Con la rivoluzione industriale nel secolo XIX l’abitazione diventa un problema. In conseguenza allo sconvolgimento demografico si hanno nuove configurazioni e dimensioni territoriali. Nelle vecchie città il problema è affrontato essenzialmente con l’intervento pubblico, comunale o governativo, mentre nei centri minori. sollecitati da nuove o rinnovate attività industriali, si giungerà alla creazione di centri produttivo - residenziali quali le città, i borghi e i villaggi operai, che si configureranno come modello ideale di residenza operaia. “La portata dei fenomeni connessi all’industrializzazione non fu eguale e contemporanea per tutti i paesi occidentali. In Italia in particolare si può parlare per la prima volta di un tale processo in modo continuativo solo dopo l’unità e limitatamente a poche regioni e città”[1]. L’immediato antecedente della moderna fabbrica capitalistica fu la manifattura, un edificio dove i lavoratori venivano concentrati rompendo la secolare tradizione del lavoro artigianale a domicilio e sottraendo manodopera all’agricoltura. “Il problema della costruzione di edifici destinati appositamente alla produzione di merci, nasce quindi già nel tardo Seicento e nel Settecento”[2] con le prime manifatture, “occorre dunque risalire all’Ancièn Régime per incontrare, all’ombra dei grandi monopoli di stato, i primi cospicui insediamenti industriali autosufficienti e autonomi che realizzano i primi nuclei della città - fabbrica, anticipando i modelli di Villes Ouvrières che troveranno tanta diffusione nell’800”[3]. Si tratta di insediamenti a grande scala dei quali l’esempio italiano più noto è la colonia di San Leucio presso Caserta[4], una “città-fabbrica voluta dal capitalismo di stato nella seconda metà del settecento che, attraverso il rigore geometrico dell’impianto urbano e la nuda semplicità delle architetture, esprime la razionalità dell’organizzazione produttiva e la equità delle strutture sociali”[5].
All’inizio l’industria italiana “dovette misurarsi - oltre che con gli interessi della proprietà fondiaria - anche con le convenzioni con i pregiudizi che circolavano nell’ambiente politico e nelle istituzioni culturali. La scuola, i giornali, la cultura accademica non erano propensi a coltivare vocazioni scientifiche e imprenditoriali: essi erano portati, piuttosto a idealizzare l’Italia rurale ed artigiana”[6]. Alla grande industria venivano associati l’urbanesimo e la conflittualità sociale, mentre la concentrazione produttiva e finanziaria era considerata aspetto patologico e degenerativo dello sviluppo capitalistico; afferma il Castronovo che:
per lungo tempo l’industria fu vista come una sorta di strumento sussidiario della diplomazia e del “partito di corte”; mentre per il governo delle fabbriche e delle masse operaie, ci si affidò al paternalismo sociale, tipico del mondo rurale, fondato su vincoli personali di reciproca collaborazione e lealtà, e non tanto sull’accettazione a pieno titolo della logica conflittuale tra capitale e lavoro[7].
