I. 2.   Sviluppo industriale e consenso sociale

 

G. Baglioni[1] classifica i promotori dell’industrializzazione dei secoli XVIII e XIX in due tipi: l’élite dinastica, che rappresenta il caso della industrializzazione senza modernizzazione, e la classe media, in cui si ha la compresenza dei due processi.

La premessa che egli fa è che in entrambi i casi:

 

I promotori dell’industrializzazione perseguono prospettive di dominio. L’accettazione o la promozione di innovazioni che rientrano […] nell’area della modernizzazione […] costituiscono la modalità più razionale […] e coerente per riproporre un tipo di dominazione adatta e congruente all’industrializzazione ed alle sue conseguenze[2].

 

Le trasformazioni dell’organizzazione del lavoro, che si verificano nel corso del diciottesimo secolo, si riflettono innanzitutto sulla distribuzione degli insediamenti.

“La vecchia città mercantile-nobiliare si trasforma nella città capitalistico-borghese”[3], che ha il carattere originale di una potenzialità di sviluppo smisurato, infinito, senza confini prestabiliti come le precedenti città murate.

Da un punto di vista strutturale,”nelle vecchie città europee le trasformazioni dei mezzi di produzione e di trasporto, insieme con l’emergere di nuove funzioni urbane, contribuiscono a far saltare gli antichi schemi, spesso sovrapposti, della città medievale e della città barocca. Un nuovo ordine si viene così a creare, secondo il processo tradizionale di adattamento della città alla società che la abita. […] La crescita dei quartieri suburbani assume un’importanza sempre maggiore: l’industria si insedia nei sobborghi, le classe operaie si riversano nella periferia e la città cessa così di essere un’entità spaziale ben delimitata”[4] 

Contemporaneamente in campo industriale “la vecchia manifattura di origine medioevale, tradizionalmente organizzata in modo domestico, migra sul territorio alla ricerca di nuove fonti di energia (cadute d’acqua) necessarie con le prime innovazioni tecniche […] e i primi processi di concentrazione”[5].

I processi di centralizzazione produttiva seguite da enormi concentrazioni di manodopera hanno pessime conseguenze sulle città. 

“Le residenze operaie si caratterizzano quindi o per lo sfruttamento o per la pessima qualità degli stessi alloggi. […] I servizi primari […] sono del tutto inadeguati o inesistenti; l’uso del suolo è  intensissimo e porta a densità edilizie spropositate; inoltre non c’è soluzione di continuità tra le officine e le abitazioni, gli esigui spazi aperti […] e le industrie”[6].

Alla metà del diciannovesimo secolo la constatazione delle disumane condizioni di vita e di lavoro nella città industriale e il profilarsi di sempre più massicce forme di protesta, producono una serie di iniziative, pubbliche e private, volte ad una analisi di tali condizioni e tese alla ricerca di strumenti per superarle. Al fine di individuare delle riforme nella organizzazione urbana e sociale “questa fase della storia dell’urbanistica è caratterizzata da una ricca letteratura legata ai dibattiti assembleari sul lavoro delle Commissioni [di inchiesta] e ai numerosi rapporti sulle condizioni di vita nella città industriale (e sulle abitazioni operaie in particolare), stilati in Francia e in Inghilterra da medici, economisti, igienisti e storici”.[7]

Alla radice di questi programmi di risposta c’è “la preoccupazione della borghesia […] per i costi sociali […] derivati dagli intollerabili livelli di sfruttamento a cui la classe operaia è sottoposta; e la sicurezza delle strutture socio-economiche, sempre più messa in crisi dalla progressiva presa di coscienza della propria situazione da parte del proletariato”[8] 

Lo studio della città assume due aspetti assai differenti.

Nel primo caso è uno studio descrittivo: si osservano i fatti con distacco, si cerca di ordinarli secondo criteri quantitativi, nel secondo l’informazione è destinata ad essere integrata nel quadro di una polemica, l’osservazione è critica e normativa. Mentre alcuni  polemisti denunciano, sulla base di fatti e di cifre, lo stato di rovina fisica e morale in cui vive il proletariato urbano, un altro importante gruppo e costituito da studiosi politici; “Engels in particolare può essere considerato uno dei fondatori della sociologia urbana. […] Non si può in nessun modo dissociare la critica di questi autori da una critica globale della società industriale: le tare urbane denunciate appaiono il risultato di quelle sociali, economiche e politiche”[9].

