un sol piano perché fosse maggiore la facilità del direttore di poter scoprire in una sola occhiata tutto l’edificio e di osservare il proprio suo interesse[73] per amplificare il potere di controllo, e renderlo più efficace, economico e produttivo. L’ordine di fabbrica quindi, si ritrova ad essere per certi versi simile a quello degli istituti religiosi e, come modello, lo stesso C. Poni porta i 17 articoli del primo esempio di regolamento aziendale a lui noto, (1726) relativo al “Cesareo fillatoglio” di Farra (Gorizia):
I primi due articoli […] sembrano piuttosto quelli di un ordine religioso. Gli operai dovevano avere il “santo timor di Dio”, le feste di precetto andare ad ascoltare la santa messa, frequentare la santissima confessione e comunione, “et ogni giorno di lavoro, mattina e sera […] si dirà la terza parte del rosario […] per il buon proseguimento dell’Arte”.[…] Ma già l’articolo terzo […] contiene ingiunzioni più secolari e legate al processo produttivo. Gli operai, che vivevano nel recinto stesso del filatoio, dovevano prestare “ogni fedeltà, diligenza nel lavoro et obbedienza al signor conduttore” […]. Dovevano inoltre lavorare “hore 14 al giorno” […] con solo un’ora di sospensione a mezzogiorno. per gli assenti e i ritardatari al segnale dell’inizio del lavoro si prevedevano multe […]. Chi non avesse lavorato “con tutta la maggior diligenza e attenzione” sarebbe stato licenziato. Chi avesse “ardito scallare sulla muraglia del recinto […] del […] fillatoglio […]” sarebbe stato punito “per la prima volta con un mese di priggione a pane ed acqua, e la seconda volta […] doppiamente con altre pene arbitrarie della giustizia”. Chi avesse commesso “qualche furto” […] sarebbe stato punito con “mesi 3 di priggione, a pane et acua, e poi cacciato per infamia”’. Ogni aspetto della vita era strettamente controllato. […] Potendo la maestranza “esser provvista di tutto il suo bisognevole nel recinto del […] fillatoglio a pari prezzo e perfetione come di fuori”, nessuno poteva uscire “dal medesimo che li giorni festivi, salvo il caso di qualche occorrenza e bisogno”. Di notte, “all’hora giusta e conveniente” tutti dovevano ritirarsi nelle loro abitazioni, essendo proibito “di vagare per il recinto stesso”[74].
Alcune di queste regole si ritrovano ancora in diversi regolamenti ottocenteschi di fabbrica, ma si abbandona la costruzione delle abitazioni degli operai dentro il recinto della azienda, salvo il caso degli operai forestieri. Cessa il potere del ‘principale’ di imprigionare gli operai infedeli e ladri. Sopravvivono qua e là le preghiere. Si consolida ed articola il sistema delle multe e della disciplina gerarchizzata[75].
La gestione della vita dei residenti dalla nascita alla morte spinge gli industriali alla costruzione, o all’ampliamento, insieme ad asili infantili ed orfanotrofi, di cimiteri che rispecchiano, anche dopo la morte, la stratificazione sociale esistente nel villaggio. Il cimitero è allora, quando è presente, insieme al castello e alla chiesa, “ il terzo simbolo del prestigio e della perennità dei valori esaltati nel villaggio”[76].
Fig. II. 18. Il cimitero di Crespi d’Adda.
Un esempio classico è il cimitero di Crespi d’Adda “con il mausoleo della famiglia che strutturato grosso modo in forma di piramide a gradoni, sembra espandere la propria base verso le sepolture a terra”[77], estremamente semplici e tutte uguali dei dipendenti, posto non a caso a concludere la strada principale che attraversa il villaggio.
Intervenendo in iniziative laiche e religiose inspirate a principi caritativi, gli industriali diventano i maggiori finanziatori di istituti per la vecchiaia, di case per la protezione della “fanciullezza derelitta”, di iniziative contro l’accattonaggio e l’alcoolismo, ecc. Attraverso la beneficenza si cercano di sanare le contraddizioni accentuate dall’industrializzazione, ma nello stesso tempo, le istituzioni assistenziali e previdenziali, la gestione diretta della mutualità e l'organizzazione dei luoghi di incontro permettono all'operaio di non disperdere energie che devono essere concentrate nella produzione. Anche ”l’assistenza agli anziani, agli orfani, i patronati scolastici tendono all’aumento del consenso sociale”[78]. Le attività di beneficenza sono in molti casi svolte dalla moglie dell’industriale. Prendendo ad esempio il villaggio Leumann, la moglie del padrone è “patronessa della società asili per lattanti, consigliere dell’ospedale Regina Margherita, della Croce Rossa, del Padronato della Casa Benefica e […] ispettrice dell’ospedale Maria Vittoria“[79], oltre ad istituire direttamente la “scuola della buona massaia” nel 1910. Il marito, a sua volta, istituisce le varie casse pensione nel proprio villaggio, (Casse pensione per operai – 1910, per impiegati – 1903, e Cassa ammalati per le quali la ditta versava parte dello stipendio) ed è membro di molte associazioni caritatevoli al di fuori del villaggio. Questa sua influenza che copre anche i paesi vicini, si concretizza ulteriormente nel finanziamento di un acquedotto e nella costruzione di una colonia profilattica per tubercolotici.
