La nascita e lo sviluppo dei villaggi operai in Europa, specie quelli che si raccolgono attorno ad un’unica attività industriale e nel nome di un capitalista titolare, seguono una loro vicenda che “si caratterizza in modo peculiare, sia rispetto a tutto il grande fervore di iniziative per l’edilizia popolare che percorre l’Ottocento quasi come motivo dominante, […] sia rispetto all’antichissima teorizzazione di comunità ideali, […] immaginate come costituite da individui omogenei, solo apparentemente differenziati.”[1] L’esperienza del villaggio operaio si pone tra la politica statale, l’utopia e le città - giardino[2]. L’intervento pubblico si impone in occidente, a partire dal XIX secolo, di fronte ai nuovi problemi della città, all’interno della quale il problema della casa è affrontato essenzialmente con interventi del comune, di cooperative di costruzione, e con l’iniziativa governativa. Alla base dell’utopia troviamo il disordine indotto dalla nuova civiltà industriale, al quale la letteratura utopica risponde con la propria aspirazione all’ordine. “Fra i due termini, dell’utopia e dell’intervento pubblico, si situa il fenomeno dei ‘villaggi operai’ (città operaie, colonie operaie, et sim)”[3] da distinguersi ulteriormente dalla città - giardino. Il villaggio operaio si caratterizza in modo peculiare, ma nello stesso tempo, sostiene A. Abriani: rappresenta la fenomenologia di connessione ed è, senza dubbio, la struttura di mediazione tra la utopia e la risoluzione di massa dei problemi socio - urbani indotti dai processi produttivo - industriali. La proliferazione dei villaggi aziendali per tutto il corso dell’ottocento corrisponde a una fase intermedia dell’organizzazione del sistema capitalistico - industriale in termini di produzione e di gestione (e uso) del territorio[4].
L’esperienza europea dei villaggi operai si colloca, infatti tra la prima fase dell’industrializzazione finalizzata all’esclusiva massimalizzazione dei profitti e una successiva, tra la seconda metà dell’800 e inizio ‘900, in cui i ruoli tra capitale e potere politico, imprenditori e governo centrale o locale sono più definiti, in cui stato e organi di governo locale sono sempre più complici o strumenti del capitale privato nei processi di organizzazione socio-produttiva, sollevandolo dall’onere della riproduzione, manutenzione, controllo e gestione della forza lavoro con misure dirette, quali l’edilizia residenziale e i servizi pubblici, o con istituzioni e organizzazioni parallele[5]. I villaggi operai europei costruiti verranno successivamente descritti e portati ad esempio dai numerosi manualisti italiani dalla fine dell’800. Di seguito verranno rapidamente analizzati i principali villaggi industriali nel secolo XIX in Europa[6].
Il dibattito sull’abitazione operaia si ebbe inizialmente in area anglosassone. Origini e sviluppi dei villaggi operai sono interessati da un insieme di studi sul cottage, “in essi più che mai venne affermata la bontà della soluzione della casetta unifamigliare con orto”[7].
La strategia di intervento considerato ottimale era quella del cottage a tre stanze costruito in periferia dove le aree erano meno costose. Era soprattutto sul tema del cottage e su tutte le sue possibili variazioni in pianta, […] in alzato, […] i diversi tipi di lotto e i diversi posizionamenti dell’edificio nel lotto stesso, la forma dell’orto - giardino, gli affacci […] che si esercitavano manuali e trattati nonché le riviste consacrate alla questione delle abitazioni[8].
