C''era una volta il Veneto-locomotiva, quello dei mille capannoni che
conquistano il territorio, delle mille imprese ricche di schei ed
egoismi: ora i capannoni sono semivuoti, gli schei un po' sfumati e
gli egoismi degenerati in impauriti rancori, gli ultimi frutti della
crisi globale. Ma prima ancora, tante crisi fa, c'era il Veneto molto
agricolo e un po' industriale, quello delle grandi famiglie «valligiane»
che si tenevano distanti da Venezia (e da Marghera): Rossi, Marzotto,
un bel pezzo del tessile italiano, il cuore del paternalismo tutto
casa e azienda, quello che attorno alla fabbrica ci costruiva i «villaggi
operai» per i vassalli della «moderna impresa».
Villanova, frazione di Fossalta di Portogruaro, via Ita Marzotto:
partiamo da qui, dal Linificio Canapificio Nazionale, per il nostro
viaggio nel congresso della Cgil. Da uno tra le migliaia di assemblee
di base che - almeno sulla carta - dovrebbero coinvolgere quasi sei
milioni di iscritti: metodo empirico e poco scientifico, il nostro,
per capire lo stato di salute del sindacato e, soprattutto, cosa
significhi «fare sindacato» nel mondo globalizzato e nel bel mezzo
di una crisi economica e sociale senza precedenti.
Lo stabilimento di Fossalta - suo malgrado - ben si presta allo scopo:
trent'anni fa - quando il Linificio era nel pieno della sua attività
- i dipendenti del settore tessile-calzaturiero-conciario in Italia
erano 1.100.000; oggi sono 600.000, un crollo sotto i colpi delle
delocalizzazioni a basso costo verso l'Est, del lavoro nero e, poi,
della concorrenza cinese. Così oggi il Linificio è considerata una
fabbrica senza futuro e nonostante le tante promesse di rilancio su
produzioni d'elite (il lino biologico), Marzotto prepara la
dismissione.
Tra la trentina di iscritti alla Cgil - in maggioranza donne - che si
ritrovano per il congresso si racconta la storia di uno stabilimento
che doveva essere un modello di «sviluppo integrato». Gaetano
Marzotto lo costruì, nel secondo dopoguerra, nel mezzo della sua
grande tenuta di campagna a nord-est di Venezia, a due passi dal «villaggio
vacanze marine» aziendale, seguendo l'idea del distretto
agroindustriale: un luogo di trasformazione dei prodotti della terra,
un contenitore unico per cotonificio, zuccherificio, linificio,
vetreria, latteria e cantina. Una sorta di fabbrica globale, il
principale punto di riferimento industriale della zona, al punto da
soprannominarla la «Fiat di Portogruaro». Ora, dei fasti del vecchio
Marzotto rimane solo il busto del conte all'ingresso di una spoglia
portineria in cui passano soprattutto i dipendenti della vetreria e i
pochi addetti della cantina sociale. Tutto il resto è archeologia
industriale, o quasi. A partire dal Linificio, il cui declino inizia
negli anni Novanta, non per una crisi di prodotto ma per le
delocalizzazioni in Tunisia e in Lituania. Poi sono «arrivati i
cinesi e siamo stati travolti - raccontano qui - non è bastata la
fusione con la Zignago, perché Marzotto pensa solo a tagliare». Come
a dire che qui la crisi è arrivata ben prima del crack finanziario
americano, che è frutto di una competizione tutta fatta sul costo del
lavoro.
E il sindacato? La Cgil? A resistere ci ha provato: prima due anni di
contratti di solidarietà, poi due anni di Cassa integrazione
straordinaria e, in mezzo, scioperi, picchetti, cortei, coinvolgimento
della politica, almeno quella locale, un tempo tutta centrosinistra,
ora un bel po' leghista-Pdl. «Ma, con i tempi che corrono -
raccontano i delegati della Rsu - noi siamo diventati una delle tante
crisi, i politici sono tutti presi da altre cose, da altre emergenze e
se proprio si devono occupare di crisi industriali, guardano a
Marghera... lì sono in tanti». Oppure preparano interventi di
piccola assistenza alla povertà, come la locale Conferenza dei
sindaci che sta mettendo in atto un pacchetto di sussidi in cui si va
dal «credito per i nuovi nati» al «bonus libri di testo», ad altre
agevolazioni, mettendo insieme tutto ciò che si può fare per legge
(nazionale o regionale): tutto, tranne qualunque intervento per il
lavoro. Quello viene lasciato al «mercato» che, di taglio in taglio,
ha ridotto i lavoratori del Linifico a poco più di 200, la metà di
dieci anni fa: solo per una sessantina di loro Marzotto promette un
futuro. Ma in molti dubitano delle parole aziendali, mentre l'oggi fa
i conti con i 750 euro della Cassa integrazione. Non che prima si
navigasse nell'oro: i contratti dei tessili sono tra i più poveri
dell'industria e con notturni e festivi - come si lavorava anche qui
ai tempi delle «vacche grasse» - si portava a casa meno di 1.200
euro.