Per quanto riguarda la previdenza, per prima cosa, nei diversi villaggi, si assiste alla fondazione o riorganizzazione, dove già erano presenti, di società di mutuo soccorso[80], che, insieme allo spirito filantropico “di facciata”, erano finanziate, secondo L. Guiotto:
per creare degli organismi che, provvedendo in maniera diretta ed autonoma alle esigenze straordinarie degli operai, levassero del tutto ai padroni la responsabilità di assistenza e aiuto in caso di incidenti, malattie ecc. Stimolando gli operai al sostegno reciproco si otteneva il duplice risultato di definire la posizione padronale, escludendola dal compimento dei gravosi doveri assistenziali e si staccava nettamente l’operaio dal rapporto economico con la fabbrica proprio nel momento del suo maggiore bisogno […]. Queste prime forme organizzative avevano solo il nome di società “operaie” essendo di fatto proposte, dirette e controllate dagli stessi industriali o da loro fidati portavoce. Esse sostituivano quindi, anzi impedivano, la formazione di più dirette e autonome organizzazioni operaie [81].
Le mutue poi non costituivano un costo aggiuntivo per il padrone, essendo “pagate dagli operai colle trattenute sul salario […] e anche con le multe quando queste non andavano ad integrare lo stipendio degli ‘assistenti’ o dei capi in fabbrica”[82]. Un’altra maniera usata per far sì che l’operaio si chiudesse sui propri bisogni e risorse, fu l’incitamento al risparmio. Introdotto e lodato come sintomo e mezzo di emancipazione e responsabilizzazione operaia, il risparmio fu in realtà anche un sistema che giocava a favore degli industriali.
Dal momento che l’operaio, entrando nella mentalità di “pensare al domani” si costruiva da solo un’ipoteca sul proprio futuro, era assai meno facile che pensasse in termini di precarietà e variabilità nei riguardi del proprio lavoro di fabbrica. […] Da ultimo […] le basse paghe non lasciavano certo grandi margini di spreco, ma se anche questi venivano convogliati nel “libretto”, s’instaurava di colpo una morigeratezza di consumi e di costumi tale da tranquillizzare il sonno degli amanti dell’ordine[83].
Gli scampoli di tempo libero non disponibili per l’orto. la casa e la famiglia, dovevano forzatamente ricevere altre destinazioni. Alla ditta non poteva sfuggire l’importanza di tali possibili spazi di libertà, capaci di sollecitare l’immaginazione e di favorire una pericolosa comunicazione sociale[84].
La socializzazione nei villaggi operai non avviene a caso, ma si sviluppa nei luoghi stabiliti ed eretti allo scopo dall’industriale, mentre vengono banditi come nemici del progresso sociale i punti di incontro non istituzionale. Innanzitutto l'osteria, tanto che a Leumann l’industriale arriva a richiedere alle autorità dei paesi confinanti la chiusura di alcune locande nelle vicinanze del villaggio mentre a Schio, lo stesso Rossi "si occupava di girare le osterie a 'recuperare' personalmente gli operai ritardatari e riportarli in fabbrica"[85]. Per rendere più completa l'appropriazione del tempo libero, vengono organizzate gite sociali, operette, esibizioni della banda, attività sportive, ecc. A Schio, per esempio, si organizzano "corsi di musica, una scuola di canto corale e un Corpo filarmonico di banda e di orchestra (sorti nel 1860), nonché il teatro Jacquard, eretto nel 1869 […] oltre a una scuola di ginnastica e scherma"[86].La stessa situazione si ritrova a Leumann, dove in un edificio trovano posto la sede dello "Sport club Leumann" e un cine-teatro, e in un altro vi è il circolo impiegati con biliardo e biblioteca. Situazioni analoghe si incontrano in tutte le altre esperienze italiane successive di villaggi operai. Per L. Guiotto:
E' utile sottolineare l'importanza che l'organizzazione del tempo libero ebbe sempre nella gestione paternalistica della vita operaia. […]Queste attività ricreative, nobilitate da una patina culturale, presentavano il grosso vantaggio di rendere in maniera immediata e tangibile l'evidenza dell'interessamento padronale, non solo e direttamente finalizzato alla produttività. Il padrone, di conseguenza, aveva sempre la possibilità di pretendere qualcosa in cambio della sua bontà[87].