Con lo sviluppo delle industrie nelle vicinanze delle fonti di energia o nei luoghi di reperimento della materia prima, gli strati più bassi dei lavoratori agricoli cercano di permanere in campagna dove nasce la tipologia edilizia delle future città operaie. “Il fiorire in quegli anni di un vasta pubblicistica sul tema dei cottages documenta la trasformazione strutturale in atto in Inghilterra concomitante al movimento di riforma della agricoltura connesso alle ‘enclosures’, alla vendita dei beni comunali e alla realizzazione di campi”[9]. Fin dal 1781 John Wood il giovane aveva pubblicato A series of plan for cottages or habitations of the labourer, e nel 1849 - 50 C. Bruce Allen pubblica a Londra il suo trattato per la costruzione di cottages per i lavoratori indigenti: “di taglio paternalistico, l’opera vuol essere una prima risposta alla condizione della classe operaia che si va formando in Inghilterra come risulta dalle numerose inchieste [di quegli anni]. I tipi di cottages proposti sono dunque un rimedio e favoriscono la emancipazione di classi diseredate nelle nuove periferie urbane, […] [affidandone la costruzione all’imprenditore] ricco e caritatevole”[10]. Nel 1850 H. Roberts, nel testo sulle abitazioni delle classi operaie, presenta una raccolta di progetti di cottages generalmente a blocchi di due, dove però con cura è stata evitata la comunicazione delle due famiglie ponendo le porte d’ingresso alle due estremità, con il camino al centro.
Ogni abitazione è composta di una stanza in comune di 45,75 mq; di un vano ad uso cucina e dispensa, da 18,30 a 21,35 mq, le camere da letto, in conformità con il principio della separazione dei sessi, tanto necessario alla moralità e alla decenza, sono in genere tre, ognuna con proprio ingresso. Quella dei genitori è di circa 30 mq e quelle dei bambini in media da 21 a 24 mq[11].
Il problema del tipo di casa popolare da preferire vedeva da parte della trattatistica specializzata, prevalere un tipo rispetto ad un altro a seconda delle tradizioni urbane nazionali. M. Scolari rileva che:
Nell’Europa centrale e occidentale, Germania, Belgio, Paesi Bassi, Francia centro-settentrionale ed Inghilterra il punto di partenza delle costruzioni cittadine era […] la così detta “casa a tre finestre” (circa 5 metri di fronte stradale, sviluppatesi su di un lotto allungato) caratteristico dell’edilizia gotico- mercantile. Invece la popolazione urbana della Francia centrale e meridionale, degli altri paesi latini, della Germania nord-orientale e centrale, della Svizzera, Austria, Ungheria e Russia era insediata prevalentemente in grandi case d’affitto. Tuttavia sarebbe difficile indicare una linea di confine precisa […] [tra le due aree]. […] E’ invece importante rilevare […] che […] il nuovo periodo dell’edilizia seguito alla rapida crescita delle città ed alla diffusione delle forme costruttive, agì da livellatore nella configurazione esterna dell’edilizia residenziale nei vari stati ed all’interno di ogni singolo stato. E’ così possibile riscontrare in diversi paesi la diffusione di certe tipologie di abitazione che forzano le tradizioni tipologiche locali. per collegarsi a quella modellistica che la trattatistica europea aveva diffuso[12].
Cronologicamente, ancor prima degli scritti utopici, ci fu la prassi dei numerosi capitani di industria inglesi che costruirono villaggi operai dalla fine del sec. XVIII, per attrarre la manodopera necessaria al funzionamento delle fabbriche e per garantirne la stabilità. Uomini in grado di guardare lontano in un periodo di rapido cambiamento sociale ed economico, in una fase di eccezionale sviluppo dell’industria tessile, che però richiedeva una nuova disciplina di lavoro per maestranze che avevano abitudini, attitudini e mentalità preindustriali. Nei fondatori britannici il dualismo città - campagna è sempre presente, e sono particolarmente sensibili all’esigenza di coniugare, in un ordinato assetto urbanistico, industria e agricoltura, forse anche perché avevano sotto gli occhi, più di quanto potesse accadere in qualsiasi altro Paese europeo, le conseguenze dello sviluppo urbano - industriale. Con New Lanark (1784) di Robert Owen, Styal di Samuel Greg (dal 1784) e numerosi altri casi[13], “i fatti hanno preceduto le teorie, e […] le teorie hanno provveduto alla precisazione e divulgazione di una direttrice aperta alla prassi, salvaguardandone i significati sociali e civili e le possibilità di dinamica progressiva”[14]. A. Vidler fa notare come in queste prime realizzazioni:
I veri architetti furono i proprietari e gli impresari […] nel momento in cui essi ritennero di isolare e domare la loro eterogenea a recalcitrante forza lavoro, dapprima con la brutalità e il controllo poliziesco e, successivamente, con soluzioni sociali ed ambientali più raffinate. In tal modo la serie di progetti per l’edificio sociale che vanno da New Lanark fino a Saltaire fu concepita, non da architetti, ma da una nascente classe dirigente[15].
