II. 2.   Le teorie
        II. 2. 1.   La manualistica                              
        II. 2. 2.   L'ingegnere igienista                     
        II. 2. 3.   Il "modello" di villaggio operaio

 


 

II. 2. 1.   La manualistica

 

In Italia in problema delle case popolari […] veniva recepito dalla manualistica corrente solo negli anni ottanta dell’Ottocento; a sollevarlo erano, anche da noi, le emergenze sociali e politiche (nazionali e locali) e in certo modo anche una diffusa curiosità suscitata nei visitatori italiani dalle esposizioni universali londinesi e parigine, punto di riferimento necessario per i nuovi tecnici e per i nuovi imprenditori[1].

 

Il problema della situazione igienica nelle città italiane è sollevato in maniera clamorosa dall’epidemia di colera a Napoli nel 1884, di conseguenza “la legge sanitaria del 1888 e i provvedimenti successivi ampliano l’applicazione dei provvedimenti igienici a tutto il territorio nazionale, […] e in effetti legalizzano ed incentivano i grandi sventramenti urbani. Questi si appoggiano ad appositi strumenti urbanistici […] e trovano supporto tecnico nei manuali”[2].

Per la localizzazione di quartieri e case operaie, erano assunti criteri economici e funzionali tali da provocare la loro progressiva espulsione dalla città, verso la periferia e le aree industriali, che si univa alla tendenza delle maggiori industrie a richiamare nelle immediate vicinanze la mano d’opera fornendo  la residenza in villaggi aziendali. 

Le indicazioni di carattere urbanistico e tipologico furono assunte  dai congressi internazionali sull’edilizia a buon mercato e dalla trattatistica dei paesi europei più progrediti.

Nei manuali italiani è riportata ampiamente la casa operaia unifamiliare contrapposta alla tipologia a “caserma”, tuttavia “mentre gli economisti […] la raccomandano come soluzione al problema della casa, i cui costi vanno così addossati all’industria, e gli igienisti ne vantano la salubrità fisica e morale, nella realtà italiana essa costituisce più un fatto esemplare che un vero e proprio tipo abitativo sufficientemente diffuso”[3].

Così, anche in Italia, nel decennio successivo all’unità nazionale, il problema della casa è oggetto di una vasta letteratura, aggiornata sulla pubblicistica e sulle realizzazioni straniere e vengono pubblicati diversi manuali dedicati all’architettura, ma anche alle arti minori, che, orientati per tendenza ad una massima diffusione, si definiscono “popolari”.

Lo stesso costruttore del villaggio di Crespi d’Adda, Silvio Benigno Crespi, nel 1894 scrive il volumetto La vita e la salute degli Operai dove fornisce alcuni ragguagli sull’edilizia operaia in Europa, riferendosi alle realizzazioni di Moulhouse e citando esempi inglesi[4].

“Testo fondamentale rimane l’opera di Archimede Sacchi, ingegnere architetto e professore presso l’istituto tecnico superiore di Milano, sia per l’ampiezza e la completezza della trattazione, sia per la sua diffusione”[5]. Il suo trattato sui problemi dell’igiene nelle abitazioni, (Le abitazioni, edito da Hoepli nel 1874) è suddiviso in due sezioni: la prima tratta dei passaggi, ossia gli elementi distributivi e funzionali delle abitazioni, la seconda riguarda l’igiene delle abitazioni (provvisione d’acqua, riscaldamento, ventilazione ed illuminazione), nonché la composizione degli edifici con i relativi problemi compositivi e tipologici, e ne mostra numerosi esempi in pianta.

Tra i numerosi manuali del periodo si ricordano quelli di E. Magrini, A. Schiavi, M. Boldi, M. Amoroso, I. Casali, Alberini.[6] 

Partendo dalla constatazione delle precarie condizioni abitative degli operai, questi diversi autori arrivano a dettare tutta una serie di norme per la costruzione di case operaie: ubicazione, orientamento, materiali, particolari di costruzione ed analisi dei costi. Dalla “questione morale” arrivano a determinare il numero minimo di ambienti per famiglia; da quella “igienica” le norme igieniche per la costruzione; da quella “economica” il modo migliore di costruire con il prezzo più basso, il tipo di distribuzione, e l’azione di Stato, comuni e privati.

