I. 1.   Gli utopisti
        I. 1. 1.   Il socialismo utopico e le città giardino                                    
        I. 1. 2.   I due modelli “preurbanistici” di città proposti da F. Choay

 


I. 1. 1.   Il socialismo utopico e le città giardino

 

La genesi dei villaggi operai rimanda necessariamente allo sviluppo industriale nella seconda metà del Settecento e alle teorizzazioni illuministe e socialiste, in particolare inglesi e francesi.

Dall’analisi del pessimo stato fisico ed organizzativo delle prime città industriali derivano le proposte utopiche dei primi socialisti per un nuovo assetto spaziale dell’insediamento umano.

I modelli di città proposti dai “socialisti utopici” in risposta al disordine urbano sono costruiti intorno al principio dell’ordine razionale che contempla contemporaneamente un modello spaziale e una teoria sociale, ed è deducibile dalle oggettive esigenze dell’uomo. 

I modelli sono perciò invariabili perché, come sostiene P. Caputo:

L’ordine spaziale è immagine della qualità sociale della vita, e perché la qualità estetica derivata dalla razionalità analitica che ha prodotto il modello, fa corpo unico con la funzionalità del piano urbano. Il complesso urbano si presenta quindi in modo rigido e chiuso, in antitesi alla dimensione infinita della città industriale[1]

Gli spazi che articolano gli insediamenti sono definiti dalle funzioni umane: spazi del lavoro e della cultura, della residenza e del tempo libero.

Il nuovo assetto si realizza inoltre attraverso la eliminazione tra città e campagna e “viene rivalutata un’immagine geometrica della città tanto uniforme e regolare quanto difforme e irregolare è l’aggregato urbano esistente”[2]

L’atteggiamento teorico degli utopisti è astratto, il loro è un tentativo di mettere in atto comunità sperimentali e presumere di generalizzarle come condizione insediativa dell’intera umanità scindendole da una problematica generale di gestione del potere, senza aver ottenuto una totale modifica del sistema, di conseguenza le proposte abitative non vengono collocate all’interno della realtà fisica e organizzativa della città industriale.

Dirà successivamente Engels che: 

 

La questione delle abitazioni potrà essere risolta soltanto in seguito a rivolgimenti sociali di portata tale da permettere di affrontare l’eliminazione dell’antitesi fra città e campagna, che è stata portata al suo culmine dall’attuale società capitalistica […]. Al contrario, già i primi socialisti moderni, Owen e Fourier, avevano visto correttamente la questione: nei loro schemi della società modello l’antitesi fra città e campagna non esisteva più. […] Fin quando sussisterà il modo di produzione capitalistico, è follia poter risolvere isolatamente la questione delle abitazioni o qualsiasi altra questione sociale che pesi sulle sorti degli operai. Ma la soluzione è nell’abolizione del modo capitalistico di produzione, nell’appropriazione di tutti i mezzi di produzione e di sussistenza da parte della classe operaia stessa [3].

 

L’inglese Robert Owen e il francese Charles Fourier sono i più noti esponenti del socialismo utopista.

 

Robert Owen (1771-1858) 

Imprenditore ed industriale di successo, intellettuale e filantropo, organizzatore sindacale e studioso della società industriale e dei suoi problemi, Robert Owen fu il massimo rappresentante inglese del socialismo riformista e cooperativistico. A questo cercò sempre di dare un’attuazione pratica, con la lotta per il miglioramento delle condizioni di lavoro in Inghilterra e con l’ordinamento sociale instaurato nella fabbrica e nel villaggio di New Lanark, e con il successivo tentativo di concretizzare il sogno utopistico in New Harmony, negli Stati Uniti d’America. 

Nel 1798, un ricco matrimonio gli permetteva di diventare proprietario della fabbrica di New Lanark, dove il suo sforzo si concentrava soprattutto sulla riduzione delle ore di lavoro, il miglioramento dell’habitat, e la creazione di una scuola obbligatoria con metodi moderni. New Lanark diventò rapidamente un luogo di pellegrinaggio per i riformatori sociali inglesi. In quanto a Owen, questa esperienza gli permise di dare un nuovo sviluppo alle sue teorie, esposte in una serie di opere (a cominciare da New View of Society, 1818), di cui una gran parte venne rapidamente tradotta in francese. 

La sua intenzione era di modificare sostanzialmente le strutture del sistema esistente al fine di giungere alla trasformazione e al perfezionamento della natura dell’uomo, dando molta importanza all’istruzione e al lavoro per la giusta prosperità. Si devono a Owen i primi asili in Inghilterra. Egli era convinto dell’assoluta malleabilità dell’individuo umano, e la sua teoria sull’educazione costituisce la pietra angolare di tutto il suo sistema: l’educazione è necessaria per l’uomo che vuole dominare la macchina e sfruttare le risorse della rivoluzione industriale e nello stesso tempo contribuisce a migliorare il rendimento individuale.

Sulla base di movimenti pacifisti e di una necessaria universalità, si sarebbe provveduto alla creazione di villaggi comunitari semirurali, i Centri di cooperazione ed armonia dai cinquecento ai tremila abitanti, federati tra loro, entro i quali i singoli, godendo di un moderato benessere, sarebbero giunti a modificare la propria sorte, a formarsi un nuovo carattere, libero di svilupparsi nell’eguaglianza generale. Il suo modello è costituito da un organismo edilizio in grado di alloggiare 1200 persone, composta di quattro edifici di abitazione a formare un quadrilatero che ospita su di un mediana blocchi destinati ad attrezzature pubbliche (scuola, cucine, biblioteca, refettori, ecc), e che è circondato da orti, giardini e parchi. “A regolare distanza sorgono gli stabilimenti industriali mentre quelli a servizio dell’agricoltura sono distribuiti nel territorio circostante”[4]. La produzione è attuata in termini cooperativistici. 