L’Italia rimase, malgrado l’industrializzazione, un paese fondamentalmente agricolo, in cui il caratteristico distacco città-campagna, diffuso, in tutte le regioni,provocò una mescolanza tra vecchi e nuovi metodi produttivi, così “ovunque metodi di produzione tipici della manifattura di tipo antico sopravvissero per alcuni decenni, accanto allo sviluppo della fabbrica moderna. Ciò significò, dal punto di vista sociale, una sopravvivenza di vecchi ceti, un permanere di vecchi modelli di vita, di mentalità e di costume che affondavano le loro radici all’interno di vicende a volte antiche di qualche secolo”[8]. Le prime attività industriali organizzate secondo metodi di produzione meccanica furono le tessiture, costruite in prossimità dei corsi d’acqua per sfruttarne la forza motrice, in zone dove già esisteva una tradizione di lavoro domestico; per S. Merli fu in questo modo che:
la rivoluzione industriale in Italia si fa le ossa, cioè forma l’accumulazione primitiva di cui aveva bisogno, attraverso l’industria leggera, e in modo particolare attraverso l’industria tessile e quei rami dell’industria tessile nei quali tradizioni di lavoro, sfruttamento indiscriminato della mano d’opera, energia idrica a buon mercato, unitamente ai dazi, corso forzoso ed altre provvidenze governative, potevano surrogare la debolezza tecnologica ed organizzativa[9]. L’industria italiana in origine tende quindi a non separarsi definitivamente dalla campagna: se la manifattura si giova della manodopera saltuaria, la grande fabbrica usa la forza motrice idrica, si rifornisce di derrate per i propri operai e soprattutto trova un’abbondante mano d’opera sul posto che libera e stacca dalla terra. Per la prima volta le cosiddette “fabbriche” di tessuti non consistono più in imprese fornitrici di lavoro a domicilio ai contadini provvisti di telai domestici, ma sono degli organismi autonomi con una propria economia interna e con proprie leggi di organizzazione del lavoro. Gli anni sino all’unità Italia, vedono il moltiplicarsi delle industrie cotoniere e laniere in Piemonte e Lombardia. L’industria cotoniera ha, per A. Abriani, carattere innovatore, essa instaura una nuova dinamica produttiva e nei rapporti sociali, imponendo una modificazione radicale nei vecchi rapporti fra industria e capitale finanziario, […] si può affermare che la “pacificazione sociale” era condizione necessaria per lo sviluppo sicuro del settore: in un certo senso, l’industriale illuminato e l’industriale cotoniero sono due figure complementari[10].
“Dopo il 1870 inizia il periodo l’epoca in cui la filatura italiana e la lombarda in particolare, compiono rapidi progressi […]. Incomincia inoltre il periodo in cui, accanto allo stabilimento, vengono create le prime case operaie e i primi servizi sociali[11]”. Nasce così un nuovo tipo di centro industriale, il villaggio industriale rurale, che, afferma S. Merli, risponde a precise ragioni economiche:
la maggiore economicità del suolo di fabbricazione, le tasse minori, la facilità di procurarsi energia motrice per le macchine ed elettrica per illuminare il lavoro notturno, ma […] soprattutto la facilità di rastrellare mano d’opera a volontà dalla terra e dal lavoro domiciliare e quindi una mano d’opera “vergine” senza tradizioni di lotta, formatesi nella dispersione e nell’isolamento[12].
Ciò che “distingue in modo particolare i fondatori del paternalismo organico del XIX secolo in Italia è proprio l’acuta consapevolezza delle implicazioni che la nascita e lo sviluppo del sistema di fabbrica comportano a livello sociale e, nel contempo, la volontà determinata di avviare il paese sulla nuova strada dell’economia industriale”[13]. Tuttavia, nel contesto italiano sono rari “gli insediamenti riconoscibili come villaggi operai, […] integrati allo stabilimento produttivo, sorti nel periodo della prima industrializzazione, o comunque, anche se più recenti, aventi caratteristiche analoghe agli insediamenti di più antico impianto”[14]. Furono soprattutto imprenditori tessili che introdussero nel nostro Paese dalla prima metà dell‘800 il modello urbanistico e sociale del villaggio operaio, già sperimentato in Francia ed Inghilterra: Crespi d’Adda in Lombardia, Leumann vicino a Collegno, in Piemonte e Schio in Veneto sono gli esempi più noti e studiati. Essi costituirono all’epoca della loro costruzione delle vere innovazioni nella realtà italiana ed ebbero un’eco vastissima nella borghesia e nei circoli culturali dell’epoca, pur trattandosi di interventi più limitati di quelli in ambito europeo. Più di frequente le tentate realizzazioni di dar vita a insediamenti operai, non seguirono un disegno unitario ed organico, ma edifici tra loro eterogenei dal punto di vista architettonico sorsero vicino alle fabbriche in momenti differenti per soddisfare le richieste via via emergenti.