Il caso inglese più noto è il villaggio operaio di Saltaire (1851) dell’industriale laniero Sir Titus Salt.
Fig. I. 11. La fabbrica e il villaggio di Saltaire.
L’impianto elementare, che farà da modello per i villaggi operai successivi, era formato da circa ottocento case e da un insieme di servizi quali la scuola, l’ospizio, bagni pubblici, lavanderia, parco pubblico e chiesa, inframmezzati da alcune piazze alberate che rendevano l’insieme più variato. Fabbrica e residenze erano divise dalla linea ferroviaria, e dal parco. Sul versante destro erano posti i servizi. I nastri di maggior traffico tenuti sul perimetro, e la rete viaria interna all’abitato era loro ortogonale. Saltare è un esempio di villaggio privato, dove “l’utopia non è progressiva, ma mira alla stasi, ricreata attraverso la dimensione arcaica del paese, in cui si cristallizza la quiete del contratto sociale, la pace della comunità ordinata e gerarchizzata”[16]. Bourville (dal 1895) dell’industriale G. Cadbury era invece il risultato di concetti più evolutivi di quelli che avevano dato vita a Saltare. Infatti Bourneville era intesa a rappresentare un vasto esperimento nella progettazione comunitaria, nella quale dovevano essere compresi lavoratori di qualsiasi categoria, lo conferma il fatto che più tardi circa il 50% della popolazione non lavorava alle dipendenze della Ditta Cadbury.
Fig. I. 12. Bourville nel 1887; il terreno pertinente all'opificio dei fratelli Cadbury è contrassegnato con la punteggiatura, il terreno acquistato per poter costruire la nuova città è delimitato dalla linea continua.
In seguito Cadbury rinunciò ad avere qualsiasi personale interesse finanziario nell’impresa, trasferendo la proprietà di terreni e case a un Ente indipendente chiamato Bourneville Village, con clausole atte a garantire che tutti gli utili sarebbero stati impiegati per portare delle migliorie al villaggio e per ampliarlo con la sostituzione dell’industriale illuminato alla Corporations e dell’Ente indipendente con le Local Authorities. Dello stesso periodo è anche Port Sunlight (1888 della ditta Lever). In questo caso il rapporto villaggio-industria era strettissimo e Port Sunlight “anzichè essere come Bourville un tentativo per dare una risposta pratica ai problemi logistici delle grandi città, era piuttosto un ampliarsi […] delle attività in campo organizzativo di una industria in sempre crescente sviluppo”[17]. Intanto nel secolo XIX si era venuta lentamente elaborando in Inghilterra una legislazione sul problema della casa popolare. Prima con una legge del 1836 sulle anticipazioni alle società edilizie poi con una serie di leggi emanate fra il 1874 e il 1904 venne sancito il principio di considerare la casa popolare come un servizio pubblico, e dopo il 1883, anno di fondazione della Society for Promoting the Industrial Villages, si ebbe la tendenza a fondare centri residenziali con capitali diversi da quelli del proprietario della fabbrica che avrebbe dato lavoro agli operai. Le leggi operavano in due direzioni principali: risolvere il problema del risanamento delle case operaie (1890) e rendere l’operaio proprietario della casa e di un appezzamento di terreno, impegnando l’Autorità locale ad anticipare quasi per intero il capitale necessario (1899). “Un simile indirizzo legislativo favoriva evidentemente la costruzione di case singole ad uno, due, tre o quattro appartamenti, il cui frutto più alto sarebbe stata la teoria e la realizzazione delle città giardino”[18].