 

            

Fig. I. 1.   Veduta del villaggio di armonia e cooperazione di R. Owen.

 

Nella sua opera teorica Nouveau monde industriel et sociétaire, (Parigi, 1829-30), Owen ipotizza una città strutturata per anelli concentrici a differente caratterizzazione funzionale, cui corrispondono diverse dimensioni e tipologie del manufatto edilizio, che costituisce una “anticipazione di una condizione organizzativa e spaziale che sarà […] quella delle grandi città della seconda metà dell’800”[5].

Per poter realizzare questo modello, inizialmente teorico, Owen nel 1825, comprò 30 000 acri di terra nello stato dell’Indiana (Usa) e fondò la colonia di New Harmony dove vi si raccolsero 800 persone. Tre anni dopo, aveva perso i quattro quinti della sua fortuna e doveva rientrare in Europa.

Altri tentativi si ebbero da parte del figlio, R. D. Owen, ma l’esperienza comunitaria fu un fallimento totale da un punto di vista organizzativo.

L’organizzazione attuata da Owen nelle sue fabbriche viene citata qualche volta come un’anticipazione di moderni metodi di direzione del personale, in un periodo in cui la maggior parte degli imprenditori trattava i propri operai allo stesso modo impersonale di qualsiasi altro fattore di produzione. Invece è stato notato come la sua politica del personale deve essere ricondotta a schemi paternalistici, in quanto:

si era sviluppata in accordo con un modello accuratamente elaborato del rapporto tradizionale tra padrone e servitore. Egli dedicava ai suoi operai una “affettuosa tutela”, e si considerava loro fiduciario[6]

 

Charles Fourier (1772-1837)

Charles Fourier, partendo dalla critica all’industrialismo, proponeva una società  armonica, presupposto degli organismi edilizi polifunzionali che prevedono al proprio interno residenze differenziate, passaggi e cortili, officine e servizi: i falansteri.

“La costruzione globale di Fourier nasce da una critica spietata della società contemporanea e della sua economia. […] La civiltà che regna nel momento in cui Fourier scrive […] potrà essere superata soltanto con una ristrutturazione radicale della società. Questa a sua volta, per poter sviluppare la produzione, affrancassi dal pauperismo e realizzare l’uomo integrale, dovrà mettere in pratica l’associazione e la cooperazione”[7].

 

 

Fig. I. 2.  Schema del falansterio di Fourier.

 

Partendo dalla prima comunità, eretta in un territorio apposito scelto con cura particolare, si sarebbero via via costituite nuove collettività falansteriane, atte a realizzare la grande armonia, con una struttura sociale tale da garantire il funzionamento politico-economico, e un’ambiente atto a concedere al singolo tutte le condizioni necessarie per una vita libera ed eguale.

Il fourierismo si affermò concretamente più che in Francia, nel resto dell’Europa e in America: si tentò l’esperimento dei falansteri in numerosi paesi, negli USA, in Spagna, in Romania e in Russia. 

In Francia sorsero invece, dal 1832, numerosi giornali che ufficialmente si richiamavano alla dottrina di Fourier: Le phalanstère, La phalange, La démocratie pacifique, e molteplici riviste secondarie. 

Tra i volgarizzatori delle teorie di Fourier, André Godin (1819-1888), fabbricante di fornelli da cucina e di stufe, scrisse numerose opere che miravano al miglioramento della condizione industriale e, fra il 1859 e il 1870, realizzò a Guise “un familisterio, sorta di falansterio costituito da una manica continua di alloggi disposti sui quattro lati di un rettangolo, con disimpegno all’interno: una grande hall coperta in vetro racchiudeva la zona per il gioco infantile, il ritrovo quotidiano, le pubbliche cerimonie; altri servizi sociali completavano il familistère”[8].

 

 

                Fig. I. 3.   Pianta del familisterio di Godin, con tre corpi di case di abitazione e, in basso, i laboratori, il teatro e le scuole.

 

La nozione di collettività iperorganizzate che non interferiscono in qualunque modo con l’esterno, riferibile ai modelli utopici precedenti, è particolarmente evidente a Guise, in cui “si può parlare in senso proprio di ‘stato nello stato’, nella misura in cui persino le elezioni comunali avevano due statuti autonomi: la  comunità del Familisterio da una parte e quella del villaggio di Guise dall’altra”[9].

Entrambi i modelli di Owen e Fourier, costituiscono unità produttive autonome, che, come osserva Engels: 

 

si collocano fuori dalla città in un sistema organizzato che è tutto incentrato sull’autonomia economica ed architettonica di organismi semplici, capaci di assicurare una vita equilibrata e completa ad un numero ridotto di abitanti (1.200 - 1.600) in quanto contengono in sé tutti i pregi della produzione e della cultura. Tanto il falansterio che i “Centri di cooperazione e armonia”, una volta raggiunto il massimo previsto e quindi pianificati fin nei dettagli, ammettono un ulteriore sviluppo solo nella ripetizione in estensione dell’organismo elementare. Inoltre i beneficiari di queste utopie non sono i proletari in quanto classe sociale; Owen e Fourier non si presentano come rappresentanti degli interessi del proletariato. Come gli illuministi, essi vogliono liberare non una classe determinata, ma tutta quanta l’umanità[10]

 

Le proposte dei socialisti utopici, fallite nella loro concretizzazione, si riveleranno fortemente condizionanti nei successivi sviluppi di esperienze parallele.