Questa offerta paternalistica protratta nel tempo ha come conseguenza la mancata formazione di autonome capacità associative nella popolazione, nel momento in cui verrà a mancare l'azione dell'industriale. U. Bernardi rileva una simile situazione a Crespi d'Adda, dove, anche negli anni più recenti, vi è una relativa rarefazione delle relazioni sociali:
L'associazionismo spontaneo non attecchisce dove per lungo tempo si è sparso il concime della competitività. […] [Si assiste ad] uno sconfortante indice di socialità che ha la sua radice storica nella disabitudine all’agire spontaneo, nella repressione del contatto non istituzionalizzato dal marchio della ditta[88].
II. 3. 2. 3. - La fabbrica e il tempo
La caratteristica principale della architettura industriale è la presenza di una ragione unica produttiva alla quale tendono tutti gli sforzi e tutte le opere connesse. In base a ciò la fabbrica è vista come il baricentro di un sistema al quale, per stretta connessione funzionale, appartengono case, strade, luoghi per tempo libero e strutture terziarie, aspetti paesistici ecc. “Solo così si individua una struttura che è evidentemente collocata in un’area territoriale, e quindi ha influenze e relazioni indotte coll’area medesima, di cui costituisce un fattore di trasformazione fisica”[89]. Tutto questo viene, per certi versi, amplificato nell’universo chiuso del villaggio operaio dove, afferma L. Guiotto:
la fabbrica, in quanto matrice unica della genesi e dello sviluppo della città, diventa l’operatore ambientale, polo di riferimento di una realtà determinata e statica, all’interno di un microcosmo privatistico, astratto dal tessuto urbano generale in quanto privo, per definizione, di possibilità dinamiche di sviluppo organico, coordinato[90].
Gli industriali tessili per primi, nei secoli XVII e XVIII per la grande dimensione delle proprie aziende, tendevano a consolidare la loro egemonia sopra un determinato territorio, così da non dover temere concorrenza nell’attingere alla riserva di braccia delle campagne da concentrare nelle fabbriche. “Questo consentiva agli imprenditori di praticare con successo una politica di contenimento dei costi di lavoro. La capacità di pressione politica nella zona dove si trovavano localizzate le loro industrie, faceva il resto. Se poi avevano anche il monopolio delle fonti di energia, nulla e nessuno poteva turbare il loro splendido isolamento”[91]. Le prime grandi filature avevano posto anche problemi gestionali in precedenza sconosciuti, testimoniati dal moltiplicarsi di regole, di sistemi di punizione e di disciplina gerarchizzata, che accomunavano il lavoro alla morale, considerando la fabbrica come luogo in cui produzione e controllo del comportamento erano intimamente connessi. “In termini architettonico-spaziali i regolamenti si potevano tradurre […] in un’architettura del recinto che isolava il lavoro rispetto all’esterno mediante alti muri perimetrali entro cui comprendere, in disposizione strategica, oltre agli spazi del lavoro, le abitazioni del direttore e degli operai”[92]. Il luogo di lavoro, oltre ad essere funzionale alla produzione, mirava anche a trasmettere i contenuti della nuova organizzazione sociale, una tendenza questa che verrà ripresa nel secolo successivo, nelle fabbriche dei villaggi operai, e che è fin dall’inizio più riconoscibile nelle imprese istituzionali. Per O. Selvafolta porta ad esempio:
le settecentesche manifatture reali in Francia, unità produttive in cui il potere centrale figurava come solo e primo imprenditore e che, come tali, dovevano integrare ai requisiti funzionali, dettati dalle necessità di fabbricazione, requisiti simbolici atti a trasferire visivamente i segni dell’autorità derivante dal monopolio economico. […] Le Manifatture si rifacevano generalmente alle forme del castello reale […] o della residenza aristocratica di cui riprendevano, semplificandoli, gli schemi distributivi con impianti simmetrici formati da un corpo centrale e ali laterali disposti attorno ad una corte[93].