In Germania si ha l’esperienza più vasta, quella degli industriali Krupp a Essen. Le colonie operaie Krupp, i cui lavori di costruzione iniziarono nel 1870, contenevano nel 1910 46.000 persone in cinque città satelliti attorno all’impero degli industriali dell’acciaio. Le case per operai Krupp sono inizialmente edifici a tre piani per consentire economie sui suoli, situati in uno spazio verde e in una maglia regolare. Solo successivamente per le colonie venne adottata la tipologia a casette sotto l’influsso inglese. I Krupp organizzano interamente la vita dei loro operai, offrendo loro:
un sistema di assicurazioni contro le malattie, ospedali, previdenze, ospizi, […] strutture per il tempo libero, la cultura, per la formazione professionale. […] Le abitazioni sono riservate agli operai specializzati e in caso di licenziamento vanno restituite entro due settimane […]. Nel 1898 è aperta, per tutti, una sala di pubblica lettura, da cui Krupp esige però siano banditi i testi di carattere politicizzato e di contenuto “agitatorio”.[…] [Per contro] non vi era disoccupazione, non vi erano scioperi, la famiglia Krupp attuava completa e utile occupazione e completo controllo[19].
Fig. I. 13. Piano di Margarethen-hohe, villaggio operaio per 16.000 abitanti costruito dal gruppo Krupp nei dintorni di Essen nel 1912.
S. D. Squarzina ricorda che in questi ultimi anni la letteratura è critica a proposito degli insediamenti promossi dai Krupp, in quanto vede:
nel potere neofeudale esercitato da Krupp presagi della mistica nazista di sangue e zolla; […] una partecipazione fittizia alla cultura borghese concessa all’operaio tolto dalla campagna, surrogato di una reale emancipazione attraverso la partecipazione effettiva alla vita sociale e produttiva[20].
Fig. I. 14. Tipo di casa operaia “Krupp” a quattro alloggi su due piani.
In Belgio, l’esperienza più nota è il Grand Hornu, fondato nel 1822 da Henry de Gorge Legrand, industriale carbonifero. Il complesso ha un impianto ellittico, analogo al progetto di Claude-Nicolas Ledoux per le Saline di Chaux in Francia in modo tale da sottolineare “la centralità delle officine rispetto al villaggio e al territorio carbonifero”[21]. All’inizio del secolo, Henry de Gorge compra una miniera che andava in rovina presso Hornu. Allo scopo di mantenere sul posto la manodopera necessaria affida a Bruno Renozal il progetto della sua città operaia: 425 case, provviste di acqua calda, allineate su strade di 12 metri di larghezza, piazze alberate ed edifici pubblici. Le case di Grand Hornu rispondono a criteri scientificamente stabiliti di ordine, di igiene, di luminosità. A. Vidler parla di:
Case definite come prototipi la cui serialità corrisponde ad una logica funzionale espressa in disposizioni simmetriche. Esse costituiscono anche […] lo strumento diretto di un controllo sociale a tutto vantaggio del “padrone - fondatore-padre”[22].
Fig. I. 15. Città operaia di Grand Hornu (1822).