 

Il prototipo da loro teorizzato dell’aggregato urbano periferico, organismo autonomo rispetto alla struttura delle città, viene successivamente sviluppato dal movimento delle città - giardino.

Il primo teorizzatore delle città - giardino fu l’inglese E. Howard, che illustrò il suo modello nel libro Tomorrow: a Peaceful Path to Real Reform del 1898. Elementi fondamentali della sua idea sono la dimensione dell’insediamento prevista in 32.000 abitanti, la proprietà municipale del terreno, l’equilibrio fra le attività produttive industriali, l’agricoltura e la residenza per una comunità basata sul mutuo soccorso, economicamente autosufficiente, con una produzione di poco eccedente le necessità interne, in grado di eliminare il viaggio per raggiungere il posto di lavoro.

La Garden Cities and Town planning Association, fondata a Londra nel 1899, d’accordo con Howard adottò nel 1919 questa definizione:

 

Una Città Giardino è una città progettata per la vita ed il lavoro salubre; di dimensioni tali da consentire una completezza di vita sociale, ma non più grande; circondata da una cintura rurale; e dove tutto il terreno è di proprietà pubblica, o posseduto fiduciariamente in nome della comunità [11].

 

I mezzi previsti per ovviare ai mali e alla degradazione della città “scoppiata” a causa della rivoluzione industriale restano di programmazione esteriore, in modo da salvare la struttura della società, e sono di natura ambientale (campagna nelle città, igienicità, ecc..), umana (vicinato, ritorno al regime artigiano come costume), strutturale (ripristino del diritto di superficie, dimensioni massime della comunità).

 

 

Fig. I. 4.   Schema della città giardino di E. Howard.

 

La città giardino howardiana è basata su alcuni principi fondamentali:

 

Eliminazione della speculazione sui terreni che appartengono alla comunità che li controlla […] controllo della espansione e limitazione della popolazione (30.000 abitanti, poi cintura agricola) […] equilibrio funzionale tra la città, la campagna, le residenze, il commercio, le industrie, le funzioni spirituali, politiche , sociali, ricreative etc. al fine di evitare la “depressione” morale ed economica dei sobborghi operai […] impostazione dell’impresa su serie basi economiche […] decentramento industriale con industrie pertinenti alla comunità[12]

 

La prima città giardino costruita in Inghilterra nel 1903 fu Letchworth, conosciuta ed indicata, anche in Italia, come un esempio da seguire per affrontare il problema delle abitazioni, più tardi, dal 1920 venne realizzata la città di Welwyn[13].

 

 

            Fig. I. 5.   Parker e Unwin, piano originale di Letchworth, 1904.

 

Howard descrive in modo preciso le caratteristiche del nuovo modello di città:

 

La città giardino […] copre una superficie di 1000 acri (405 ettari) […] e potrebbe essere di forma circolare con un raggio di 1240 yards (1200 metri circa) […]. Sei magnifici corsi - ognuno largo 120 piedi (36,5 metri) - attraversano radialmente la città, dividendola in sei parti o settori uguali. Al centro resta uno spazio circolare di circa 5 acri e mezzo (due ettari e un quarto), sistemato come un piacevole e ben irrigato giardino; ed intorno a questo giardino sorgeranno […] i principali edifici pubblici - municipio, auditorium principale, teatro, biblioteca, museo, pinacoteca ed ospedale. La parte restante […] è un parco pubblico di circa 145 acri (58 ettari) che comprende vasti campi di gioco, facilmente accessibili per tutta la popolazione […] le case sono per lo più costruite ad anelli concentrici […] oppure con la fronte sui corsi e sulle strade che convergono tutte verso il centro della città […] nella città vera e propria vivono circa 30.000 abitanti, e nella zona agricola 2.000 e […] l’area urbana comprende 5.500 lotti edificabili di sviluppo medio di 20 x 130 piedi (metri 6 x 40) […] [con un minimo di] piedi 20 x 100 (metri 6 x 30). […] Le autorità municipali, in materia di edilizia residenziale, si limitano ad imporre il generale rispetto dei profili stradali, oppure una armoniosa variazione dei medesimi, ma che per il resto, salvi i requisiti igienici, severamente obbligatori, viene incoraggiata la massima libertà di espressione e di scelta. […] Verso la periferia cittadina incontriamo il “Grande Viale” […] largo 420 piedi (128 metri) […] esso costituisce un parco complementare […] [con] aree […] occupate dalle scuole pubbliche e dai loro giardini  e campi da giochi […] [e dalle] chiese, di varia confessione […]. Sull’anello esterno della città sorgono fabbriche, depositi di merci, caseifici, mercati, depositi di carbone e legname, ecc., tutti prospicienti la linea ferroviaria circolare, che circoscrive la città ed è collegata mediante raccordi laterali alla linea ferroviaria principale che attraversa la zona[14]

 

 

               Fig. I. 6.   Schema della città giardino di E. Howard.

 

Riguardo agli abitanti da insediare nelle nuove città Howard propone che sia fatto:

 

un serio tentativo di organizzare un movimento migratorio di popolazione dai nostri centri sovraffollati a distretti rurali ad edilizia sparsa; […] che agli immigrati sia garantito […] che l’aumento complessivo del valore del terreno conseguente alla loro immigrazione sarà assicurato ad essi stessi; che questo sia fatto creando una organizzazione, la quale, […] riscuote tutti i canoni-imposta spendendoli per i lavori pubblici favorevoli o necessari al movimento migratorio […] e che […] si costruisca una città giardino la quale, crescendo, conservi […] i doni generosi della natura - aria pura, sole, spazio per respirare e giocare[15].