Nella cultura dell’epoca la diffusione fra case popolari e case civili è così netta che spesso “il primo tipo non è considerato come parte di una trattazione sulle abitazioni, ma piuttosto come appendice a quella degli ‘edifici industriali’”[7]; ad esempio, nel manuale L’arte moderna del fabbricare (Vol. 4, Vallardi Milano, 1910), un capitolo tratta delle case operaie (C. Albertini) e un altro delle case civili (G. Giovannoni).

Nelle diverse trattazioni l’edilizia operaia ricorre come una delle categorie progettuali del professionista. L’elemento più semplice è l’alloggio che fisicamente esprime l’attributo di classe e che, aggregato, genera la casa operaia, più case operaie danno luogo al quartiere, al borgo, al villaggio operaio. La definizione di villaggio operaio è compiuta seguendo criteri compositivi e distributivi, e attraverso la distribuzione morfologico-distributiva si denota la funzione semantica dell’agglomerato.[8]

 

Fig. II. 1.   Varianti di casette ad un piano per uno (sopra) e due alloggi proposte dal Casali.

 

Gli esempi portati dai diversi saggisti comprendono tutta una serie di case (del tipo a “caserma” e villini) e quartieri popolari già costruiti in Italia, ma soprattutto all’estero, contribuendo così alla loro divulgazione[9]. Tra i numerosi esempi italiani citati, quelli di Schio e Crespi d’Adda sono sin dall’inizio comuni a tutti gli autori, così come in ambito europeo le realizzazioni più conosciute risultano essere ancor oggi le più note[10].

 


 

II. 2. 2.   L’ingegnere igienista

 

Nel periodo compreso fra l’unità nazionale e il 1920, in cui l’economia italiana passa dalla fase pre-industriale a quella di industrializzazione avviata, si afferma la nuova figura dell’ingegnere, che,

aperta ad una gamma di competenze sempre più ampia, […] diventa garanzia di “progresso” anche per la produzione edilizia;[parallelamente] […] si consolida e si espande la pubblicistica tecnica e critica per il settore delle costruzioni: accanto alle riedizioni dei trattati classici nascono e si affermano i periodici, accanto alla produzione di testi didattici […] compare la manualistica operativa e divulgativa[11]

 

La nuova figura di professionista che, insieme al medico sanitario e al sociologo comincia, fin dalla seconda metà dell’800, a delinearsi sul campo dei complessi problemi riguardanti la città operaia è l’ingegnere igienista, o architetto salubrista e, più tardi, l’ingegnere sociale[12]

Risulta in questo modo essere una classe di ingegneri e non di architetti, quella che imposta il problema della costruzione della casa popolare sotto il profilo tecnico, igienico, economico e sociale. A. Abriani afferma, riguardo all’ingegnere igienista che:

 

è […] sul terreno vergine della conoscenza, progettazione e realizzazione del villaggio operaio che esprime con maggior ricchezza il suo modello di organizzazione spaziale e tecnica della vita associata. Questo nuovo tecnico giunge ad elaborare, e in generale ad imporre, un modello urbanistico e residenziale che è l’antitesi delle “caserme” operaie delle periferie delle grandi città industriali[13].

 

L’ingegnere igienista è come un fisico che mette in funzione il proprio modello di società riassunta nel villaggio operaio, per scoprirne tutte le proprietà.

Il riferimento culturale delle teorie igienico-ingegneresche è sostanzialmente biologico-antropologico, ed è fondato sulla univocità del rapporto esistente tra ambiente e comportamento. “Le condizioni dimensionali ottimali dell’ambiente sono fornite da un microbiotipo che possa essere non solo osservabile, ma anche controllabile: alla dimensione del villaggio operaio si può non solo osservare (come in ‘vitro’), ma indurre ‘la selezione’ della ‘specie operaia’”[14].

La casa popolare per l’ingegneria sanitaria, che riunisce tra le sue fila sia medici che ingegneri, viene in un primo momento trasformata in una questione prettamente tecnologica, cioè di corretta progettazione degli ambienti domestici in funzione dell’igiene. “All’interno di una strategia più generale di controllo e intervento sui corpi (corpi biologici, ma anche sociali) e nel quadro di una situazione nella quale era dimostrato per la prima volta il rapporto diretto tra condizioni abitative e tasso di mortalità, la casa è considerata un importantissimo strumento terapeutico”[15].