Tutto questo ritorna nel piccolo congresso Cgil del Linificio. Nelle
parole dei due relatori - costretti a calare in una situazione così
difficile l'illustrazione di due documenti contrapposti - ma anche nel
silenzio che segue gli interventi di presentazione. Tiziana (mozione
1) e Gianfranco (mozione 2), prima di provare a far capire cosa le
rispettive posizioni significhino qui, al Linificio, aggiornano la
situazione delle trattative con l'azienda, spiegano che Marzotto è
disponibile solo a incentivare l'esodo e che ipotesi di ricollocazione
in altre imprese della zona non ce ne sono, per ora. Solo, come
sempre, i pochi mesi di lavoro stagionale estivo sulla costa,
soprattutto per le donne, soprattutto per le mansioni più umili.
Poi, sempre nel silenzio, si passa all'illustrazione dei due
documenti, che tradotti in chiave locale significano «ricerca di
alleanze per contrastare la crisi, più risorse agli ammortizzatori
sociali e meno tasse sul lavoro» per Tiziana, «presa d'atto che la
concertazione è finita, contrasto delle delocalizzazioni e degli
appalti al massimo ribasso» per Gianfranco. Pochi minuti ciascuno,
che «aprono e chiudono» il congresso, perché prima del voto (75
iscritti, 25 votanti, 4 nulle, 18 a 3 per il documento n.1),
l'assemblea si divide in tanti pezzetti, nei capannelli per ricucire
ciò che la fabbrica vuota ha separato. Almeno per un po'. Per qualche
minuto, in cui - assieme alle cronache del proprio quotidiano - c'è
anche il tempo per parlare comunque di un futuro. Di un sindacato che
visto da queste latitudini avrebbe bisogno di un bel salto di qualità,
oltre la gestione della crisi: «Noi non possiamo nemmeno salire sui
tetti - si sfoga una lavoratrice con una collega -, perché tutti
sanno le condizioni in cui siamo e la mancanza di prospettive. A forza
d'affrontare le crisi con responsabilità e di contrattarla siamo
scomparsi». «Ma a forza di batterci e urlare ci siamo sfiniti e
rimasti senza voce», ribatte l'amica. Per un attimo risuonano gli
echi di quando si era «di lotta e di governo», di quando conflitti e
negoziati intrecciavano una narrazione comune. Ma l'ora di assemblea
è finita, si torna a casa: fuori, nel deserto di un'industria che
scompare, con le sue storie.
(1-continua. Le prossime puntate si potranno leggere sul
"manifesto" in edicola)
di Adriana Pollice
NORD CHIAMA SUD. IL LAVORO FEMMINILE NELL'ITALIA
DIVISA
Il posto DELLE DONNE
Gli effetti della crisi sulla bilancia dei
generi. Come si complica il quadro del mercato del lavoro se si volge
lo sguardo verso Sud. Un incontro a Napoli a partire dall'ultimo «Sottosopra»
della Libreria delle donne di Milano
La crisi economica scoppiata nel 2009 come punto fermo da cui far
ripartire un ragionamento sul mercato del lavoro. Un discorso svolto,
però, a partire dall'analisi femminista del mercato, quello
presentato dalla sociologa Lorenza Zanuso, venerdì scorso a Napoli.