 

Con la sua ipotesi Howard situa nel nostro tempo e insieme cerca di affrontare  una situazione storicamente ricorrente, dal feudatario nel medioevo al fordismo, di rapporto tra operai e datori si di lavoro, ma ”accellera ulteriormente il processo di emancipazione dei ‘padroni del vapore’ […] sottraendo la sua piccola città ad ogni ipoteca paternalista attraverso la Corporation e la municipalità”[16]. In questo modo la città - giardino “non è più un recipiente entro cui si mette la popolazione, ma è un recipiente che si adatta democraticamente alla popolazione”[17].

P. Giordan fa notare come nei nuovi quartieri residenziali della città giardino, che mirano alla riconquista di una vita fatta per l’uomo, viene espresso in modo naturale:

 

il meglio del confort urbanistico […] e la peculiarità storica della struttura cittadina inglese (square, crescent) ideale tradizionale della “gente bene” del 600 - 700 ma anche 800. […] Anche la casa “popolare” acquista un nuovo aspetto e un nuovo valore, poiché anche coloro che la occupano sono fatti partecipi del nuovo modo di  vita al pari degli altri: scompaiono così le differenze fra quartiere “signorile” e quartiere “popolare”; l’aspetto delle case, delle vie, delle piazze, non deve essere più il segno del potere economico di chi le abita, ma la condizione e la scena di una vita i cui valori sono validi per tutti e che devono conquistarsi[18]

 

 

               Fig. I. 7.   Schemi di case per la città giardino di Welwyn.

 

Non si può fare a meno di notare come questo rapporto fra vita e città che viene mediato attraverso l’atteggiamento romantico nei confronti della natura“si riflette chiaramente nella disposizione dei quartieri e nella distribuzione interna delle case, e sarà sulla falsariga di questo sentimentalismo romantico che si modellerà, snaturandosi, gran parte delle città giardino sorte fuori dall’Inghilterra”[19].

L’applicazione su scala nazionale dell’idea howardiana, seppur modificata, sarà costituita dalle New Towns, 15 nuove città programmate nel 1947 con il Town and Country Planning Act per decongestionare i centri superpopolati (e particolarmente Londra), disperdere le industrie e ricreare delle comunità equilibrate.

Intanto in Italia nell’ultimo decennio del sec XIX l’industria, il mutuo soccorso, la cooperazione, la filantropia, e perfino le speculazioni private, tentarono, senza l’aiuto di una legislazione speciale, di portare a soluzione il problema sempre più urgente, delle abitazioni popolari, e si costruirono così i primi quartieri operai. A favorire il notevole incremento verificatosi nella loro costruzione a partire dal 1904, contribuì la prima legge organica sulle case popolari, la n. 254 promossa dall’On. le Luzzati nel 1903, e al successivo Testo Unico , approvato con il R.D. 27-2-1908, che delegava  la costruzione di alloggi popolari a società di costruzioni, Comuni, Enti autonomi[20].

Nel 1903 inizia a Milano la pubblicazione del periodico Le case popolari e le città giardino, ma in generale, in Italia l’idea delle città - giardino, viene più che altro intesa epidermicamente.

Uno dei divulgatori di queste teorie fu A. Schiavi, che nel 1907 si recò in Inghilterra per vedere alcune garden cities e le descrisse in un libro pubblicato nel 1911[21]; i villaggi operai, città - giardino in miniatura, di Port-Sunlight e Bourville degli industriali del sapone e del cioccolato Cadbury e Lever, e la città giardino di Letchworth, formate da casette popolari e servizi in mezzo al verde, vengono presentate come le migliori in quanto a salubrità. Facilmente raggiungibili dai centri di lavoro con rapidi ed economici mezzi di trasporto sono proposte in sostituzione dei grandi caseggiati suburbani.

 

 

               Fig. I. 8.   E. Prestivick e T. Mawson, piano rivisto di Port-Sunlight, 1910.

 

Per Schiavi il villaggio - giardino offre:

 

la massima socialità colla massima libertà individuale, senza addensamento né di case né di persone; e la combinazione del lavoro industriale col lavoro agricolo, il ritorno della donna madre alla famiglia, lo sviluppo massimo dato sino dalla nascita al corpo insieme con un’accurata educazione del corpo e della mente. […] L’ambiente campestre, il contatto con la natura, l’attraente aspetto delle case, l’assenza della monotonia inseparabile dagli interminabili rettilinei delle città, la mancanza di incentivi al vizio contribuiscono a mantenere sano e solido il tono della vita fisica e morale[22].

 

Spesso nei villaggi operai costruiti si riconosce a prima vista uno schema distributivo derivato dall’idea delle città - giardino, non bisogna dimenticare però che quest’ultima è “un organismo urbano che non vuole essere solo un modo di vita piacevole, […] ma che vuole realizzare una sintesi tra città e campagna, e che si avvicina piuttosto all’idea di ‘città - satellite’”[23] ed è comunque da tenere distinta dal villaggio operaio, che è invece “il risultato di un intervento [di filantropia imprenditoriale] a livello urbano o microurbano, strettamente legato a un’attività industriale”[24].

Nel primo novecento, dopo l’avvento degli Istituti Autonomi per le Case Popolari, l’edilizia pubblica per operai assumerà un ruolo importante nella crescita urbana, fornendo riferimenti culturali, direttrici di espansione e nuovi modelli urbanistici, fra i quali la tipologia della città - giardino: “da noi questo modello fu proposto all’inizio per l’edilizia popolare e in seguito applicato per la residenza suburbana in genere”[25].

