22 Marzo 2004 la stampa


IL LEADER DEL PRC: MA ADESSO L’ULIVO ASCOLTI IL MOVIMENTO


Bertinotti: Fassino lo sa
siamo contro la violenza

PERDONI , Bertinotti, tocca cominciare dalla contestazione a Fassino.
«Ancora? Quello che pensiamo di ogni forma di aggressività è arcinoto, Rifondazione ha elaborato una condanna della violenza attraverso un dialogo serrato con il movimento. Non dobbiamo tornarci sempre su».
Fassino l’ha chiamata per dargliene atto?
«La sua è stata una telefonata cortese, che ho molto apprezzato perché riconosce il percorso che abbiamo fatto. Se c’è una ragione per tornare sulla manifestazione di sabato è un’altra. Un punto essenziale».
Dica.
«Non credo sia stato molto capito, dai giornali e dalla politica, che il movimento propone un linguaggio originale. Davanti a questo linguaggio la politica che fa? Definisce un compromesso stiracchiato affinché tutti ci possano stare, ma questa modalità scoraggia la partecipazione. Il movimento fa l’opposto: sceglie una piattaforma radicale, il ritiro delle truppe dall’Iraq e il duplice no alla guerra e al terrorismo. Fatto questo dice okay, adesso dentro tutti».
Sta dicendo che a dispetto dell’episodio accaduto al segretario dei ds il movimento pacifista non è settario?
«Il movimento è radicale ma include tutti, a partire dal segretario dei ds, dice no allo schema che per essere radicali occorre essere settari, e per essere unitari occorre essere moderati e compromissori. Perciò Rifondazione lavora dentro questo pacifismo, perché la piattaforma di cui dicevo sia condivisa e tradotta in politica nel modo più inequivoco possibile».
Da alcuni segnali pare che ampia parte della sinistra moderata, non solo dentro i ds, guardi con nuova apertura a questa piattaforma. Ha la stessa sensazione?
«Direi di sì. Ci sono i 64 parlamentari che votano no alla guerra, ci sono associazioni vicine alla Quercia che si muovono, c’è nella Lista Prodi una divisione che pare evidente... Certo il vecchio schema è duro a morire, lo si è visto anche nella soi disant manifestazione in Campidoglio, con la confusa idea di un trasversalismo che per poter essere accettato rimuove la critica alla guerra».
Nell’esame della vittoria di Zapatero, nella sinistra italiana sembra aver prevalso un riflesso emulativo più che una riflessione. Per esempio la riflessione su una sinistra che, arrivata al governo, si rimette in sintonia con la propria opinione pubblica.
«Vede, trovo molto provinciale la nascita dello zapaterismo, zapa per zapa preferisco essere zapatista. Battute a parte, è miope leggere il caso spagnolo chiedendosi se ora la Spagna influenzerà l’Italia. Non è la Spagna o la Germania che influenza l’Italia, è il movimento globale che influenza Spagna Germania Italia e naturalmente America. Ora Kerry assume posizioni più diplomatiche, ma senza Dean non ci sarebbe stato Kerry. Insomma, è il pacifismo che lavora nel fondo, non l’imitazione di questo o quel leader che di volta in volta appare seducente. Zapatero certo l’ha capito, e prova a tradurlo in politica».
Già, l’opinione pubblica pacifista è maggioritaria in Occidente ma ovunque, e in particolar modo in Italia, non può rappresentare di per sé l’Alternativa: l’Ulivo quali suggerimenti può realisticamente accogliere dal movimento per tradurli in politica?
«Ovviamente il ritiro dalle truppe dall’Iraq. La questione dell’intervento dell’Onu per non essere retorica e stucchevole deve essere l’atto immediatamente successivo a questo ritiro».
E il resto? Pensioni, contratti, rapporto con i giudici: si risponde a tutto con la formula «stiamo dentro il movimento»?
«Intanto ascolterei il suggerimento di uscire dal quadro delle politiche monetariste».
E come?
«Ci sono idee come la Tobin Tax, ci sono beni come l’acqua che devono esser riconosciuti “comuni” e indisponibili, ci sono modifiche della Costituzione, pardòn, del trattato europeo, a partire dalla riforma del nostro articolo 11, ci sono sciagurate aperture sociali da respingere...»
Cose su sui sembrate distantucci dal centrosinistra.
«Abbiamo differenze reali, che è inutile far finta di non vedere. Sta al centrosinistra scegliere tra due possibilità: disporsi all’ascolto del movimento, cioè della sua gente, o restare prigionieri dell’idea che la gara si vince al centro, pronti a ereditare ipotesi neocentriste buone per tutte le stagioni».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