L'incontro, organizzato da Luisa Cavaliere e la fondazione Rive
Mediterranee, partiva dal manifesto redatto dalla Libreria delle Donne
di Milano Immagina che il lavoro ("Sottosopra", novembre
2009). La fotografia che restituisce racconta di un calo
dell'occupazione che ha colpito più gli uomini che le donne (con un
meno 2%, cioè un calo di 137mila unità, a fronte di un meno 0,9%,
pari a 59mila unità) sia pure a partire da una situazione di forte
svantaggio delle donne. Il nuovo fattore di allarme per loro, perciò,
non riguarda la disoccupazione, che non ha subito scossoni, ma la
fetta crescente di inattive scoraggiate, quelle cioè che un lavoro
hanno smesso di cercarlo.
La crisi, secondo l'analisi della Zanuso, ha contribuito a bloccare
l'accesso al mercato delle più giovani, consentendo di conservare il
posto alla fascia più tutelata che va dai 35 ai 45 anni, un impiego
tuttavia declinato secondo le forme classiche del posto fisso, l'unico
che conserva parte delle tutele giuridiche. Un lavoro, quindi, che
tende ad escludere forme autonome, flessibili, part time, producendo
due fratture fondamentali, una generazionale e l'altra sociale. Un
mercato sempre più vecchio e ingessato che finge di non registrare il
dato di fatto che le donne svolgono un lavoro produttivo
contemporaneamente alla «manutenzione dell'esistenza» propria e
altrui. È su di loro che una struttura economica modellata sul
modello maschile produce l'impatto più forte: «Nei paesi più ricchi
- si legge nel manifesto - se si somma il lavoro in casa (non pagato)
e fuori casa (pagato), la bilancia tra i generi tende ad andare in
pari: donne e uomini lavorano lo stesso numero di ore, ma le donne
fanno più lavoro domestico e gli uomini più lavoro pagato. Questa
'regola' ha delle eccezioni: Italia, Spagna e Francia. Qui le donne
continuano a lavorare in complesso più ore degli uomini perché, pur
lavorando fuori casa, non hanno ridotto le ore di lavoro domestico».
Un modello, quello elaborato dalla Libreria delle donne di Milano, che
racconta molto del presente del centro e nord Italia, così come dei
paesi europei, ma non sembra bastare spostando lo sguardo al sud. «Il
paese si sta spaccando - spiega Luisa Cavaliere - perché con la
scomparsa dei partiti di massa è venuta meno la loro funzione di
collante e di integrazione, che faceva circolare istanze e conoscenze
in un'Italia che imparava a riconoscersi». «Non abbiamo le sedi di
partito - così la risposta del gruppo milanese con Lia Cigarini - ma
abbiamo gruppi sparsi nel paese eppure della frattura nord-sud non ne
abbiamo parlato, come se fosse un tabu. Non sappiamo nulla del
mezzogiorno e delle sue dinamiche». La giornata di studio è servita
a mettere sul piatto l'altra metà, quella non detta, del mercato del
lavoro. «Il Mezzogiorno accetta come un destino la deriva alla quale
la destra, ma non solo la destra, lo abbandona» spiega Luisa
Cavaliere, secondo cui affrontare la micidiale frattura che nutre la
differenza nord-sud significa affrontare la pervasività delle
organizzazioni criminali: «Un fenomeno che da noi produce una
ramificazione culturale e sociale di sostegno, una politica
connivente, modelli simbolici che la diffondono incessantemente.
Mafia, camorra e 'ndrangheta trasformano il diritto al lavoro, e poi
le sue scansioni, in un favore, in un dono, in un'occasione di
ricatto. E questo avviene perché nel Mezzogiorno le relazioni sociali
invadono le relazioni di lavoro».
Allora diventa importante aggiungere un nuovo tassello al quadro
complessivo, la dinamica economica e sociale innescata da una realtà
come la camorra: «Si tratta di un'organizzazione presente sul
territorio da duecento anni - spiega Isaia Sales - che si è evoluta
con il suo contesto. La storia della camorra è una storia di
relazioni con la politica e non solo, è una storia di ascesa sociale
attraverso i soldi, la violenza come capitale attraverso cui
realizzare l'accumulazione originaria di beni per gli investimenti».