Allo stesso modo le prime architetture industriali settecentesche ricorrevano “da un lato ad una consuetudine edilizia con caratteristiche vernacolari, e dall’altro ad una tradizione colta che, anche nel settore delle costruzioni utilitarie, poteva ricorrere ad un linguaggio aulico desunto dai modelli classici”[94]. La sistemazione gerarchica dell’insieme (assialità, simmetria, rapporti di masse, progressione, ecc.) si rispecchiava anche nel trattamento ornamentale dei corpi edilizi, e, attraverso l’ordinamento spaziale si materializzava la configurazione dei rapporti sociali all’interno del luogo di produzione, direttamente riferita al desiderio di controllo sulle maestranze. “Il luogo di lavoro, inteso sia come momento di produzione sia come occasione di controllo sociale, era quindi direttamente riconducibile ai modelli degli spazi coercitivi”[95]. Alla fine del XVIII secolo, apparve una nuova tipologia di edificio-fabbrica. La fabbrica tessile per prima ebbe una nuova fisionomia di conseguenza ai mutamenti tecnologici. “La fabbrica di tipo nuovo presentava essenzialmente una pianta rettangolare lunga e stretta [per disporre i macchinari e per adeguata illuminazione][…] e si sviluppava in altezza […] per poter impiegare un solo albero motore”[96]. Dall’inizio del XIX secolo, inoltre con l’impiego del vapore essa venne liberata dalla localizzazione forzata presso le fonti naturali di energia. Le difficoltà gestionali ed i pericoli sovversivi del luogo di lavoro, stimolarono ulteriori sistemi di controllo che dalla fabbrica si estendevano ai momenti della vita associata e del tempo libero. La rinnovata volontà di supervisione si espresse pienamente nei villaggi industriali ottocenteschi, dove gli schemi ordinatori della gerarchia sociale furono enfatizzati ad arte. O. Selvafolta nota come:
L’atteggiamento padronale dell’imprenditore e la sua volontà paternalistica si manifestavano quindi anche nella cura prestata all’edificio industriale che, quale motivo primo per il generarsi dell’insediamento ed unica garanzia di esistenza per l’operaio, diventava il luogo in cui polarizzare gli attributi simbolico - formali del potere[97].
L’immagine dell’edificio era spesso attentamente studiata per attrarre favorevolmente il giudizio dei contemporanei sui benefici effetti dell’industria, rispondendo ad intenzioni rappresentative attraverso il decoro, come si vede, ad esempio, nella fabbrica inglese del villaggio operaio di Saltaire (Titus Salt, 1853) di stile gotico-veneziano, con ciminiera a forma di torre medievale.
Alla presenza dell’edificio della fabbrica nei villaggi operai, non è solo strettamente collegato il tentativo di razionalizzazione dello spazio, ma anche di razionalizzazione del tempo, "dove il tempo industriale prende il posto di quello solare: non è più il ritmo naturale del giorno e della notte a regolare il lavoro, ma il tempo segnato dall'orologio (grande, sotto la ciminiera), che scandisce il succedersi dei turni di fabbrica e quindi tutta la vita degli abitanti"[98]. Nel villaggio operaio "lo stabilimento sorge a pochi passi dalle case dei lavoratori, il suono della sirena raggiunge ad intervalli regolari ogni abitante del paese: il tempo della fabbrica fa tutt'uno con quello della vita quotidiana"[99].
Fig. II. 19. L’ingresso della fabbrica a Crespi d’Adda.
L’abitazione del padrone rispecchia la scala gerarchica imposta nel villaggio. Essa, quando è presente,[100]non è mai, nella maggioranza dei casi, in mezzo a quella dei dipendenti, ma in disparte, ed è caratterizzata dall’essere spesso chiaramente imponente e dominante. L’esempio italiano più conosciuto è l’abitazione della famiglia Crespi a Crespi d’Adda, costruito in disparte, a lato della fabbrica, sul lato opposto al villaggio sul modello di un castello medievale quadrilatero con due torrioni di cui uno più alto a caratterizzarsi come un vero e proprio mastio. Per A. Garlandini e M. Negri:
La simbologia architettonica del castello richiama inequivocabilmente la figura del vecchi padrone delle terre e delle anime dell’epoca medievale. La posizione stessa del castello, spostato sul lato destro del villaggio, in linea diretta con la chiesa, suggerisce una lettura sociologica ben precisa[101].
L’edificio è costruito in mattoni pieni a vista e cintato da un muro sempre in mattoni. All’interno le varie stanze ed appartamenti si affacciano su una hall centrale.
Fig. II. 20. Il “castello” dei Crespi a Crespi d’Adda.