In Francia, a differenza del caso inglese, furono gli architetti ad elaborare le forme di pianificazione industriale al servizio dei grandi monopoli di stato. La prima fabbrica ad essere interamente concepita, progettata ed eseguita da un architetto illuminista furono le Salines Royales di Chaux, commissionate nel 1773 a Claude Nicolas Ledoux e entrate in funzione circa sei anni più tardi. Le Salines insieme a San Leucio vicino a Caserta sono anticipazioni settecentesche del fenomeno della pianificazione totale tipico dell’800. Va però detto che hanno matrice economica diversa sorgendo intorno a industrie di stato. “L’idealizzazione del tracciato urbano, presente in entrambi i centri se da una parte si collega alla ricca e lunga tradizione storica del […] simbolismo cosmico a servizio del trionfalismo dinastico, dall’altro mira ad esplicare la ‘democraticità’ della struttura sociale e produttiva”[23], una simbologia urbanistica che sarà ripresa nei villaggi operai in cui rispecchia un potere padronale che riproduce su diversa scala vecchie forme di sudditanza rurale. Lo scopo per la quale le saline furono progettate, la manifattura del sale, che richiedeva una complessa divisione del lavoro con un meticoloso meccanismo di direzione e supervisione, e la natura estremamente preziosa del prodotto determinarono “accorgimenti atti a garantire una chiusura e difesa dal mondo esterno, formando contemporaneamente un primitivo insediamento produttivo e proponendo i mezzi per una integrazione totale della vita dei lavoratori entro le strutture della produzione[24]”. Inoltre, Ledoux era allievo di F. Blondel, per il quale aveva assunto particolare significato il concetto di carattere, cioè il modo in cui ogni tipo di edificio denunciava sé stesso per ciò che era. In tal modo un edificio poteva svolgere un ruolo positivo nella società, specialmente se la costruzione confermava la esistenza di una istituzione essa stessa essenziale alla felicità morale e spirituale. Di conseguenza dovevano essere determinati con molta attenzione “il carattere di una prigione, di un ospedale, di una scuola, di una fabbrica - i tipi emergenti dell’ordinamento sociale - […]. La pianta della fabbrica, la forma e il significato della produzione divennero molto concretamente il modello per tutte le altre forme di controllo istituzionale[25]”. Nel progetto delle saline venivano così enunciati, per A. Vidler, i principi fondamentali per la progettazione della comunità produttiva:
Il controllo del lavoratore attraverso l’assidua sorveglianza alla continua attività; il tentativo di coinvolgere tutta la vita del lavoratore e della sua famiglia nel lavoro e nello svago e di costringere la sua abilità in una rigorosa routine e la efficiente pianificazione delle stesse tecniche di produzione[26].
La pianta del complesso era semicircolare, con la casa del direttore posta in posizione centrale, insieme alla cappella, per rafforzare il controllo secolare con quello religioso. La casa del direttore costituisce dunque il centro ottico e geometrico dell’intero impianto ed è situata tra i due stabilimenti di lavorazione, collegati fra di loro con un corridoio che passa sotto di essa. Allineati lungo il semicerchio stesso ed affacciatesi sul cortile centrale si trovavano prima le residenze degli operai e quindi gli edifici per i fabbri, i ramaioli con i relativi magazzini officine e ambienti di soggiorno e, sul fronte opposto, prospiciente la casa del direttore, una portineria, una cisterna, un panificio, una sala per le attività giudiziarie, una prigione e un corpo di guardia, Tra questi edifici e la circostante cinta muraria c’erano gli orti degli operai che, insieme al salone comune al centro di ciascuna dimora, servivano a tenere lontano dalle distrazioni la forza lavoro durante il tempo libero. Gli elementi della salina erano in tal modo “separati in unità funzionali suscettibili di diverse caratterizzazioni planimetriche e capacità espressive individuali in accordo con le loro specifiche caratteristiche […] [mentre] la forma semicircolare permetteva a ciascuna parte di essere elemento costitutivo di un tutto”[27]. La salina rimase in funzione fino al 1895 anno in cui venne chiusa ed essa rappresenta una tangibile rappresentazione dell’assolutismo reale anche se il suo creatore ha cercato di sfumare questa impressione attraverso una manipolazione dei progetti iniziali, come nell’idea di completare il semicerchio del complesso in un cerchio intero.
Fig. I. 16. C. N. Ledoux: città ideale a Saline de Chaux, secondo progetto, 1770 circa.
Nel secolo XIX in Francia le industrie che hanno voluto dare una qualche, anche se parziale, soluzione al problema dell’abitazione dei loro operai sono di media dimensione, nessuna è situata in una città grande, e molte scelgono la soluzione della casetta con giardino. S. D. Squarzina afferma che:
La formula della “caserne”[trad. caserma] è consigliata solo per scapoli, o zitelle in alternativa ai dormitori con mensa comune; le case con giardino sono sovente raggruppate a formare delle comunità, talvolta quartieri periferici di piccole città, talaltra veri e propri villaggi[28].