Un fenomeno urbano con delle dinamiche simili a quelle di ogni grande
centro urbano occidentale, ma anche con caratteristiche proprie
affrontate nel suo ultimo libro I preti e i mafiosi (Baldini Castoldi
Dalai editore): «La domanda che ci ossessiona - spiega ancora Sales -
è la seguente: le organizzazioni criminali di tipo mafioso avrebbero
potuto ricoprire un ruolo plurisecolare se, oltre alla connivenza di
settori dello stato e di parte consistente delle classi dirigenti
locali, non avessero beneficiato del silenzio, dell'indifferenza,
della sottovalutazione e anche del sostegno dottrinale della teologia
che trasforma degli assassini in pecorelle smarrite da recuperare».
Un contesto in cui le donne, soprattutto all'interno della camorra,
assumono posti di rilievo ma soprattutto trasmettono apparati e catene
di comando maschili, rafforzando un sistema che nel complesso blocca,
cristallizza le dinamiche sociali.
Un sistema squilibrato e di sfruttamento che si riproduce e si
moltiplica anche se si sposta lo sguardo su lavoratori e lavoratrici
migranti. La riflessione quindi è aperta, in via di elaborazione la
pubblicazione di un Rapporto sul lavoro che metterà a confronto il
nord e il sud del Mediterraneo, a cura di Alain Touraine.
di Gabriele Polo
INCHIESTA Seconda puntata del viaggio
congressuale: i pensionati e la rappresentanza «dopo il lavoro»
La terza età del sindacato
Lo Spi è da sempre la «cassaforte» delle
energie umane ed economiche di Corso d'Italia. Un «sindacato dei
cittadini» che vuole far contare di più il peso dei propri iscritti
dentro la Cgil. Anche a costo di riscrivere le regole a congresso già
aperto. Sotto il contenzioso sui delegati che divide l'organizzazione,
il problema di una sintesi confederale che diventa sempre più
difficile
Tre milioni di iscritti, cinquemila «funzionari» (tra dipendenti,
part-time e volontari), bilancio annuale di otto milioni di euro. E'
lo Spi-Cgil, un colosso che arriva ovunque e cui è iscritto un
pensionato italiano su tre. Una grande risorsa per il più grande
sindacato italiano, in termini umani e materiali, politici ed
economici: fondamentale «riserva» di energie militanti, una sorta di
vecchia guardia napoleonica pronta a sostenere ogni campagna; ma anche
la cassaforte cui attingerere per finanziare iniziative e
manifestazioni, ricorrendo alla cassa più ricca della confederazione,
grazie a tessere che costano pochissimo (45 euro l'una) ma che sono
tantissime. Gente - quasi tutta - passata per la Cgil di Lama e
Trentin, per il Pci di Longo e Berlinguer. Qualcuno ha anche memoria
di Di Vittorio e di Togliatti. E quando c'è da prendere un pullman
per una manifestazione, sostenere una lotta, dare una mano a
raccogliere firme o a compilare una dichiarazione dei redditi, i «vecchietti»
non si tirano indietro. Insomma, un vero patrimonio.
Ma anche un problema: perché un «invecchiamento» eccessivo rischia
di cambiare la natura di un sindacato nato per rappresentare il lavoro
e se i pensionati diventano più numerosi degli «attivi», gli
equilibri finora garantiti dalla «confederalità» vanno in crisi.
Come sta accadendo in questo congresso, visto che il confronto tra due
documenti contrapposti ha messo a nudo una certa difficoltà a
praticare il plurarismo e ha rivelato che anche le regole sono
invecchiate. Inoltre c'è un nodo che travalica - ma coinvolge - la
Cgil. Lo sbriciolarsi (culturale, prima di tutto) della sinistra ha
eliminato il problema della «cinghia di trasmissione» - i partiti
sono irrilevanti e nemmeno ci provano a dare «indicazioni» -, ma il
vuoto politico ha accentuato il ruolo di supplenza del sindacato,
spingendolo ad assomigliare sempre più a un soggetto politico,
dimaniche interne comprese.
Paradigma politico
Non è un caso che proprio lo Spi sia diventato, nel
congresso in corso, sintomo e oggetto di tutto questo. Per la storia
dei suoi iscritti, perché è chiamato ad affrontare i problemi della
cittadinanza, perché è anche un'organizzazione di servizi. E offrire
un servizio - socialmente utile e a basso costo - in cambio di una
tessera è altra cosa da rappresentare e contrattare una condizione di
lavoro (categorie) o il futuro di una comunità territoriale (camere
del lavoro). Nel peggiore dei casi si rischia la bulimia, come è
accaduto a Piacenza la cui Camera del lavoro è stata messa «sotto
tutela» dalla Cgil nazionale perché in molti si sono ritrovati
iscritti allo Spi-Cgil senza saperlo, in automatico. Ma anche senza
arrivare a tanto il pericolo di una mutazione di rapporto c'è e lo
spirito confederale dello Spi potrebbe portarlo a comportarsi come una
vera e propria confederazione.