22 Marzo 2004- la stampa


LE AMMINISTRATIVE SCUOTONO IL PANORAMA POLITICO FRANCESE


La sinistra e Le Pen puniscono il governo e Chirac


Ma il premier in tv non si arrende: «Il mio programma non cambierà»

corrispondente da PARIGI
La sinistra francese, più o meno unita, si prende una rivincita sulla destra di Jacques Chirac due anni dopo le elezioni presidenziali che avevano umiliato Lionel Jospin e la maggioranza della «gauche plurielle», al governo dal 1997 al 2002. Ieri, nel primo turno delle regionali a cui ha partecipato il 62 per cento dei francesi (i sondaggi prevedevano il 50 per cento), vero test di mezzo termine per il governo di Jean-Pierre Raffarin, la sinistra ha superato il 40 per cento dei voti, mentre la destra si è fermata sotto al 34. L’estrema sinistra trotzkista, «rivoluzionaria» e nostalgica, nonostante il battage mediatico, ha preso un deludentissimo 5 per cento. Mentre Jean-Marie Le Pen, l'eterno uomo nero della politica francese, conferma il suo 17,5 per cento del primo turno delle presidenziali: un risultato che comprende il 2 per cento dell’Mnr del suo ex delfino Bruno Megret e che ne fa la «prima» estrema destra d'Europa. E per i francesi non è un bel primato.
Ma il vero senso politico di queste elezioni è la «sanzione» che punisce il governo e il suo primo ministro, plasticamente rappresentata dal risultato del Poitou-Charente, la regione che Jean-Pierre Raffarin ha presieduto per diciott'anni prima di venir chiamato ad occupare la poltrona più ingrata della politica francese, all'hotel Matignon dove ha sede il primo ministro. Nella sua regione, la «sua» candidata Elisabeth Morin ha preso il 34 per cento, mentre la sfidante socialista Ségolène Royale (ex ministro della famiglia e dell'istruzione) e moglie di François Hollande, primo segretario del partito socialista, ha sfiorato l'elezione al primo turno con il 47 per cento dei voti. La «France d'en bas», la Francia popolare, a nome della quale Monsieur Jean-Pierre Raffarin è stato nominato primo ministro, ha sconfessato il suo campione che però, in diretta tv, ieri sera verso le 9, non ha dato segni di cedimento: «Prenderemo le decisioni necessarie per l'avvenire dei francesi». Detto in altre parole: le riforme, per quanto impopolari, continuano.
Già ieri sera è così partito l'appello verso gli elettori di Jean-Marie Le Pen per un «voto utile» domenica prossima, quando si terrà il secondo turno: «Votare per l'estrema destra - ha detto Philippe Douste-Blazy, segretario dell'Ump, il partito di Jacques Chirac - significa votare per la sinistra». Il sistema elettorale francese è infatti a due turni, ma partecipano al ballottaggio non solo i due partiti che hanno ottenuto più voti, ma tutti quelli che hanno superato il 10 per cento. Ciò significa che il Front National sarà presente in 19 regioni su 22 sottraendo automaticamente voti di destra alla destra di governo e favorendo così il candidato di sinistra.
Ma il leader dell'estrema destra ha tolto ogni illusione agli uomini di Chirac fin da ieri sera: «Non ci ritiriamo, faremo nel secondo turno risultati migliori del primo. Il voto al Front National è ormai e chiaramente un voto di adesione e non solo di protesta. Chi si appella ai francesi per un voto utile, li vuole in realtà truffare».
Le Pen è apparso nello studio tv di Parigi in collegamento da Nizza, dove avrebbe voluto essere candidato, ma dove il prefetto ha cancellato il suo nome dalle liste elettorali per mancanza di domicilio fiscale. Episodio oscuro perché non si è mai capito se Le Pen si sia sottratto o abbia voluto fare la vittima. La regione Paca (Provenza-Costa Azzurra) era l'unica in cui - secondo le previsioni - avrebbe forse potuto sperare di avvicinarsi al successo. Il risultato per la lista Le Pen senza Le Pen è stato comunque impressionante: 23,5 per cento e nessuno saprà mai quanto avrebbe fatto se il duce del movimento fosse stato davvero candidato. In testa anche a Nizza e Marsiglia c'è la sinistra con il candidato Michel Vauzelle (presidente uscente) col 35 per cento, mentre Renaud Muselier, ministro nel governo Raffarin e uomo della destra chiracchiana arriva appena al 26 per cento.
Altra regione test l'Ile de France, la regione parigina, dove però la curiosità politica era data dalla lotta interna ai partiti di governo e cioé tra l'Ump di Chirac e l'Udf di François Bayrou che cerca in ogni modo differenziarsi: ha vinto l'Ump con François Copé, ministro portavoce del governo con il 23 per cento, mentre l'Udf del fotografatissimo André Santini ha preso appena il 16 per cento. In testa c'è comunque la sinistra di Jean-Paul Huchon, presidente uscente, con il 34 per cento, mentre il Front National guidato dalla figlia di Le Pen Marine ha preso il 13 per cento e l'estrema sinistra trozkista il 3,4. \