La prima città operaia parigina venne fatta costruire da Luigi Napoleone Bonaparte: la Citè Napoleon, che fallì perché gli operai emigrarono, essendo persuasi che l’abitarvi significasse essere sotto il costante controllo della polizia, ma l’azione governativa francese continuò destinando 10.000.000 di franchi nel 1852 per il miglioramento delle abitazioni operaie nelle grandi città. Così l’intervento pubblico delle municipalità per la prima volta non si limita solo alle abitazioni di carattere economico e popolare, ma comprende “tutte quelle forme di assistenza e di servizi sociali che si rendono necessarie in seguito al fenomeno dell’inurbamento. L’albergo dei poveri, le cucine economiche, i bagni pubblici, il nido d’infanzia e la scuola elementare, gli istituti per l’insegnamento dei mestieri, il carcere, ecc., sono tutti edifici pubblici che vengono inventati o reinventati tipologicamente nel XIX secolo […] si può dire che non esista edificio di pubblica utilità che non trovi un suo nuovo significato”[29]. Tra gli esempi francesi più noti c’è il villaggio operaio di Noisel, interamente concepito per l’industria della cioccolata Menier (1862), con le villette date in affitto agli operai, senza possibilità di riscatto, e quello di Mulhouse (1853 - 1858). A Noisiel, per la prima volta in Francia, gli edifici industriali sono ordinati ed integrati per seguire il processo di fabbricazione. Il villaggio operaio è posto vicino, su un terreno pittoresco di circa 3 ettari, è attraversato da strade di 10 metri di larghezza, fiancheggiate da abitazioni separate tra loro da un giardino di 22 metri tra i due locatari. Le costruzioni sono disposte […] in modo che quelle sul lato destro della strada si affacciano sui giardini che separano le case sul lato sinistro, creando una vista gradevole e una migliore circolazione dell’aria. Le case sono isolate e a due alloggi indipendenti ciascuna. Ogni alloggio ha accesso indipendente dal giardino, dove i bambini possono giocare senza uscire sulla strada, è dotato di cucina con forno, di un water closed, che chiuso e ben aerato, è collegato ad una canalizzazione sanitaria che sfocia a 2 km di distanza per l’utilizzazione agricola[30].
La concezione del villaggio di Noisel “esclude ogni evoluzione e ogni iniziativa individuale. I ruoli sono definiti e la gerarchia intoccabile”.
Menier gestisce il tempo complessivo dei suoi operai, in un insediamento che è prodotto dal mito del villaggio tradizionale come quadro ideale per il benessere morale e fisico dell’operaio:
Noisel mette insieme tutti gli elementi costitutivi del villaggio tradizionale: le piazze, i caffè, la chiesa, abitazioni semindividuali, ecc. che […] sono […] organizzati per decisione autoritaria lungo assi gerarchizzati che strutturano il villaggio rigidamente. […] Il villaggio è organizzato lungo l’asse principale che va dall’entrata alla fabbrica all’ospizio (vita e morte del lavoratore). Le sue abitazioni, tutte uguali, raggruppate a due a due, sono ripartite lungo l’asse centrale a due assi paralleli orientati verso la fabbrica. Così si definisce un’organizzazione autoritaria nella quale ogni abitante viene considerato come un elemento qualunque della macchina, uguale agli altri. […] L’uniformità isola gli individui gli uni dagli altri. […] Dal momento che Ménier è sindaco, la piazza del villaggio è senza municipio, […] si raccoglie invece attorno ad un giardino, e vi fanno capo altri due assi complementari, i due caffè, […] la cooperativa e la scuola. La chiesa e il castello di Emile Mènier situati in disparte, su di un’altura al di fuori di quel sistema assiale, riproducono lo schema feudale del potere localizzato fuori dal villaggio e dominante i soggetti sottomessi[31].
Mulhouse, prototipo celebre per almeno tutto l’Ottocento, aveva di nuovo il fatto che l’iniziativa era partita dall’associazione degli industriali locali: la Société Mulhousienne des citée ouvrières, costituita il 30 novembre 1853, che imitava nelle villette il modello di casa operaia fatto realizzare dal Principe Alberto per l’esposizione universale di Londra del 1851.
Fig. I. 18. Abitazioni operaie di E. Muller a Mulhouse, 1860.