 

Fig. II. 2.   Vasi  a sifone, sistemi di fosse mobili per la raccolta di liquami e filtrazione dell'aria presentati  nel manuale di A. Sacchi, 1874.

 

Almeno apparentemente, l’ingegnere sanitario si interessa della città e della casa solo in quanto dispositivi tecnologici. Non si pone, almeno apparentemente, problemi di natura formale, ma fa proprie solo preoccupazioni igienico - funzionali  dietro alle quali nasconde quelle morali. 

Gli elementi di servizio diventano il centro della riflessione architettonica di matrice igienico - sanitaria: “nel suo manuale ‘Case e città operaie’ l’ingegnere Efren Magrini elenca le parti della casa destinando 4 pagine alle cantine, 6 alle latrine, mentre le altre stanze sono liquidate in poche righe.”[16]

Oltre alla salubrità, un’altra caratteristica dell’abitazione sociale deve essere la semplicità, per ragioni economiche, ma anche morali: quindi no al superfluo, riduzione massima degli spazi, costruzioni semplici e solide senza ornamenti architettonici costosi ed inutili.

Il Italia il personaggio emergente è Luigi Pagliani. Di formazione medica, tiene dal 1877 al 1924 la prima cattedra di igiene del Regno, elabora quella che diviene la legge Crispi-Pagliani (1888) Sulla tutela dell’igiene e della sanità pubblica, ed è a capo della Direzione generale della Sanità fino al 1896.

La cultura igienico-sanitaria in Italia si espresse nella pubblicazione in particolar modo delle riviste: L’ingegneria sanitaria (1890) che nel 1905 si fuse con L’ingegnere igienista (fondata nel 1900 dal Pagliani), e che dal 1911 sarà Rivista di ingegneria sanitaria e di edilizia moderna, a Torino; L’Igea (1862, poi Il Medico in casa), L’igiene in famiglia (1891) e Sanitas (1903) a Milano; Igiene e Scuola (1892) a Mantova; L’Igiene Moderna (1908) prima a Genova e poi Parma.

Senza rapportarsi con la cultura architettonica, che incentrava la sua azione attorno a problematiche storico-stilistiche, il tecnicismo positivista degli ingegneri attuò per M. Scolari, 

 

in modo egemone la costruzione della città incoraggiato dal liberalismo delle burocrazie centrali e del nascente capitalismo industriale delle grandi città. […] Solo […] dopo la prima guerra mondiale ci si renderà conto di come il positivismo scientifico degli ingegneri igienisti non fosse altro che l’espressione ideologia del nuovo capitalismo[17]

 

Nel primo decennio del 900 nella progettazione del luogo di lavoro subentrava una nuova figura di tecnico: l’ingegnere sociale, dal titolo di un fortunato manuale statunitense del 1909 [W.H. Tolman, Social Engineering. A Record of Things Done by American Industrialists Employing upwards of One and One-half Million People, dedicato ai maggiori industriali statunitensi, che insisteva sui vantaggi derivanti da migliori condizioni di lavoro intesi come un ulteriore strumento di controllo sulla vita delle maestranze. 

In Italia la somma non indifferente dei compiti tecnici che l’ingegnere sociale s’era assunto è compendiato da Marc’Aurelio Boldi, nel libro Le case popolari (1910): in un brano riportato da A. Abriani, si legge che l’ingegnere sociale è:

 

un tecnico che ha studiato e praticato le questioni dell’organizzazione del lavoro nell’industria; la pace sociale nel laboratorio; l’igiene sociale della città; la salubrità […] dappertutto […] dove si vive; il campo di attività dell’ingegnere sociale è immenso; e a lui si deve ricorrere per impiantare, nell’officina o attorno a essa ristoranti economici, sale da bagno e da doccia, ginnasi, arene per giochi, biblioteche, società cooperative di consumo, società letterarie e musicali, corsi di istruzione professionale, caserme, alloggi economici ecc.[18].