II. 1. 2. La stabilizzazione della manodopera
Fra gli ultimi anni del 1800 e i primi del 1900, con l’instaurarsi di nuovi rapporti sociali in seguito all’industrializzazione, si determina una sfasatura rispetto alle preesistenti condizioni di vita. La soluzione dei problemi collettivi imposti dal sistema di fabbrica, dal momento che i pubblici poteri sono assenti, è delegata al privato, che, se da un lato è lasciato completamente libero di sfruttare autonomamente la propria forza –lavoro[15], è lasciato solo ad affrontare le conseguenze negative di tale stato di cose. Nei secoli precedenti il lavoro nelle manifatture era periodico; ora il lavoro è abbastanza stabile e consente l’insediamento, di conseguenza si manifesta il bisogno di legare tra loro occupazione e casa. Le opere paternalistiche sono da considerarsi come risposta al problema della stabilizzazione della manodopera, perché, fa notare F. Ramella:
Quando l’industria accentrata cominciò a liquidare l’industria rurale a domicilio, i lavoranti […] continuarono a comportarsi secondo la logica dell’economia famigliare, il risultato fu che gli imprenditori si trovarono a dover fare i conti con una massa di lavoranti non solo estremamente irregolari nel rendimento sul lavoro ma anche grandemente instabili e incapaci di garantire una presenza continuativa in fabbrica[16].
Inizialmente l’industria italiana ottocentesca cercò di sfruttare i vantaggi di una profonda e persistente osmosi con l’agricoltura, che non cesserà mai, anche successivamente con assoluta limpidezza, “ciò si manifesta nella presenza dell’operaio-contadino che permette all’imprenditore di impiegare forza-lavoro periodicamente e a basso costo, contando sull’elemento compensativo rappresentato dal lavoro nei campi e, nel contempo, di disporre di soggetti distanti dalla possibilità di essere coinvolti nei temi della ‘questione sociale’”[17]. Così per L. Guiotto, al principio,
nell’organizzazione del lavoro manifatturiero si privilegia il doppio ruolo di operaio-contadino, sottolineando la continuità del diritto del singolo a gestire tradizionalmente il proprio tempo-lavoro, si creano dei rallentamenti allo sviluppo del processo produttivo, ma è raggiunto lo scopo di creare una falsa coscienza nel lavoratore, sicuro della propria indipendenza morale e totalmente contrario ad accettare l’idea del cambiamento[18].
Il problema imprenditoriale di trasformare lavoranti instabili e fluttuanti, in operai stabili e regolari sarebbe stato successivamente in gran parte risolto “attraverso la crescente dipendenza della famiglia operaia dal salario della fabbrica per vivere, ma la questione andava affrontata nell’immediato, […] con una varietà di strumenti e di iniziative”[19]. Il problema dell’inquadramento operaio fu dapprima affrontato attraverso un sistema di controllo e repressione, “si creano allora vere e proprie forme di autolegislazione interne alla fabbrica, con l’imposizione di norme e leggi, con l’applicazione di pesanti sanzioni”[20], ad esempio quello famoso delle fabbriche Sella (1826) che, come riporta F. Ramella:
prevedeva esplicitamente forme contrattuali che vincolavano il lavorante che entrava in fabbrica, il quale non avrebbe potuto lasciarla di propria volontà per periodi che, di due anni in due anni, avrebbero dovuto rinnovarsi per tutta la vita lavorativa[21].