Sormontato da una merlatura di tipo ghibellino, il castello ha il primo dei tre piani rivestito di pietra a bugnato, e fa ampio uso di elementi decorativi assemblati insieme in uno strano miscuglio di forme architettoniche: “mosaici […] stemmi gentilizi […], leoni araldici, fregi con animali mostruosi e simbologie esoteriche […]. La grande trifora al primo piano presenta un affresco allegorico, con le personificazioni di Mercurio e di Flora dalla conocchia in mano (simbolo dell’industria tessile) intorno ad uno stemma”[102], in cui i Crespi vedevano celebrati la virtù e il potere dell’Industria; a vigilare sulle sorti del villaggio:
Dall'alto della torre la vallata dell'Adda e la pianura lombarda discoprono la loro bellezza all'osservatore, ma ancora ricca di suggestione dev'essere la vista delle casette degli operai allineate ai piedi della costruzione, i giardini e le ortaglie susseguentisi, la visione della pace che deve regnare tra gli abitanti di quel villaggio. qui la sede dell'industriale, là la vita dell'operaio, la ricchezza dell'uno e la modestia dell'altro si fondono nel lavoro rimunerato dalla riconoscenza[103].
[1] ABRIANI A., Il villaggio operaio, in: Villaggi operai in Italia, a cura di A. Abriani Torino, Einaudi, 1981, p. 56. [2] AMORUSO M., Case e città operaie, Torino - Roma, 1903, pp. 11 - 12. [3] La testimonianza è riportata in: ROMUSSI G., Le case operaie di Milano, in: L’esposizione italiana del 1884 in Torino, dispensa n. 14, Milano, E. Sonzogno, 1884, p. 107. [4] CIPANI G. B., Le istituzioni operaie Rossi a Schio e nel suo circondario, “Rassegna nazionale”, vol. XLII, 1888, p. 607; citato in: GUIOTTO L., La fabbrica totale, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 124. [5] In città si scelse invece la soluzione dei caseggiati multipiano. Anche qui l’essere proprietari era strumentale ai fini della classe dominante e costituiva garanzia di ordine e stabilità “Non è dunque a caso che la ‘Società Edificatrice di Abitazioni Operaie’, fondata a Milano nel 1878 […] scegliesse la via della casa a riscatto e del villino unifamiliare”. [Ma gli operai non erano in grado di pagare le quote annue di ammortamento per l’acquisto delle casette, così dal 1885] “gli interventi successivi si indirizzarono […] verso l’edificazione di caseggiati ad appartamenti […] privilegiando il fabbricato tradizionale a cortile chiuso con ballatoi esterni di disimpegno” [SELVAFOLTA O., La casa operaia a Milano 1960 - 1914, “Parametro”, n. 83, Bologna, gennaio - febbraio 1980]. [6] AMORUSO M., Case e città operaie, Torino - Roma, 1903, pp. 224 - 225. Si veda la risposta data al problema della successione nelle leggi dello statuto leuciano in: San Leucio, documentazione allegata al capitolo II del presente lavoro. [7] GUIOTTO L., La fabbrica totale, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 73. [8] CASALINI, Un grande problema sociale,“Critica sociale”, 1902, p. 378. [9] MIONI A., Città industriale e trasformazioni urbane, in: AA.VV., Cento anni di industria, a cura di V. Castronovo, Milano, Electa, 1988, p. 194. [10] Ivi, p. 196. [11] Ibidem. [12] ALBERTINI C., Case operaie, in: L’arte moderna del fabbricare, vol. 4, Milano, Vallardi, 1910, p. 3. [13] Citato da: BERNARDI U., Ricerca sociologica sul villaggio operaio di Crespi d’Adda, in: AA.VV., Villaggi operai in Italia, a cura di A. Abriani, Torino, Einaudi, 1981, p. 133. [14] ALBERTINI C., Case operaie, in: L’arte moderna del fabbricare, vol. 4, Milano, Vallardi, 1910, p. 9. [15] Ibidem. [16] Si veda: AMORUSO M., Case e città operaie, Torino - Roma, 1903, p. 265. [17] SELVAFOLTA O., La casa operaia a Milano 1960 - 1914, “Parametro”, n. 83, Bologna, gennaio - febbraio 1980, p. 15. [18] SAMONÁ G., La casa popolare degli anni ‘30, Padova, Marsilio, 1973, p. 83. [19] SELVAFOLTA