Nei villaggi operai vengono quindi riprese idee espresse nel socialismo utopico e nelle città - giardino, ed in fin dei conti, è proprio il fatto che, alla fine, il villaggio industriale fosse anche redditizio per l’azienda, ciò che ne ha resa possibile la realizzazione, rendendo possibile quel tanto o quel poco di “attuazione” dell’utopia in una condizione, la società capitalistico - industriale, che ne rappresenta la negazione.

Le utopie insomma vengono recuperate dalla classe dominante, ed impiegate all’interno del sistema stesso della produzione con il risultato di creare una gerarchia operaio - padrone ancor più solida e di legare sempre più strettamente il lavoratore alla fabbrica.

 


 

I. 1. 2.   I due modelli “preurbanistici” di città proposti da F. Choay

 

La studiosa F. Choay[26], riguardo il pensiero utopista, propone due modelli in cui comprendere le diverse immagini di città future proposte: il modello progressista e quello culturalista. Il criterio di suddivisione è quello temporale, tra proposte di organizzazione urbana nostalgiche, orientate verso il passato, e quelle progressiste, verso il futuro.

 

Il modello progressista

Il modello progressista viene definito da F. Choay partendo da opere assai diverse, quali quelle di Owen, Fourier e altri autori che hanno tutti in comune una stessa concezione dell’uomo e della ragione, che sottintende e determina le loro proposte relative alla città:

 

L’individuo umano [è concepito] come tipo, indipendente da ogni contingenza e diversità di luogo a di tempo, definibile in fabbisogni di tipo scientificamente deducibile. […] Il modello [progressista] può essere dedotto a priori dalle sole “caratteristiche” dell’uomo tipo. […] L’analisi razionale consentirà di determinare un ordine tipo, applicabile a qualsiasi gruppo umano, in qualsiasi tempo e in qualsiasi luogo. Di questo ordine si può individuare un certo numero di caratteristiche. […] Lo spazio […] è ampiamente “aperto”, disseminato di vuoti e di verde; questo è quanto richiede l’igiene. […] Il verde in particolare offre una cornice per il tempo libero, da dedicare al giardinaggio ed alla cura sistematica del proprio fisico. […] L’aria. la luce e il sole devono essere equamente distribuiti a tutti. […] Inoltre lo spazio urbano è tagliato secondo un’analisi delle funzioni umane. Una classificazione rigorosa colloca in luoghi distanti l’habitat, il lavoro, la cultura e il tempo libero. […] Questa logica funzionale deve tradursi in una disposizione semplice […]. La città progressista rifiuta tutto il patrimonio artistico del passato per sottoporsi esclusivamente alle leggi di una geometria “naturale” […] in alcuni casi l’ordine specifico della città progressista viene espresso con una precisione di dettagli e un rigore tale da eliminare la possibilità di varianti o adattamenti intorno a uno stesso modello [es. la città ideale di Fourier]. […] Gli edifici, esattamente come i complessi urbani, una volta assoggettati ad una esauriente analisi funzionale, divengono prototipi, definiti una volta per tutte. […] Tra i vari edifici tipo, l’alloggio standard, occupa, nella concezione progressista, un posto importante e privilegiato. […] Da questo derivano subito due formule diverse: o la soluzione collettiva, preconizzata da Fourier e dai seguaci delle varie forme di associazione e cooperazione, oppure la soluzione del tipo individuale […]. Uno spazio libero preesiste alle unità che vi sono disseminate, con un’abbondanza di verde e di spazio che escludono un’atmosfera tipicamente urbana. Il concetto classico della città si sgretola mentre si delinea quello della città - campagna[27].

 

Il modello progressista si presenta nelle diverse forme come un sistema vincolante e coercitivo.

Questa coercizione si esprime ad un primo livello, con la rigidità di un quadro spaziale predeterminato […]. Ad un secondo livello, l’ordine spaziale risulta dover essere assicurato da una coercizione più strettamente politica. Questa prende talvolta la forma di un paternalismo (in Owen o Godin), talvolta di socialismo di stato […], o infine come in Fourier, è un sistema di valori comunitari, ascetici e coercitivi […]. L’autoritarismo politico di fatto, che in tutte queste proposizioni viene dissimulato da una terminologia democratica, è legato all’obiettivo comune, più o meno bene accettato, del massimo rendimento[28].

 

 

               Fig. I. 9.   L’unità urbana di R. Owen.

 

 

Il modello culturalista

Il secondo modello proposto da F. Choay, quello culturalista, deriva dalle opere di Ruskin e di William Morris[29]; e lo si ritrova, ancora, alla fine del secolo, nella città giardino di Ebenezer Howard: 

 

La sua base critica non è più la condizione dell’individuo ma quella della comunità umana, della città. All’interno di essa, l’individuo non è più, come nel modello progressista, un’unità intercambiabile […]. Lo scandalo storico, punto di partenza dei seguaci del modello culturalista, è la scomparsa dell’antica unità organica della città, sotto la pressione disintegratrice della industrializzazione. […] La critica sulla quale si fonda questo modello è quindi, già in partenza nostalgica. […] La chiave di volta ideologica di questo modello non deve essere più ricercata nel concetto di progresso, ma bensì in quello di cultura […] l’assetto dello spazio urbano si realizzerà secondo procedimenti meno rigorosamente determinati. Tuttavia, per poter realizzare la bella totalità culturale, concepita come un organismo dove ciascuno assume il proprio ruolo originale, la città del modello culturalista deve presentare, anche essa, un certo numero di determinazioni spaziali e di caratteri materiali. […] Questa città è innanzi tutto chiaramente circoscritta all’interno di limiti precisi. […] All’interno della città […] nessuna traccia di geometrismo. […] Nel campo delle costruzioni, niente prototipi né standards. Ogni edificio dovrà essere diverso dagli altri, esprimendo così la sua specificità. L’accento viene messo sugli edifici comunitari e culturali, a scapito dell’habitat individuale[30] 