In un secondo tempo si ricorse alle opere paternalistiche, che andavano dai primi semplici interventi assistenziali, ad interi villaggi operai. “Il presupposto dei cosiddetti ‘villaggi operai autosufficienti’ della prima industrializzazione […], era l’esistenza di una manodopera ‘libera’, […] vale a dire costretta ad abbandonare la comunità di origine e disposta quindi a trasferirsi, andando ad abitare nelle nuove case del villaggio. […] Ciò che muoveva l’imprenditore […] era proprio l’esigenza di assicurarsi una forza lavoro stabile, di cui aveva bisogno in quantità tale da non poterla reperire sul posto”[22]. Nella maggior parte dei casi si costruirono dapprima case operaie a “casermone” e convitti, e congiuntamente si pose subito il problema dei servizi, quindi, solo in un secondo momento, l’insieme venne trasformato, con la costruzione di altri edifici, in un vero e proprio villaggio operaio. Nella val di Lanzo, ad esempio, è stato rilevato da P. Thea come[23] il carattere operaio-contadino della manodopera viene inizialmente conservato; non essendoci l’impellente necessità di case, le prime fabbriche tessili insediate sul territorio non costruiscono quartieri operai, mentre:
c’è il problema di conservare in qualche modo la impermeabilità a stimoli esterni della classe operaia di origine contadina e per questo motivo si costruiscono piuttosto degli enti a carattere assistenziale come asili e convitti destinati soprattutto ai fanciulli e alle donne, che costituiscono la maggioranza della manodopera dell’industria tessile, e sono addetti alla loro formazione morale e spirituale. Così la classe operaia subisce un processo di proletarizzazione mascherato, poiché il lavoro in fabbrica continua a essere concepito come un’integrazione del lavoro agricolo[24].
Nel caso del biellese invece, la costruzione dei villaggi operai si ha a partire dalla prima guerra mondiale [25], solo “in quel periodo infatti sorsero impellenti per l’industria biellese acuti problemi di reperibilità della forza lavoro […] [per] effetto della leva militare sulla popolazione maschile ed insieme la forte espansione produttiva conseguente alle forniture belliche”[26]. Sull’iniziale preoccupazione di dotarsi di una manodopera stabile, disciplinata e rispettosa era destinata a prendere il sopravvento sempre di più la funzione di inquadramento sociale e politico, che finì per rinchiudere gli operai nel quadro unitario della città-fabbrica, concretizzandosi in costruzione di alloggi e servizi. Il villaggio operaio viene allora inteso non solo come risposta al problema della abitazione, ma in relazione alle istituzioni educative e ricreative in esso inserite, attua una funzione di controllo sociale sugli aspetti anche culturali della nuova classe operaia. Alla costruzione fisica esso accompagna, nel nome della produttività, una rifondazione dei modi di vita e di comportamento. L’ambizione è di creare dal nulla l’ambiente sociale ideale per forgiare nuovi comportamenti, consoni alle istanze imposte dalla fabbrica. Riassumendo, come afferma P. Leon:
In un primo tempo le abitazioni padronali sono un’assoluta necessità. Spesso non esiste infatti nessuna possibilità preesistente di sistemazione nelle nuove ubicazioni della grande industria, sorta in aperta campagna […]. Molto presto a ciò si aggiunge […] il desiderio di trattenere una manodopera di cui è nota la tendenza al andarsene continuamente. Infine, l’alloggio diventa l’arma principale di una strategia paternalista che prende largamente piede in Belgio, in Germania e soprattutto in Francia fino all’inizio del XX secolo e che tende ad organizzare la totalità dell’esistenza operaia[27].