O., La casa operaia a Milano 1960 - 1914, “Parametro”, n. 83, Bologna, gennaio-febbraio 1980, p. 14. [20] Ivi, pp. 29 - 30. [21] Ivi, p. 31. [22] Negli stessi anni (1919 – 1933) a Vienna si assiste alla costruzione di blocchi di edifici con cortile – giardino; l’abitazione operaia, nella forma del superblocco (“Hof”) che accoglie al suo interno una ricca gamma di servizi collettivi: asili, scuole. Lavanderie, cucine, laboratori artigiani, spazi verdi. Si tratta di un modello che non implica, come quelli degli utopisti settecenteschi, l’ipotesi di una nuova organizzazione urbana. Esso, al contrario, si inserisce nelle maglie della città esistente accettandone tutti i vincoli. “La forma stessa del superblocco, che accoglie al suo interno una ricca gamma di servizi collettivi […] contribuisce ad esaltare l’autonomia dello Hof e ad isolarlo dal tessuto circostante. In tal senso […] e riassume in sé una tradizione che,dalla fine del XVIII secolo in poi, aveva assunto come propri modelli la caserma, il convento e la ‘cité ouvrière’, con risvolti più o meno fourieristi. Del resto, nella stessa Vienna gli Höfe settecenteschi organizzati dal clero erano già lì a fornire precedenti tipologie da far entrare in gioco con i riferimenti ai modi di vita comunitaria cui aspirano i modelli sopra citati. Ed è da sottolineare che il filo rosso che collega la caserma alla cité operaia e ai tanti progetti ottocenteschi di organizzazione alternativa della residenza popolare non è affatto labile” [Vienna Rossa: la politica residenziale nella Vienna socialista 1919 -‘33, a cura di M. Tafuri, Milano, Electa, 1980, p. 29]. [23] ABRIANI A., La casa per tutti nella Torino prefascista. La formazione dell’edilizia popolare nell’analisi di alcuni programmi ed interventi all’inizio del secolo, ” Edilizia popolare”, n. 117, Milano - Roma, marzo-aprile 1974, p. 49. [24] Ivi, pp. 46 - 48. [25] Ivi, p. 49. [26] SCOLARI M., Tipi e trattati delle case operaie . Le origini, “Lotus international”, n. 9 , Milano,1975, pp. 118 -119. [27] MAGRINI E., Le abitazioni popolari. Case operaie, Milano, Hoepli, 1905, p. 271. [28] L’Amoruso fissa le dimensioni di un appartamento comodo e confronta i costi delle varie realizzazioni:“Un appartamento comodo lo si può fissare con le seguenti dimensioni:
In totale m2 50,50; su questa superficie occupata ritenendo che l’altezza delle camere sia di m. 3,50 e quindi la cubatura complessiva di m2 50,50 X 3,50= m3 176,750, si possono alloggiare 3 persone comodamente.”
[AMORUSO M., Case e città operaie, Torino - Roma, 1903, pp. 284 -286]. [29] Citato da: BERNARDI U., Ricerca sociologica sul villaggio operaio di Crespi d’Adda, in: AA.VV., Villaggi operai in Italia, a cura di A. Abriani, Torino, Einaudi, 1981, p. 134. [30] Ivi, p. 135. [31] ABRIANI A., TESTA G.A., Leumann: una famiglia e un villaggio fra dinastie e capitali, in: AA.VV., Villaggi operai in Italia, a cura di A. Abriani, Torino, Einaudi, 1981, p. 221. [32] ALBERTINI C., Le abitazioni operaie nelle grandi città, “La Casa”, rivista mensile di edilizia ed urbanismo , n. XVII, Milano, febbraio 1939, pp. 5 - 7. [33] HELLER G., La pulizia indispensabile, in: AA.VV., Patrimonio edilizio esistente - Un passato e un futuro, Atti del convegno, a cura di A. Abriani, Torino, Designers Riuniti, 1980, p. 432. [34] Ibidem. [35] ALBERTINI C., Case operaie, in: L’arte moderna del fabbricare, vol. 4, Milano, Vallardi, 1910, p. 18. [36] Ivi, pp. 19 - 20. [37] ABRIANI A., TESTA G.A., Leumann: una famiglia e un villaggio fra dinastie e capitali, in: AA.VV., Villaggi operai in Italia, a cura di A. Abriani, Torino, Einaudi, 1981, p. 212. [38] SCOLARI M., Tipi e trattati delle case operaie . Le origini, “Lotus international”, n. 9, Milano, 1975, p. 121. [39] BERNARDI U., Ricerca sociologica sul villaggio operaio di