I. 4.   Le esposizioni universali

 

Le esposizioni universali nel secolo XIX contribuirono a facilitare ed innescare lo scambio culturale tra i diversi Paesi partecipanti. Esse rappresentarono per gli architetti l’occasione per vedere vicine forme e modelli costruttivi e distributivi che solo una lunga frequentazione di riviste, scuole e città avrebbe consentito. 

Il tema della casa popolare, era divenuto argomento di interesse popolare con la prima esposizione internazionale di Londra del 1851, nella quale compariva anche un settore destinato alle case per operai, e dalla quale tutta una documentazione si era messa a circolare sulla scena internazionale, amplificata e sempre più dettagliata.

 

 

               Fig. I. 20.   La casa operaia modello disegnata dal principe Albert ed esposta a Londra nel 1851.

 

Il prototipo di casa operaia a “villino” realizzato per l’esposizione di Londra del 1851, disegnato dall’architetto Henry Roberts, rappresentava un ottimo riferimento per l’elevazione dello standard abitativo con contenimento dei costi. La scala era posta anteriormente, e il balcone in facciata disimpegnava quattro unità famigliari. Il prototipo poteva essere congiunto in linea a un numero indefinito di analoghi corpi di fabbrica. Le scelte tipologiche proposte comprendevano:

 

Camere da letto separate e quelle dei figli sorvegliabili dal soggiorno mentre la madre lavora, camere con ingresso autonomo. I muri sono in mattoni forati per ottenere una buona coibenza, i solai sono in laterizio e ferro resistenti al fuoco, la copertura è livellata con pietra pomice coibente, si studia il controllo acustico, griglie di ventilazione garantiscono i ricambi d’aria; si usa intonaco francese, cemento portland e conci dello Staffordshire per i solai, si propone anche l’arredo. I costi di produzione sono ridotti e il reddito sul capitale investito è previsto del 7%[1]

 

All’esposizione universale di Parigi del 1867 venivano presentati gli esempi recenti, tra quelli francesi, Moulhouse suscitava i maggiori consensi. Intanto, i départements inviavano all’Esposizione delegati operai che “contribuivano, per ogni categoria, a redigere rapporti a stampa sulle loro condizioni, sulle loro esigenze […] (dal 1867 al 1869). Dall’Esposizione del 1867 si sviluppava così una prima inchiesta sul settore delle case operaie e si rendeva noto l’elenco di tutte le iniziative del settore.”[2]

 

 

               Fig. I. 21.   Case operaie in cemento, presentate da Shepard e Newton all'Esposizione di Parigi 1867.

 

Il potenziale divulgativo delle esposizioni è dimostrato nel caso dell’industriale Alessandro Rossi, che di ritorno dalla esposizione internazionale di Parigi, pubblicò nel 1867 la Lettera agli industriali italiani dove “compare per la prima volta la tesi dell’industrializzazione come fattore necessario dello sviluppo economico e civile della società nazionale”[3].

Organizzatore dell’esposizione universale del 1867 fu Frédéric Le Play [4], personaggio centrale della definizione del campo di intervento del nuovo tecnico ottocentesco: l’ingegnere igienista. Il centro dell’elaborazione dei suoi scritti risiede nel tentativo di conciliare il mantenimento dell’ordine sociale e le nuove forme di attività economica, il suo è un conservatorismo risultato dalla mediazione fra un richiamo reazionario a tipi di vita ancestrali autoctoni, e le nuove necessità produttive dell’industria moderna, proponendo che alcune tracce del passato restino, come fase di transizione, perché sia meno traumatico il contatto con le nuove forme del produrre e dell’abitare. 

Lo strumento chiave di questa integrazione, accessorio indispensabile, doveva essere l’orto produttivo.

Trent’anni dopo, nel 1905, un ingegnere igienista italiano, E. Magrini cita nei suoi scritti la casa a buon mercato esposta dall’architetto Stanislao Ferrand all’esposizione universale di Parigi del 1867:

 

Formata di una carcassa di ferro riempita con dei mattoni: questa casa era molto ampia, aveva il solo piano terreno, e costava 3000 lire. Però questo prezzo è abbastanza alto per la ragione che la casa venne costrutta all’interno dell’Esposizione: quando invece il Ferrand costrusse case identiche a Choisy le-Roi, allora ciascuna casa venne a costare circa 2000 lire[5].

 

 

    Fig. I. 22.   Casa a Choisy progettata da S. Ferrand.

 

Il tema delle case operaie continuò ad essere trattato nelle esposizioni successive: Amsterdam (1862), Vienna (1873), Bruxelles (1876), Parigi (1878), Londra (1885), Parigi (1889). In occasione di quest’ultima esposizione, si tenne il Congresso per le abitazioni a buon mercato, in cui vennero descritte le caratteristiche delle città operaie:

 

Vicinanza al luogo di lavoro (diretta o garantita da mezzi pubblici forniti dall’industriale o dal municipio), affitto commisurato al salario (non si doveva superare il sesto del salario), salubrità, meglio garantita con case separate o accoppiate dotate di orto-giardino, oppure anche da case collettive, che avessero degli schemi tali da comportare il “minimo contatto” fra gli abitanti (con disimpegni che dovevano essere in piena luce, come prolungamenti della strada), dotazione di cucina e latrina interna, tre locali per ogni famiglia con più di tre persone (per consentire la separazione dei sessi); indipendenza assoluta del locatario e della sua famiglia, in un tessuto formato da villaggi a scarsa densità edilizia[6].