 

L’ingegneria sociale “era la diretta emanazione della teoria scientifica del lavoro e cui spettava sostanzialmente il compito di promuovere la massima efficienza potenziando il rendimento di uomini e macchine”[19], cioè del taylorismo. Sono però gli stessi principi teorizzati dal taylorismo  che introducono per A. Abriani:

 

un cambiamento e una contraddizione insanabile [e] […] quel tecnico, che aveva iniziato come specialista settoriale dei componenti igienico-sanitari, divenuto il progettista della “globalità sociale dell’ambiente”, ovvero della “fabbrica sociale”, reclina nuovamente su livelli parcellizzati. […] L’ingegnere sociale va prefigurando il ruolo del “manager” […]. Le sue altre attribuzioni si ridistribuiscono fra altrettanti specialisti: ancora l’ingegnere settoriale, lo statistico, il sociologo, lo psicologo, il medico; finché l’ultima sua pretesa demiurgica alla progettazione globale dell’organizzazione spaziale della vita associata, già contesa, gli è definitivamente sottratta dall’architetto razionalista […] L’equazione ottocentesca che rendeva “l’igiene = morale”, passando a quella del “bello = funzionale” dei razionalisti, diventa soprattutto in mano ai tecnici del dopoguerra “morale = rendimento / produzione”[20].

 


 

II. 2. 3.   Il “modello” di villaggio operaio

 

La classe operaia non ha mai elaborato progetti di modelli residenziali. Quelli che esistono sono stati proposti e realizzati dalla classe dominante, che considera un intervento redditizio se produce oltre che strutture anche sovrastrutture o simboli del potere stesso.

Il villaggio operaio è stato considerato[21] un modello di insediamento, in quanto nasce e si afferma, nel quadro della cultura scientifica positivistica ottocentesca, nello stesso periodo in cui vengono elaborate pedagogia, sociologia e fisica moderne, e la funzione del “modello” diviene basilare per comprendere la natura dei fenomeni. Per A. Abriani:

 

il “villaggio operaio” può intendersi sia come “modello meccanico” che come “modello simbolico” della realtà sociale nella sua totalità, dominata dal dualismo di capitale e lavoro, e che può essere interpretata e manipolata a partire dalla sua riproduzione in “modello”, con la stessa scientificità con cui si interpretano e si manipolano ad esempio i fenomeni d’elasticità dei solidi[22].

 

Come per la metodologia darwiniana, nel villaggio operaio

viene dosata tutta la gamma degli elementi atti a garantire la concorrenza, la differenziazione, la selezione, in condizioni fisiologiche. L’operaio, considerato come essere allo stato selvatico da […] accasare e assuefare, nonché mantenere, è sottoposto a un’azione di adattamento che tiene conto che, [come sosteneva K. Lorenz, N.d.A.] la convivenza sociale esercita una pressione selettiva in direzione di un migliore sviluppo delle capacità assimilatrici individuali, affinché queste non restino utili solo all’individuo, ma giovino anche alla comunità. Naturalmente si tratta anche di “ridirigere” tutta una serie di  comportamenti nocivi che la stessa convivenza può produrre[23],

 

fuori dalla fabbrica, quando si scaricano le tensioni lì accumulate. 

 

E nel villaggio operaio sono infatti messe in funzione tutte quelle strutture atte a dirigere le tensioni su binari innocui. Il problema è di provocare la formazione di nuovi “riti” (il rito dell’orto, il rito dell’educazione, il rito della vita igienica, ecc.), che si trasformino in altrettante abitudini radicate, che alla fine, risultato di un collaudo storico, giungano quasi automaticamente a presiedere e a governare gli effetti nocivi delle spinte eversive, rendendo possibile la convivenza in mezzo agli interessi contrastanti di quel dualismo - considerato come condizione naturale rigida - tra capitale e lavoro[24].