Crespi sull’Adda, in: AA.VV., Villaggi operai in Italia, a cura di A. Abriani, Torino, Einaudi, 1981, p. 142. [40] Ivi, p. 143. [41] ALBERTINI C., Le abitazioni operaie nelle grandi città, “La Casa”, rivista mensile di edilizia ed urbanismo, n. XVII, Milano, febbraio 1939, pp. 5 -7. [42] BOTTONI P., PUCCI M., Indagini sul problema dell’abitazione operaia nella provincia di Milano e proposte per la sua soluzione, “Casabella”, Milano, novembre 1940, p. 6. [43] Si veda nella documentazione allegata: MOLLI S., L’orto della casa operaia, estratto da “Urbanistica”, n. 3 - 4, Roma, maggio - giugno 1937, XV. [44] Si veda il cap. II. 3. 1. 3. Strumenti che consentono il riconoscimento del villaggio operaio. [45] CAPUTO P., L’architettura del consenso e della pace sociale, in: PIVA A., CAPUTO P., FAZZINI C., L’architettura del lavoro, Venezia, Marsilio, 1979, p. 145. [46] GUIOTTO L., La fabbrica totale, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 25. [47] SAVELLI R., Tempo libero e lotta di classe, “Classe - Quaderni sulla condizione e sulla lotta operaia” n. 4, Milano, Dedalo Libri, giugno 1971, p. 260. [48] ABRIANI A., La casa per tutti nella Torino prefascista. La formazione dell’edilizia popolare nell’analisi di alcuni programmi ed interventi all’inizio del secolo, ” Edilizia popolare”, n. 117, Milano – Roma, marzo - aprile 1974, nota a p. 53. [49] AA.VV., Leumann storia di una famiglia e di un villaggio operaio, a cura di M. Agodi, Torino, Lito-copisteria Valetto, 1992, p. 27. [50] HELLER G., La pulizia indispensabile, in: AA.VV., Patrimonio edilizio esistente - Un passato e un futuro, Atti del convegno, a cura di A. Abriani, Torino, Designers Riuniti, 1980, pp. 428 - 430. [51] ABRIANI A., I villaggi operai nell’Italia settentrionale come modello di insediamento, in: “Atti” del II seminario LAU, Gargnano, ottobre 1975, p. 14. [52] CAPUTO P., L’architettura del consenso e della pace sociale, in: PIVA A., CAPUTO P., FAZZINI C., L’architettura del lavoro, Venezia, Marsilio, 1979, p. 131. [53] BERNARDI U., Ricerca sociologica sul villaggio operaio di Crespi sull’Adda, in: AA.VV., Villaggi operai in Italia, a cura di A. Abriani, Torino, Einaudi, 1981, pp. 158 - 160. [54] Ivi, p.160. [55] AMORUSO M., Case e città operaie, Torino - Roma, 1903, pp. 135 - 136. [56] BERNARDI U., Ricerca sociologica sul villaggio operaio di Crespi sull’Adda, in: AA.VV., Villaggi operai in Italia, a cura di A. Abriani, Torino, Einaudi, 1981, pp. 151 - 152. [57] AA.VV., Il villaggio Leumann, "Abitare", n. 158, Milano,1977, p. 82. [58] GUIOTTO L., La fabbrica totale, Milano, Feltrinelli, 1979, pp. 130 - 133. [59] LANARO S., Nazionalismo e ideologia del blocco corporativo - protezionista in Italia, "Ideologie: quaderni di storia contemporanea", n. 2, Roma, 1967, p. 72. [62] CAPUTO P., L’architettura del consenso e della pace sociale, in: PIVA A., CAPUTO P., FAZZINI C., L’architettura del lavoro, Venezia, Marsilio, 1979, p. 131. [63] MUSSO S., La gestione della forza lavoro sotto il fascismo - Razionalizzazione e contrattazione collettiva nell'industria metallurgica torinese (1910 - 1940), Milano, Franco Angeli, 1981, pp. 137 - 138. [64] Ivi, p. 146. [65] HELLER G., La pulizia indispensabile, in: AA.VV., Patrimonio edilizio esistente - Un passato e un futuro, Atti del convegno, a cura di A. Abriani, Torino, Designers Riuniti, 1980, p. 432. [66] ABRIANI A., TESTA G. A., Leumann: una famiglia e un villaggio fra dinastie e capitali, in: AA.VV., Villaggi operai in Italia, a cura di A. Abriani, Torino, Einaudi, 1981, p. 212. [67] GUIOTTO L., La fabbrica totale, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 81. [68] BERNARDI U., Ricerca sociologica sul villaggio operaio di Crespi sull’Adda, in: AA.VV.,Villaggi operai in Italia, a cura di A. Abriani, Torino, Einaudi, 