Il villaggio di Mulhouse venne progettato dall’ ingegnere Emile Muller che progettò a tal fine il primo prototipo di casetta a due alloggi accostati, a uno o due piani fuori terra, di pianta quadrata, tagliata a metà da un muro divisorio a tutta altezza, che divideva due alloggi accostati, ciascuno con tre arie, e un orto-giardino proprio. Attraverso le case che “venivano date a riscatto (in un tempo di quindici anni) agli operai, che pagavano, con gli interessi, circa 4500 franchi per una casetta che inizialmente costava 3300 franchi”[32], si raggiungeva il duplice scopo di legare l’operaio al posto di lavoro garantendo contemporaneamente la redditività dell’operazione[33].
Anche fuori dall’ambito europeo ci furono compagnie industriali, minerarie, etc., che per assicurare l’alloggio al loro personale amministrativo ed operaio costruirono città operaie. Queste compagnie provvedevano nel contempo all’acquisto del terreno, alla sua sistemazione, alla costruzione degli edifici commerciali e residenziali, alla riscossione degli affitti. Si trattava di piccole città o quartieri autosufficienti in diretto rapporto con le industrie che provvedevano in sostanza alla completa vita sociale degli operai ed avevano, ovviamente tendenza a formare un complesso civico ristretto. In generale i risultati furono poco incoraggianti; come la Model labour town, costruita dall’industriale Pulmann nell’Illinois o Salt Lake City nell’Utah, o Kohler nel Winsconsin .
Fig. I. 19. Il piano generale del villaggio di Pulmann nell'Illinois, 1880.
La città di Pulmann come modello ebbe breve vita, la sua decadenza ebbe origine dal lungo sciopero dei dipendenti del 1894, in seguito ai grandi scioperi di Chicago degli anni precedenti. Il caso di Pulmann rimane comunque interessante per l’attenzione che venne data all’aspetto esteriore della cittadina, e alla sua divulgazione, perché, come sostiene O. Selvafolta, nella logica dell’investimento finanziario:
“L’estetica” assumeva un valore commerciale e come tale doveva applicarsi, oltre che alle residenze dei lavoratori, al luogo di lavoro cui era delegata la funzione di trasmettere l’immagine aziendale. […] Promuovere l’efficienza produttiva e divulgare l’immagine della fortuna aziendale, erano del resto obiettivi necessari in un’epoca in cui la concorrenza […] esigeva forme sempre nuove di propaganda[34].
[1] BOSSAGLIA R., Crespi d’Adda: l’invenzione, l’idea, il monumento, in: AA.VV., Villaggi operai in Italia, a cura di A. Abriani, Torino, Einaudi, 1981, p. 114. [2] Si veda: ABRIANI A., I villaggi operai dell’Italia settentrionale come modello di insediamento, in: “Atti” del II seminario LAU, Gargnano, ottobre 1975. [3] Ivi, p. 3. [4] CAPUTO P., L’architettura del consenso e della pace sociale, in: PIVA A., CAPUTO P., FAZZINI C., L’architettura del lavoro, Venezia, Marsilio, 1979, p. 135. [5] Sul terreno delle iniziative assunte dai Comuni, dagli istituti appositi o dalle stesse industrie per rispondere al problema delle case popolari si svilupperà “la vocazione caratterizzante la figura dell’architetto, che è quella di presentarsi non solo come mediatore tra produzione e mercato, ma anche come agente politico della classe al potere nei riguardi della ‘massa’, anche e soprattutto quando parte dalle istanze di quest’ultima” [ABRIANI A., La “casa per tutti” nella Torino prefascista, “Edilizia Popolare”, n.117, Milano - Roma, marzo - aprile 