[1] PASTORIO L., Il territorio della cotoniera, in: AA.VV., Villaggi operai in Italia, a cura di A. Abriani, Torino, Einaudi, 1981, p. 64. [2] NEGRI A., NEGRI M., L’archeologia industriale, Messina - Firenze, G. D’Anna, 1978, p. 22. [3] DEZZI BARDESCHI M., Archeologia della fabbrica e cultura materiale. Immagine, realtà, destino. in: Patrimonio architettonico industriale, numero monografico di “Restauro”, n. 38 - 39, Napoli, luglio - agosto 1978, p. 46. [4] Si veda la breve descrizione dell’insediamento di San Leucio nella documentazione allegata. L’individuazione di San Leucio come una forma di protoindustrialismo non convince alcuni autori: “A me sembra […] che l’impianto di S. Leucio, e l’organizzazione sociale cui dà luogo, altro non siano che una pratica realizzazione dell’utopia settecentesca dei sovrani riformatori, che poco ha a che spartire con uno sviluppo capitalistico in senso proprio”; [COVINO R., Stato degli studi sull’archeologia industriale in Italia, in: HUDSON K., Archeologia industriale, ediz. italiana accresciuta a cura di R. Covino, Bologna, Zanichelli, 1981, p. 257]. [5] CAPUTO P., L’architettura industriale come asserzione ideologica, in: PIVA A., CAPUTO P., FAZZINI C., L’architettura del lavoro, Venezia, Marsilio, 1979, p. 201. [6] AA.VV., La cassetta degli strumenti. Ideologie e modelli sociali dell’industrialismo italiano, a cura di V. Castronovo, Milano, Franco Angeli, 1986, p. 8. [7] Ivi, p. 9. [8] COVINO R., Stato degli studi sull’archeologia industriale in Italia, in: HUDSON K., Archeologia industriale, ediz. italiana accresciuta a cura di R. Covino, Bologna, Zanichelli, 1981, p. 275. [9] MERLI S., Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale: il caso italiano 1880 -1900, 2 voll., Firenze, La Nuova Italia, 1972 –‘73, p. 86. [10] ABRIANI A., I villaggi operai nell’Italia settentrionale come modello di insediamento, in: “Atti” del II seminario LAU, Gargnano, ottobre 1975, p. 16. [11] PASTORIO L. , Il territorio della cotoniera, in: AA.VV., Villaggi operai in Italia, a cura di A. Abriani, Torino, Einaudi, 1981, p. 68. [12] MERLI S., op. cit., p. 90. [13] RAMELLA F., dalla prefazione a: GUIOTTO L., La fabbrica totale, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 6. [14] CIOCCHETTI A. , L’industria tessile biellese. Indagine su alcuni villaggi operai, in: AA.VV., Patrimonio edilizio esistente - Un passato e un futuro, Atti del convegno, a cura di A. Abriani, Torino, Designers Riuniti, 1980, p. 147. [15] Ed è questo sfruttamento che permette all’industria italiana di fare il salto dalla manifattura alla grande industria. Si veda: MERLI S., Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale: il caso italiano 1880 - 1900, 2 voll., Firenze, La Nuova Italia, 1972–‘73. [16] RAMELLA F., Dall’industria rurale a domicilio alla manifattura e alla fabbrica: lavoranti ed imprenditori nel Biellese dell’800, in: AA.VV., Patrimonio edilizio esistente - Un passato e un futuro, Atti del convegno, a cura di A. Abriani, Torino, Designers Riuniti, 1980, p. 124. [17] BAGLIONI G., L’ideologia della borghesia industriale nell’Italia liberale, Torino, Einaudi, 1974, p. 104. [18] GUIOTTO L., La fabbrica totale, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 23. [19] RAMELLA F., op. cit., p. 125. [20] GUIOTTO L., op. cit., p. 39. [21] RAMELLA F., op. cit., p. 127. [22] RAMELLA F., op. cit., p. 132. [23] Si veda: THEA P., Aspetti dello sviluppo industriale in val di Lanzo, in: AA.VV., Patrimonio edilizio esistente - Un passato e un futuro, Atti del convegno, a cura di A. Abriani, Torino, Designers Riuniti, 1980. [24] Ivi, p. 101. [25] Il villaggio operaio “Giovanni Agnelli”di Villar Perosa è dello stesso periodo. [26] CIOCCHETTI A., L’industria tessile biellese. Indagine su alcuni villaggi operai, in : AA.VV., Patrimonio edilizio esistente - Un passato e un futuro, Atti del convegno, a cura di A. Abriani, Torino, Designers Riuniti, 1980, p. 147. [27] Storia economica e sociale del mondo 4 - il capitalismo 1840 - 1914, a cura di P. Leon, Bari, Laterza, 1980, p. 450.
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