1981, pp. 136 - 138. [69] AA.VV., Leumann storia di una famiglia e di un villaggio operaio, a cura di M. Agodi, Torino, Lito-copisteria Valetto, 1992, p. 28. [70] NEGRI A., NEGRI M., L’archeologia industriale, Messina - Firenze, G. D’Anna, 1978, p. 44. [71] PONI C., All’origine del sistema di fabbrica, “Rivista storica italiana” LXXXVIII, n. 3, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1976, p. 488. [72] Ibidem. [73] Ivi, p. 489. [74] Ivi, pp. 484 - 486. [75] Ivi, p. 487. Basti ricordare che sul finire dell’ottocento, a Schio, l’operaio veniva seguito dal direttore spirituale “contro le tentazioni della carne […] [e] veniva consigliato ‘di trattenere il giovane tale, al tornio o alla pressa o ai motori qualche buona mezzora in più preferibilmente nelle ore serali se non gli è danno la vista, indi si rechi solo, e vigilato, al dormitorio’”[MERLI S., Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale. Il caso italiano: 1880 - 1900, 2 voll., Firenze, La Nuova Italia, 1972, p. 367]. [76] BOSSAGLIA R., Crespi d’Adda: l’invenzione, l’idea, il monumento, in: AA.VV., Villaggi operai in Italia, a cura di A. Abriani, Torino, Einaudi, 1981, p. 121. [77] Ibidem. [78] ABRIANI A., TESTA G. A., Leumann: una famiglia e un villaggio fra dinastie e capitali, in: AA.VV., Villaggi operai in Italia, a cura di A. Abriani, Torino, Einaudi, 1981, p. 216. [79] AA. VV., Leumann Storia di una famiglia e di un villaggio operaio, Torino, Lito - copisteria Valetto, 1992. [80] A Schio, la prima istituzione paternalistica dopo la Società di mutuo soccorso “fu la biblioteca circolante che nel giro di una decina d’anni contava un migliaio di volumi e circa 300 lettori” [GUIOTTO L., La fabbrica totale, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 121]. [81] GUIOTTO L., La fabbrica totale, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 55. [82] Ibidem. [83] Ivi, p. 60. [84] BERNARDI U., Ricerca sociologica sul villaggio operaio di Crespi sull’Adda, in: AA.VV.,Villaggi operai in Italia, a cura di A. Abriani, Torino, Einaudi, 1981, p. 145. [85] GUIOTTO L., La fabbrica totale, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 123. [86] Ivi. p. 123. [87] Ibidem. [88] BERNARDI U., Ricerca sociologica sul villaggio operaio di Crespi sull’Adda, in: AA.VV.,Villaggi operai in Italia, a cura di A. Abriani, Torino, Einaudi, 1981, p. 146. [89] BORSI F., Introduzione all’archeologia industriale, Roma, Officina, 1978, p. 43. [90] GUIOTTO L., La fabbrica totale, Milano , Feltrinelli, 1979, p. 77. [91] BORSI F., op. cit., p. 161. [92] SELVAFOLTA O., Aspetti dell’architettura industriale, in: AA.VV.,Cento anni di industria, a cura di V. Castronovo, Milano, Electa, 1988, p. 231. [93] Ivi, p. 40. [94] SELVAFOLTA O., Lo spazio del lavoro 1750 - 1910, in: La macchina arruginita, a cura di A. Castellano, Bologna, Feltrinelli, 1982, p. 39. [95] Ivi, p. 42. [96] Ivi, p. 45. [97] Ivi, p. 53. [98] NEGRI A., NEGRI M., L’archeologia industriale, Messina - Firenze, G. D’Anna, 1978, p. 106. [99] SIMONI C., Campione sul Garda, memorie e progetto nel futuro di un villaggio operaio, “Il coltello di Delfo”, n. 4, Roma, 1987, pp. 33 - 39. [100] Ad esempio Napoleone Leumann abitò sempre a Torino, in C.so Vittorio Emanuele 105, e non nel villaggio da lui fondato, vicino a Collegno. 101] I monumenti storico - industriali della Lombardia - Censimento regionale, a cura di A. Garlandini e M. Negri, serie Quaderni di Documentazione Regionale, n. 17, Regione Lombardia settore cultura e informazione, Milano, 1984, p. 463. [102] LORANDI M., Crespi e la tipologia del villaggio operaio, in: AA.VV., Villaggi operai in Italia, a cura di A. Abriani Torino, Einaudi, 1981, p. 196. [103] AMORUSO M., Case e città operaie, Torino - Roma, 1903, p. 232.
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