 

La studiosa rileva come in entrambi i modelli: 

 

La città non è concepita come un processo o un problema, ma viene invece considerata come una cosa, un oggetto riproducibile. Strappata alla temporaneità completa, diviene, nel senso etimologico, utopistica, cioè non appartenente a nessun luogo. Del resto, dal punto di vista pratico, i modelli di preurbanistica non hanno dato origine che ad un numero irrilevante di realizzazioni concrete, elaborate in una scala ridotta. Essenzialmente si tratta degli stabilimenti di Owen a New Lanark e di Godin nel falansterio di Guise, in Europa; negli Stati Uniti, le “colonie” fondate dai discepoli […]. Si sa comunque che tutte declinarono assai rapidamente. Il loro fallimento si spiega con il carattere coercitivo e repressivo della loro organizzazione, ma soprattutto con il loro distacco dalla realtà socioeconomica contemporanea. […] I modelli di preurbanistica […] per la loro origine critica e la loro fede primitiva nell’immaginario, preannunciano il metodo stesso dell’urbanistica. […] Essi sono modelli di modelli. La continuità ideologica tra urbanistica e preurbanistica è reale nel caso delle gardens - cities inglesi. Al contrario, dal punto di vista progressista, la coincidenza ideologica tra urbanistica e preurbanistica è quasi sempre fortuita. Le Corbusier si richiama a Fourier soltanto a proposito dell’unità di abitazione[31].

 

I due modelli definiti si ritrovano in tempi più recenti, nell’urbanistica, che, precisa F. Choay: 

 

differisce dalla preurbanistica [perchè è] […] appannaggio di specialisti, nella maggior parte architetti. […] Così l’urbanistica cessa di inserirsi in una visione globale della società. Mentre la preurbanistica […] era stata legata a opposizioni politiche, l’urbanistica è depoliticizzata. […] Inoltre, […] invece di restare relegata nell’utopia, l’urbanistica assegnerà un compito pratico ai suoi tecnici. Essa non sfugge tuttavia del tutto alla visione dell’immaginario[32]

 

Hebenezer Howard è classificato dall’autrice tra gli urbanisti culturalisti per la preminenza accordata ai valori comunitari ed alle relazioni umane. La nuova versione del modello progressista trova invece una prima espressione nella Cité industrielle dell’architetto Tony Garnier, (1869 -1948), che influenzò la prima generazione di architetti razionalisti:

 

Una cité industrielle ha per principi conduttori l’analisi e la separazione delle funzioni urbane, l’esaltazione degli spazi versi che svolgono il ruolo di elementi isolanti, l’utilizzazione sistematica di nuovi materiali, in particolare il cemento armato. I vari tipi di edifici sono standardizzati […]. La ragione determinante dell’assetto di una tale città può essere la prossimità delle materie prime da lavorare, oppure l’esistenza di una forza naturale suscettibile di essere utilizzata per il lavoro, o ancora la comodità dei mezzi di trasporto[33].

 

1  centro storico;  2  stazione;  3  complessi residenziali;  4  centro di servizio;  5  scuole elementari; 6  complesso delle scuole professionali;  7  attrezzature sanitarie; 8  stazione della ferrovia urbana; 9  complesso industriale.

 

Fig. I. 10.   Schema della cité industrielle di T. Garnier. 

 

A partire dal 1928, il modello progressista viene diffuso del movimento internazionale legato al gruppo dei Ciam, che nel 1933 propose la Carta di Atene. In questa formulazione dottrinale vengono analizzati i bisogni umani universali nel quadro di quattro grandi funzioni: abitare, lavorare, circolare, coltivare il corpo e lo spirito, e su questa base si dovrebbe poter determinare a priori, con ogni certezza, il tipo ideale dell’insediamento umano. Il contenuto della Carta di Atene sarà ripreso nei numerosi scritti degli urbanisti progressisti.

F. Choay indica le principali caratteristiche del modello progressista “aggiornato”:

 

L’idea chiave che sottintende l’urbanistica progressista è quella della modernità 