Marx ed Engels hanno criticato le città contemporanee senza proporne un modello futuro , perché, per essi la città possiede il privilegio di essere il luogo della storia. La città capitalista del XIX secolo è l’espressione di un ordine che fu a suo tempo creatore e che bisogna distruggere per andare oltre, non è altro che un aspetto di un problema generale, e il suo aspetto futuro è legato all’avvento della società senza classi. In particolare per Engels il problema urbano è momentaneamente ridotto all’alloggio. Le case operaie preconizzate da certi socialisti gli appaiono detestabili perché nascondono la loro ispirazione paternalista sotto l’aspetto di una soluzione rivoluzionaria. Egli scrive in un libro di denuncia sulla questione delle abitazioni operaie:

 

I signori capitalisti […] non possono permettersi impunemente il piacere di provocare delle malattie epidemiche fra gli operai; le conseguenze cadono su loro stessi […]. Non appena la scienza ebbe dimostrato tutto ciò questi umanitari di borghesi si accesero di nobile emulazione per la salute dei loro operai[10].

 

L’idea di realizzare città operaie ha lo scopo di disarmare il socialismo, con un’operazione tale da produrre simpatia da parte della classe operaia, e assopimento dello spirito rivoluzionario; di conseguenza, rileva Engels:

 

I villaggi operai sono redditizi in primo luogo per gli industriali che educano e utilizzano una “aristocrazia operaia”. In altri termini il godimento della abitazione potrebbe frenare la rivoluzione dell’internazionale socialista[11].

 

I villaggi operai pianificati negli anni ‘50 dell’800 costituiscono quindi “una risposta che la borghesia formula una volta constatata l’improcastinabilità di certe misure atte a consolidare l’ordine sociale costituito”[12], di conseguenza l’obiettivo finale dei vari provvedimenti (piani, progetti, programmi, leggi, ecc..), che si presentano come soluzioni in termini di assetto spaziale e sociale e proposte correttive degli squilibri provocati nella società dal sistema capitalistico, è di creare della solidarietà intorno alla classe dirigente, dimostrando che non esistono possibili alternative allo sviluppo intrapreso dalla società borghese. In sostanza si tratta di attuare una politica del consenso sociale, diversamente dal movimento del socialismo utopico, che, pur partendo dagli stessi aspetti del nuovo disordine urbano delinea “una società caratterizzata non dal consenso sociale, ma dalla pace sociale”[13].

Si ha la “necessità dunque di guidare il processi di industrializzazione; ed insieme l’esigenza di controllare lo sviluppo dell’urbanesimo e dell’inurbamento”[14].

Per la classe imprenditoriale “si tratta di modellare la nuova città industriale nelle forme di quella dell’ancien régime, facendo della fabbrica un circuito di solidarietà e di obblighi reciproci. Un nuovo feudalesimo, insomma, riconosciuto come tale, che metterebbe i padroni delle ferriere al posto del signore […] e che ben si accorda all’ideologia della famiglia, un’altra immagine della fabbrica armoniosa”[15]

 


[1] BAGLIONI G., L’ideologia della borghesia industriale nell’Italia liberale, Torino, Einaudi, 1974.

[2] Ivi, pp. 18 - 19.

[3] CAPUTO P., L’architettura del consenso e della pace sociale, in: PIVA A., CAPUTO P., FAZZINI C., L’architettura del lavoro, Venezia, Marsilio, 1979, p. 126.

[4] CHOAY F., La città. Utopie e realtà, 2 voll., Einaudi Torino, 1973, p. 7.

[5] CAPUTO P., L’architettura del consenso e della pace sociale, in: PIVA A., CAPUTO P., FAZZINI C., L’architettura del lavoro, Venezia, Marsilio, 1979, p. 125.

[6] Ivi, pp. 126 - 127.

[7] Ivi, p.128.

[8] Ibidem.

[9] CHOAY F., La città. Utopie e realtà, 2 voll., Einaudi Torino, 1973, pp. 8 - 10.

[10] ENGELS F., La questione delle abitazioni, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 67.

[11] ENGELS F., citato da J. GUBLER, La “memoria collettiva” del villaggio operaio, in: AA.VV., Patrimonio edilizio esistente  - Un passato e un futuro, Atti del convegno, a cura di A. Abriani, Torino, Designers Riuniti, 1980, p. 425. 

[12] CAPUTO P., L’architettura del consenso e della pace sociale, in: PIVA A., CAPUTO P., FAZZINI C., L’architettura del lavoro, Venezia, Marsilio, 1979, p. 128.

[13] Ivi, p. 132.

[14] ABRIANI A., I villaggi operai dell’Italia settentrionale come modello di insediamento, in: “Atti” del II seminario LAU, Gargnano, ottobre 1975, p. 2.

[15] Storia economica e sociale del mondo 4 - il capitalismo 1840-1914, a cura di P. Leon, Bari, Laterza, 1980, p. 458.