1974]. [6] Si veda: SQUARZINA S. D., Villaggi operai in Europa nel secolo XIX,in: AA.VV., Villaggi operai in Italia, a cura di A. Abriani, Torino, Einaudi, 1981. [7] Ivi,p. 86. [8] Ivi,p. 85. [9] L’arte di edificare: manuali in Italia 1750 - 1950, a cura di C. Guenzi, Milano, BeMa, 1981, p. 19. [10] Ivi, p. 24. [11] Citato in: L’arte di edificare: manuali in Italia 1750 - 1950, a cura di C. Guenzi, Milano, BeMa, 1981, p. 24. [12] SCOLARI M., Tipi e trattati delle case operaie. Le origini, “Lotus international”, n. 9, Milano, 1975, p. 118. [13] Si vedano anche: - TANN J., Villaggi operai nell’Inghilterra della prima rivoluzione industriale, in: CORTI B., Archeologia industriale, Brescia, CSAI, 1991, pp. 205 - 209. - ELIA G., Il villaggio e la fabbrica. Insediamenti industriali in Gran Bretagna e in Italia: aspetti della struttura sociale, Bologna, Editrice compositori, 1999. [14] SQUARZINA S. D., Villaggi operai in Europa nel secolo XIX,in: AA.VV.,Villaggi operai in Italia, a cura di A. Abriani, Torino, Einaudi, 1981, p. 92. [15] VIDLER A., Architettura, gestione, principi etici, “Lotus”, n. 14, Milano, 1977, p. 4. [16] SQUARZINA S.D., Villaggi operai in Europa nel secolo XIX,in: AA.VV.,Villaggi operai in Italia, a cura di A. Abriani, Torino, Einaudi, 1981, pp. 87 - 88. [17] GIORDAN P.L., Considerazioni intorno a “Garden Cities of tomorrow”, in: HOWARD E., L’idea della città giardino, tradotto ed annotato da G. Bellavitis, Bologna, Calderini, 1962, p. 179. [18] Ivi, p. 180. [19] SQUARZINA S. D., Villaggi operai in Europa nel secolo XIX,in: AA.VV., Villaggi operai in Italia, a cura di A. Abriani, Torino, Einaudi, 1981, p. 94. [20] Ivi, p. 95. [21] Ibidem. [22] VIDLER A., Architettura, gestione, principi etici, “Lotus”, n. 14, Milano, 1977, p. 18. [23] CAPUTO P., L’architettura del consenso e della pace sociale, in: PIVA A., CAPUTO P., FAZZINI C., L’architettura del lavoro, Venezia, Marsilio, 1979, pp. 137 - 138. [24] VIDLER A., Architettura, gestione, principi etici, “Lotus”, n. 14, Milano, 1977, p. 4. [25] Ivi, pp. 5 - 6. [26] Ibidem. [27] VIDLER A., op. cit., p. 12. [28] SQUARZINA S. D., Villaggi operai in Europa nel secolo XIX,in: AA.VV., Villaggi operai in Italia, a cura di A. Abriani, Torino, Einaudi, 1981, p. 97. [29] PASTORIO L., Il territorio della cotoniera, in: AA.VV., Villaggi operai in Italia, a cura di A. Abriani, Torino, Einaudi, 1981, pp. 76 - 77. [30] MARREY B., Noisel: la “città ideale”, in: CORTI B., Archeologia industriale, Brescia, CSAI, 1991, p. 201. Si veda anche la descrizione della città di Noisel in: AMORUSO M., Case e città operaie, Torino - Roma, 1903, p. 241 e seguenti. [31] GALLARD N., PISTRE J., Noisel. Le village et la chocolaterie Ménier, in: Architecture Mouvement Continuité, Paris, n. 30, 1973, Trad. it. R. Sommariva, citato da: NEGRI A., NEGRI M., L’archeologia industriale, Messina-Firenze, G. D’Anna, 1978, pp. 153 - 154. [32] PASTORIO L., Il territorio della cotoniera, in: AA.VV., Villaggi operai in Italia, a cura di A. Abriani, Torino, Einaudi, 1981, p. 78. [33] La casa operaia tipo di Mulhouse è invece criticata dall’Amoruso per l’uso dispendioso di troppo terreno. Si veda: AMORUSO M., Case e città operaie, Torino - Roma, 1903, p. 239. [34] SELVAFOLTA O., Lo spazio del lavoro 1750 - 1910, in: La macchina arrugginita, a cura di A. Castellano, Bologna, Feltrinelli, 1982, pp. 55 - 56.
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