[…] e non basterà l’utilizzazione sistematica di materiali nuovi, acciaio e cemento, che consentono un cambiamento di scala e di tipologia, per ottenere l’efficienza moderna occorre assumere i metodi di standardizzazione e di meccanizzazione dell’industria […]. L’indipendenza, rispetto all’ambiente non risulta più soltanto, come nel secolo XIX, dalla certezza di detenere la verità di una bella forma, ma anche da nuove possibilità tecniche […]. Non meno che dall’ambiente, la pianta della città progressista risulta indipendente dalle coercizioni della tradizione culturale. […] La preoccupazione di efficienza si manifesta subito con l’importanza accordata al problema della salute e dell’igiene. L’ossessione dell’igiene si polarizza intorno alle nozioni di sole e di verde. […] La conseguenza più importante sarà l’abolizione della strada […] [e] la costruzione in altezza, per sostituire alla continuità dei vecchi edifici bassi, un numero ridotto di unità […] verticali. […] Si arriva così ai concetti di “città –giardino” verticale di le Corbusier e dell’urbs in horta di Hilberseimer[34]. Questo spazio esploso è tuttavia regolato da un ordine rigoroso che risponde ad un nuovo grado di efficienza, quello dell’attività produttiva. […] Al seguito di Tony Garnier, gli urbanisti progressisti separano accuratamente i luoghi di lavoro da quelli dell’habitat, e questi ultimi dai centri civici o dai luoghi di svago. […] Nella misura in cui il modello progressista […] privilegia l’individuo-tipo piuttosto che la comunità-tipo, è normale che le sue ricerche più avanzate siano state condotte sull’habitat. […] In generale, sono stati concepiti parallelamente due tipi di abitazione, [proprio come nel secolo precedente] […]. Da una parte si ritrova la casa bassa, individuale o riservata ad un piccolo numero di famiglie […] da un’altra parte si vede proporre l’edificio collettivo gigante […] [di cui] il modello più elaborato [è] l’unità di abitazione o “cité radieuse”, realizzata [da le Corbusier] per la prima volta a Marsiglia [1947-1952] prima di essere ripetuta a Nantes, Briey e Berlino. La cité radieuse riprende in modo esplicito la concezione del falansterio di Fourier. Costruita per ospitare lo stesso numero di famiglie (da millecinquecento a duemila persone), offrendo gli stessi servizi collettivi e gli stessi organismi, in particolare “la strada galleria”, “l’unità” è una versione del falansterio modernizzata e segnata dai progressi della tecnica. […] Ma la cellula o alloggio famigliare, che il sistema di Fourier lasciava deliberatamente nell’indeterminazione […], diventa al contrario per Le Corbusier, un appartamento tipo, con funzioni classificate in uno spazio minimo e non trasformabile. Sarà chi vi abita a doversi adattare allo schema di circolazione e al modo di vita che un tale alloggio implica, e che sono stati giudicati i migliori possibili dall’architetto. […] La nuova città diventa oltre che il luogo ove la produzione è più efficace, una sorta di centro di allevamento umano, […] [dove è ] l’urbanista che detiene la verità[35].

 


[1] CAPUTO P., L’architettura del consenso e della pace sociale, in: PIVA A., CAPUTO P., FAZZINI C., L’architettura del lavoro, Venezia, Marsilio, 1979, p. 133.

[2] Voce “Urbanistica”, in: Dizionario enciclopedico di architettura ed urbanistica, diretto da Paolo Portoghesi, Roma, Istituto Editoriale Romano, 1969, p. 323.

[3] ENGELS F., Per la questione delle abitazioni, Roma, Editori Riuniti, 1971, pp. 78 e 103.

[4] CAPUTO P., L’architettura del consenso e della pace sociale, in: PIVA A., CAPUTO P., FAZZINI C., L’architettura del lavoro, Venezia, Marsilio, 1979, p. 134.

[5] Voce “Urbanistica”, in: Dizionario enciclopedico di architettura ed urbanistica, diretto da Paolo Portoghesi, Roma, Istituto Editoriale Romano, 1969, p. 323.

[6] BENDIX R., Lavoro ed autorità nell’industria, Milano, Etas Kompass, 1973, p. 58.

[7] CHOAY F., La città. Utopie e realtà, 2 voll., Torino, Einaudi, 1973, pp. 93 - 94.

[8] GABETTI R., Seconda metà dell’Ottocento, in: AA.VV, Villaggi operai in Italia, a cura di A. Abriani, Torino, Einaudi, 1981, p. 8.

[9] VIDLER A., Architettura, gestione, principi etici, “Lotus”, n. 14, Milano, 1977, p. 39.

[10] ENGELS F., Antiduhring, “Rinascita”, Roma, 1956, p. 316, [cit. in: SCOLARI M., Tipi e trattati delle case operaie. Le origini, “Lotus international”, n. 9 , Milano, 1975, p. 122].

[11] BELLAVITIS G., prefazione a: HOWARD E., L’idea della città giardino, tradotto ed annotato da G. Bellavitis, Bologna, Calderini, 1962, p. XIII.

[12] GIORDAN P.L., Considerazioni intorno a “Garden Cities of tomorrow”, in: HOWARD E., L’idea della città giardino, tradotto ed annotato da G. Bellavitis, Bologna, Calderini, 1962, pp. 205 - 209.

[13] Si veda: The anglo-american suburb, “Architectural Desing”, n. 51, 10 novembre 1981.

Nella rivista sono descritti i sobborghi di nuova fondazione inglesi ed americani della seconda metà dell’800, suddivisi con un criterio non usuale; avendo tutti piante simili, ispirate agli schemi di città - giardino, sono distinti in:

- sobborghi sorti alla periferia delle grandi città in seguito allo sviluppo di linee ferroviarie tramviarie e metropolitane (Riverside/Chicago 1869, Bedford/Londra 1875, Bronxville/New York 1892 ecc..)

- i villaggi industriali: Saltaire, Lechworch ecc...

- le cittadine americane nate come luoghi di villeggiatura (Palm Beach/Florida 1917 ecc...)

- i sobborghi sorti grazie allo sviluppo delle grandi autostrade americane (Beverly Hills 1906 e Palos Verdes 1914/California ecc...).

[14] HOWARD E., L’idea della città giardino, tradotto ed annotato da G. Bellavitis, Bologna, Calderini, 1962, pp. 10 - 14.

[15]  Ivi, p. 100.

[16] GIORDAN P.L., Considerazioni intorno a “Garden Cities of tomorrow”, in: HOWARD E., L’idea della città giardino, tradotto ed annotato da G. Bellavitis, Bologna, Calderini, 1962, 

p. 165.

[17] Ivi, p. 184. La medesima frase si legge in: GUIOTTO L., La fabbrica totale, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 76.