 

Dal villaggio operaio previsto dai manualisti, e risultato un modello troppo meccanico del reale possibile costruito, verranno estratte “tutte le strutture simboliche che poteva liberare, recuperandole ad una scala territoriale più ampia: lo sviluppo del villaggio operaio è infatti già dall’origine funzione della produzione industriale, e propone un modello di insediamento, che in quanto modello è definitivo”[25]

Il villaggio operaio diviene il  modello che rispecchia l’ideologia dell’epoca, dove ogni oggetto edilizio è espressione dell’idea del tempo di edilizia e rapporti sociali.  Sulla casa operaia si sviluppa tutta una serie di studi e nuove professioni, sul nuovo terreno di indagini che proseguiranno nel secolo successivo[26].

Tra i principi organizzativi delle abitazioni operaie che vengono codificati e sovente rispettati ci sono per J. Gubler: 

 

1) ampiezza ed autonomia della cucina, 2) isolamento e indipendenza delle camere, 3) il prolungamento all’esterno dell’appartamento con un ballatoio o un appezzamento di giardino[27].

 

A livello di planimetria, mentre nelle formulazione dei modelli utopici l’organizzazione del piano è pensata aprioristicamente e secondo uno schema rigido, nella realtà costruita subisce continui e progressivi aggiustamenti. “Così nella crescita del villaggio alle residenze si aggiunge la chiesa, il parco, l’asilo, la scuola elementare, e contemporaneamente al regolamento di fabbrica si accompagna una regolarizzazione della vita individuale e associativa con forme di previdenza, pensionamento, rigidi codici di comportamento […] e l’evangelizzazione”[28]

Su tutte queste forme di assistenza e di attrezzature sociali, inventate o reinventate nell’800, l’architettura moderna modella e definisce i nuovi contenuti sociali ed economici.

 


[1] GABETTI R., Seconda metà dell’Ottocento, in: AA.VV.,Villaggi operai in Italia, a cura di A. Abriani, Torino, Einaudi, 1981, p. 10.

[2] L’arte di edificare: manuali in Italia 1750 - 1950, a cura di C. Guenzi, Milano, Be-Ma, 1981, 

p. 68. La legge in questione è la Crispi – Pagliani “Sulla tutela dell’igiene e della sanità pubblica”.

[3] Ivi, p. 69.

[4] Si veda, nei documenti allegati: S. B. CRESPI, Dei mezzi di prevenire gli infortuni e garantire la vita e la salute degli operai nell’industria del cotone in Italia.

[5] L’arte di edificare: manuali in Italia 1750 - 1950, a cura di C. Guenzi, Milano, Be-Ma, 1981, 

p. 71. 

[6] ALBERTINI, Case operaie, in: L’arte moderna del fabbricare, vol. 4, Milano, Vallardi, 1910;

AMORUSO M., Case e città operaie, Torino - Roma, 1903;

BOLDI M. A., Le case popolari, voll. 2, Milano, Hoepli, 1909;

CASALI I., Tipi originali di casette popolari e villini economici, Milano, Hoepli, 1909;

MAGRINI E., Le abitazioni popolari. Case operaie, Milano, Hoepli, 1905;

SCHIAVI A., Le case a buon mercato e le città giardino, Bologna, Zanichelli, 1911; edizione consultata: ristampa a cura di P. Somma, Milano, Franco Angeli, 1985.

[7] C. GUENZI, op. cit., p. 174.

[8] Per il Casali [op. cit.], ancora nell’edizione del 1923, la città operaia è un gruppo regolare di casette popolari, mentre un gruppo irregolare di case popolari diventa una città - giardino.

[9] Si veda, ad esempio, il manuale di E. Magrini [op. cit.], il quale fa continuo riferimento ai rapporti presentati dagli studiosi stranieri nei diversi congressi sulle abitazioni popolari.

[10]  Si veda il Cap. I “Gli antecedenti europei”. 

Una lunga storia della casa operaia in Europa viene tracciata in particolare dall’Amoruso, prendendo lo punto dal grido d’allarme sulla gravità del problema della casa operaia partito dall’Esposizione di Londra del 1851. Nessuno tra i numerosi autori, invece, dimostra la minima conoscenza dell’esperimento imprenditoriale - filantropico italiano promosso dai Borboni a San Leucio di Caserta, alla fine del XVIII secolo.

[11] L’arte di edificare: manuali in Italia 1750 -1950, a cura di C. Guenzi, Milano, Be - Ma, 1981, p. 68.