 

Ancora all’esposizione universale di Parigi del 1900 un vasto settore viene dedicato all’esposizione di case operaie. L’esposizione parigina è usata come pretesto per il quinto Congresso internazionale degli architetti che si svolge dal 9 luglio al 4 agosto 1900. Tra i temi trattati c’è  la casa operaia, ma in questo caso il congresso “non discute più di prototipi o di specimen-types, ma confronta esperienze ormai consolidate. […] Il Congresso riprende la discussione tenuta al secondo congresso internazionale delle habitations à bon marché del 1897, mettendone in luce quanto ormai erano distanti le utopie fabiane o le politiche paternalistiche che avevano animato la presentazione di case operaie tipo, sin dall’Esposizione del 1851”[7] a Londra. 

E. Magrini, nel suo manuale sulle abitazioni popolari, riporta, pochi anni dopo, le norme dettate al Congresso di Parigi del 1900, secondo le quali:

 

Il tipo di casa la più completa comprenderà: 

-        Una cucina;

-        Una sala da pranzo;

-        Tre camere da letto;

-        Un granaio al di sopra delle camere da letto;

-        Un deposito di legna;

-        Una cantina;

-        Una latrina.

Questo tipo, che rende necessario un affitto di circa 280 lire, sarà conveniente per una famiglia non avente che cinque o sei figli[8].

 

Per finire con un esempio italiano, si riporta quanto venne scritto da G. Romussi all’epoca dell’esposizione italiana di Torino del 1884[9], riguardo al progetto presentato per un nuovo quartiere di case popolari a Milano nell’area dell’ex stazione ferroviaria di Porta Tosa:

 

Il quartiere ha davanti una strada di circonvallazione confortata da alberi. Ai lati le due vie Sottocorlane […] e Marconi […] nel mezzo vi è un corso principale, anche questo ombreggiato da alberi […] che misura 500 m di lunghezza […]. A metà vi è una fontana; nel fondo un giardino pubblico. La disposizione delle strade dà un’idea del falanstero; ma gli autori del progetto furono introdotti a questa forma dal pensiero di avere nelle strade e nelle case una buona ventilazione […]. L’area è di metri quadrati 100 mila: le strade, le piazze e il giardino pubblico, occupano 40 mila metri […]. Gli altri 60 mila sono così divisi: 35 mila per le casette da vendersi, 15 mila per le case di affitto a tre piani superiori, e 10 mila per gli edifici a servizio pubblico. In questo progetto […] sono esclusi affatto i grandi casamenti che […] fecero sempre e dovunque mala prova, benché siano i più economici, ma nei quali l’eccessivo contatto fra molte famiglie nuoce alla buona armonia, alla pulizia e quindi all’igiene; e neppur si attenne alle casette affatto segregate come ché troppo costose e perché tendono a rendere l’operaio poco socievole. Dunque […] qualcosa di meglio combinato, affinché all’infuori della vita intima della famiglia siano l’unione dei cuori che crea lo scambio di idee e di ajuti […] [:] le casette allineate a schiere, ciascuna col proprio giardino, affatto indipendenti fra loro, ma a gruppi, con un cortile comune. […] Intorno al piazzale centrale sono disposti gli Asili d’infanzia, le scuole elementari e la Scuola professionale che può servire anche come […] Ricreatorio festivo. All’estremo limite del quartiere […] si impiantarono i lavatoi e i bagni […] e […] le cucine economiche e i magazzini cooperativi nella piazza centrale […]. Per tutti questi edifici di educazione, previdenza e igiene […] si assegnarono 10 mila metri[10].

 

 

       Fig. I. 23.   Il nuovo quartiere delle case operaie di Milano, esposte a Torino nel 1884.

 

 


[1] L’arte di edificare: manuali in Italia 1750 - 1950, a cura di C. Guenzi, BeMa, Milano, 1981, p. 26.

[2] Ivi, p. 80.

[3] LANARO S., Ideologia del blocco corporativo-protezionista, “Ideologie: quaderni di storia contemporanea”, n. 2, Roma, 1967, p. 54.

[4] F. Le Play, cattolico, si forma all’Ecole Polytechnique, ed è professore per anni all’Ecole des mines, consigliere di Stato, senatore dal 1867 al 1870; nel 1856 crea la Société d’économie sociale. Nel 1864 pubblica La réforme sociale en France.

[5] MAGRINI E., Le abitazioni popolari. Case operaie, Milano, Hoepli, 1905, p. 232.

[6] Citate in: 

GABETTI R., Seconda Metà dell’Ottocento, in: AA.VV., Villaggi operai in Italia, a cura di A. Abriani, Torino, Einaudi, 1981, p. 10.

[7] AIMONE L., OLMO C., Le esposizioni universali 1851 - 1900,: il progresso in scena, Torino, Allemandi, p. 98.

[8] MAGRINI E., Le abitazioni popolari. Case operaie, Milano, Hoepli, 1905, p. 244.

[9] E’ pertinente, al fine di questo lavoro, accennare che Giovanni Agnelli visitò quasi sicuramente questa esposizione di Torino. Si veda a proposito: GALLI G., Gli Agnelli. Una dinastia un impero 1899 - 1998, Milano, Mondadori, 1997, p. 28.

[10] ROMUSSI G., Le case operaie a Milano, in: L’esposizione italiana del 1884 a Torino, dispensa n. 14, Milano, E. Sonzogno, 1884, pp. 105 - 107.