[18] GIORDAN P.L., op. cit., p. 215.

[19] Ibidem.

[20] La legge Luzzati affidava la costruzione e la gestione (con l’acquisto o l’affitto) delle case popolari “in via prioritaria alle cooperative, ed in via secondaria alle società di mutuo soccorso, agli enti morali ed istituti di beneficenza, e ai comuni, attraverso la concessione di agevolazioni dirette come la cessione gratuita di aree fabbricabili di proprietà demaniale o la concessione di contributi finanziari, e di agevolazioni indirette come le esenzioni fiscali o l’autorizzazione a contrattare mutui a lunga scadenza e ad interessi di favore presso i pubblici istituti di credito. Si cercava inoltre di stimolare la proprietà individuale mediante acquisto o ammortamento assicurativo, privilegiando così solo alcuni strati della popolazione e suggerendo indirettamente la soluzione tipologica del villino”. [SELVAFOLTA O., La casa operaia a Milano 1960/1914, “Parametro”, n. 83, Bologna, gennaio-febbraio 1980, p. 27] 

Si fecero partecipare anche gli industriali ed i conduttori di terre ad alcuni dei benefici legislativi per stimolarli a provvedere abitazioni sane ed igieniche ai loro dipendenti. Alla “Luzzati” seguirono la legge dell’8 luglio 1904 n. 329 per la città di Roma, la legge 14 luglio 1904 n. 553 per la costruzione di case economiche per i ferrovieri con il relativo Regolamento 10 maggio 1908 n. 233 ed infine le due leggi 14 luglio 1907 n. 555 e 2 gennaio 1908 n. 5: quasi tutte queste leggi vennero riunite nel primo testo unico del 1908, R.D. del 27 febbraio n. 89. La legge delegava la costruzione di alloggi popolari a società di costruzioni, comuni, enti autonomi, e all’art. 8 estendeva l’esenzione dalla imposta erariale e dalle sovrimposte provinciali e comunali per le case popolari a 10 anni, comprendendo, all’art. 15 (ripreso dalla legge Luzzati) “con le norme e con le guarentigie che saranno sancite dal regolamento, le case popolari costruite da industriali, da proprietari o conduttori di terre e da essi vendute in ammortamento semplice o assicurativo ovvero date in affitto ai propri dipendenti, impiegati, operai, coltivatori”. [Si veda: MAGRINI E., Le abitazioni popolari. Case operaie., Milano, Hoepli, 1905]

Un nuovo Testo Unico si avrà nel 1919, il n. 2318 del 30 novembre, ed uno successivo nel 1938, il R. D. n. 1165 del 28 aprile. La nuova legislazione del primo dopoguerra in materia di case popolari imponeva obblighi ai comuni perché anche da parte loro concorressero nel favorire le costruzioni, provvedendo largamente al credito per le costruzioni edilizie, e determinando i contributi da parte dello Stato.  Il principio […] è quello per cui la politica delle case è compito e funzione dello Stato […]. Il concetto, tipicamente moderno, dello Stato come volano e regolatore dell’economia, come strumento di conciliazione fra le classi, e pertanto l’ideologia dello Stato come organo interclassista o sopra-classista, sono già qui applicati integralmente, senza attendere l’elaborazione fascista”. [ABRIANI A., La “casa per tutti” nella Torino prefascista. La formazione dell’edilizia popolare nell’analisi di alcuni programmi ed interventi all’inizio del secolo,” Edilizia popolare”, n. 117, Milano - Roma, marzo-aprile 1974]

[21] SCHIAVI A., Le case a buon mercato e le città giardino, Bologna, Zanichelli, 1911 [edizione consultata: ristampa a cura di P. Somma, Milano, Franco Angeli, 1985]. 

[22]  Ivi, pp. 190 - 193.

[23] ABRIANI A., I villaggi operai dell’Italia settentrionale come modello di insediamento, in: “Atti” del II seminario LAU, Gargnano, ottobre 1975, p. 4.

[24] Ibidem.

[25] MIONI A., Città industriale e trasformazioni urbane, in: AA.VV., Cento anni di industria, a cura di V. Castronovo, Milano, Electa, 1988, p. 194.

[26] CHOAY F., La città. Utopie e realtà, 2 voll., Einaudi, Torino, 1973.

[27] Ivi, pp. 12 - 16.

[28] Ivi, p. 17.

[29] J. Ruskin 1819-1900 esteta e critico della società, inglese, e il conterraneo W. Morris (1834 - 1896), fondatore del movimento Arts and Crafts. Le loro teorie sono riprese e si pongono, insieme ad altre, alla base dello stile Art Nouveau.

[30] CHOAY F., op. cit., pp. 17 - 20.

[31] Ivi, p. 22.

[32] Ivi, p. 26.

[33] Anche la citazione dagli scritti di Tony Garnier è tratta dall’op. cit. di CHOAY F., pp. 211 - 212.

[34] Nei piani urbanistici di Le Corbusier emerge l’idea di sostituire intere città o quartieri con poche unità di dimensioni giganti: quartieri urbani concentrati e sviluppati in verticale, che vengono immersi a grandi distanze tra loro in parchi pubblici.

La teoria urbanistica di L. Hilberseimer si sviluppa attraverso due fasi principali. Nella prima egli si interessa alla grande città, mettendo a punto un preciso tipo di piano urbanistico: la “città verticale”. La fase successiva coincide con l'avvicinamento ai problemi della pianificazione territoriale e dell'integrazione città-campagna. 

[35] CHOAY F., op. cit., pp. 26 - 38.