[12] Riguardo la denuncia del degrado e le proposte di risanamento delle case operaie in Torino fatte da alcuni igienisti, si vedano:

MUSSO G., Le condizioni edilizie di Torino alla luce dell’igiene pubblica, Torino, Pozzo, 1899;

CORRADINI F., La casa nuova e le abitazioni salubri, Torino, Tip. L. Roux e C., 1891.

[13] ABRIANI A., I villaggi operai nell’Italia settentrionale come modello di insediamento, in: “Atti” del II seminario LAU, Gargnano, ottobre 1975, p. 5.

[14] ABRIANI A., Il villaggio operaio, in: AA.VV.,Villaggi operai in Italia, a cura di A. Abriani, Torino, Einaudi, 1981, p. 51.

[15] PALMA R., Il discorso - dispositivo igienico-sanitario, in: AA.VV., Cento tavole. La casa a Milano dal 1890 al 1970, Unicopli, 1997, p. 39. Nel saggio l’autore analizza il modo di lettura della casa popolare da parte dell’ingegneria sanitaria.

[16] Ivi, p. 41.

[17] SCOLARI M., Tipi e trattati delle case operaie. Le origini, “Lotus international”, n. 9 , Milano, 1975, p. 121.

[18] ABRIANI A., Il villaggio operaio, in: AA.VV., Villaggi operai in Italia, a cura di A. Abriani, Torino, Einaudi, 1981, p. 52.

[19] SELVAFOLTA O., Lo spazio del lavoro 1750 - 1910, saggio contenuto in: La macchina arrugginita, a cura di A. Castellano, Bologna, Feltrinelli, 1982, p. 59.

[20] Ivi, p. 53.

[21] Si vedano:

AA.VV., Villaggi operai in Italia, a cura di A. Abriani, Torino, Einaudi, 1981;

ABRIANI A., I villaggi operai nell’Italia settentrionale come modello di insediamento, in: “Atti” del II seminario LAU, Gargnano, ottobre 1975.

[22] ABRIANI A., I villaggi operai nell’Italia settentrionale come modello di insediamento, in: “Atti” del II seminario LAU, Gargnano, ottobre 1975, p. 8.

[23] ABRIANI A., Il villaggio operaio, in: Villaggi operai in Italia, a cura di A. Abriani, Torino, Einaudi, 1981, p. 14.

[24] ABRIANI A., I villaggi operai nell’Italia settentrionale come modello di insediamento, in: “Atti” del II seminario LAU, Gargnano, ottobre 1975, p. 9.

[25] ABRIANI A., Il villaggio operaio, in: AA.VV., Villaggi operai in Italia, a cura di A. Abriani, Torino, Einaudi, 1981, p. 42.

[26] A. Abriani (vedi nota prec.) riporta, a conferma di quanto detto,  alcune affermazioni di E. May: “La forma residenziale ideale , in quanto la più naturale, è la casa bassa unifamiliare. Essa garantisce alla famiglia la pace domestica e una vita intima […]. Soltanto questo tipo di edificio consente di collegare direttamente ogni singola abitazione con un giardino, sia pure piccolo […]. Noi riconosciamo come economicità soltanto quella che si fonda sul principi del mantenimento della salute degli uomini: economicità sociale. Essa esige con urgenza il ristabilimento di condizioni di vita naturali […] mediante una ragionevole costruzione estensiva delle città […]. Non è più necessario sviluppare i quartieri in modo concentrico intorno ad un centro urbano […] possiamo costruire nella libera campagna […] dei complessi residenziali autonomi” [Cinque anni di attività edilizia residenziale a Francoforte sul Meno, “Das neue Frankfurt”, IV, n. 2-3, 1930; trad. it. a cura di G. Grassi, Bari, Dedalo, 1975].

[27] GUBLER J., La “memoria collettiva” del villaggio operaio, in:  AA.VV., Patrimonio edilizio esistente -  Un passato e un futuro, Atti del convegno, a cura di A. Abriani, Torino, Designers Riuniti, 1980, p. 425.

[28] CAPUTO P., L’architettura del consenso e della pace sociale, in: PIVA A., CAPUTO P., FAZZINI C., L’architettura del lavoro, Venezia, Marsilio, 1979, p. 137.