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

22 Marzo 2004


UNO SVANTAGGIO DI 7700 EURO SUI TEDESCHI, MA GUADAGNIAMO IN MEDIA IL 10% IN PIÙ DEI FRANCESI


Salari italiani più bassi che a Seul


Classifica Ocse sulla base del potere di acquisto

Clicca sull immagine per ingrandirlaROMA
Gli stipendi italiani sono più bassi di quelli sudcoreani. A parità di potere d'acquisto, una busta paga media a Seul pesa il 25% in più che una in Italia. E non basta. Nonostante l'arrivo della moneta comune europea, i lavoratori della Germania guadagnano all'anno una media di 7700 euro in più degli italiani: 28.916 euro contro i 21.857 di un dipendente italiano. Peraltro il reddito del lavoratore italiano è il 9-10% più alto di quello dei vicini francesi e supera di un 20-25% quello degli spagnoli.
A consentire un confronto fra la «retribuzione lorda annuale» dei lavoratori dipendenti è una statistica elaborata dall'Ocse sul peso del fisco delle buste paga nei 30 principali Paesi industrializzati. Il calcolo consente un confronto neutrale perché tiene conto del costo della vita e quindi elimina le differenze dovute ai diversi poteri d'acquisto.
Nella classifica dei paesi industrializzati gli stipendi italiani si piazzano al diciassettesimo posto. Per un dipendente l'Eden è rappresentato dall'Australia che conquista il primo posto in classifica con 30.477 euro. Ma per trovare uno stipendio più alto del 39% rispetto a quello italiano basta raggiungere la Danimarca dove si guadagnano in media 30.353 euro, ben 8400 più che in Italia. I tedeschi sono terzi in classifica con 28.916 euro di stipendio lordo.
Lo stipendio degli italiani è più leggero anche di quello dei coreani, che incassano 27.400 euro e sono ottavi in classifica. Fuori da Eurolandia ad avere uno stipendio più ricco di quello degli italiani sono anche i britannici (25.221 euro, il 15% più del reddito tricolore), gli statunitensi (27.269 euro) e i giapponesi (24.429 euro).
Comunque tra i Paesi che utilizzano l'euro gli stipendi italiani, a parità di potere d'acquisto, sono a metà classifica. I lavoratori del Belpaese guadagnano meno dei tedeschi ma anche di belgi (con 28.207 euro quarti nella classifica generale), norvegesi (27.502 euro) e lussemburghesi (26.791 euro). Ci si può consolare spulciando le buste paga dei francesi, che guadagnano solo 19.881 euro, degli spagnoli (17.471) e dei greci (12.627). I più poveri in assoluto sono i lavoratori slovacchi, il cui reddito lordo, sempre a parità di potere d'acquisto, è di 7362 euro, poco più di un terzo degli italiani. \