A segnalare che una nuova fase si stava aprendo è arrivata una «rivendicazione»
dello stesso Spi sull'attribuzione dei delegati per i congressi
confederali, dalle Camere del lavoro al nazionale che si terrà dal 5
all'8 maggio prossimi. Il numero dei delegati è distribuito, in
proporzione agli scritti, tra le categorie che compongono la Cgil. In
«automatico» ne deriverebbe la maggioranza assoluta per il sindacato
dei pensionati, ma fino a ieri questo peso considerato «eccessivo»
veniva corretto con la cosidetta «quota di solidarietà»: lo Spi
cedeva la metà dei suoi delegati alle altre categorie e al «centro
confederale», seguendo sempre un criterio di proporzionalità.
Insomma, nelle platee congressuali i pensionati erano circa il 25% del
totale, pur avendo oltre il 50% degli iscritti. Questo fino a ieri,
perché ora lo Spi ha chiesto il pieno rispetto della proporzionalità
democratica, cosa che porterebbe il sindacato pensionati a determinare
la maggioranza assoluta dei delegati e - in linea teorica - a decidere
la linea della confederazione. Aprendo un bel problema di
rappresentanza del lavoro - per un sindacato già poco radicato nella
crescente quota di precari - e generando la reazione furibonda della
mozione 2 - quella di «opposizione» - convinta che la «manovra»
miri a penalizzarla nella conta finale. Chiamato in causa, Epifani ha
promesso un intervento che riporti la situazione allo status
precedente, senza offendere nessuno: sono allo studio complicatissimi
meccanismi di «riequilibrio», che magari garantiranno le due
mozioni, ma che rischiano di aumentare a dismisura le platee
congressuali (in alcune Camere del lavoro sono preoccupatissimi per
dover cercare sale più grandi e più costose del previsto) e,
soprattutto, generano un numero di delegati non eletti ma «nominati»
con criteri politici e non rappresentativi.
Veneto bianco, Emilia rossa
In tutti i casi la questione è stata posta, persino
brutalmente, un po' da tutte le parti. Così al congresso Spi di
Castello-San Marco-Sant'Elena, a Venezia (500 iscritti, 30 i
presenti), il confronto tra i due documenti congressuali diventa
soprattutto una discussione sul futuro dello Spi. Da un lato il
segretario generale della Camera del lavoro, Sergio Chiloiro -
documento n.2 - che inizia mettendo le mani avanti: «Nessuno vuole
sciogliere lo Spi», risponde preventivamente alle «strumentalizzazioni
di chi vuole stravolgere un problema serio, quello del rapporto tra
chi va in pensione e le categorie di provenienza. Posto da noi per il
bene dello Spi e della Cgil». E poi prosegue con la «necessità di
cambiare passo di fronte a una fase nuova, di crisi pesante e
concertazione finita», ammettendo le difficoltà di esercitare il
pluralismo e i conseguenti limiti dell'azione sindacale, i rischi di
rassegnazione all'esistente. Dall'altra parte, Piergiorgio Carrer
della segreteria veneziana dello Spi, per il documento n.1, evita la
polemica diretta ma chiede «dove erano i critici di oggi quando si
votavano le scelte all'unanimità», paventa le divisioni, esalta la
forza dell'unità e insiste sulla ricerca del consenso più che sulla
pratica del conflitto. Nessun accenno alla grana dei «delegati»,
nemmeno nel dibattito che coinvolge la piccola rappresentanza dei
39.000 iscritti allo Spi veneziano (su 77.000 tesserati alla Cdl
lagunare). I pochi interventi si preoccupano più dell'avvento di
Brunetta a sindaco (dato quasi per scontato), di «come non limitarsi
alla politica del ballo e delle tombole», del «tanto che c'è da
fare sul piano dell'assistenza» e «delle tessere che vengono fatte
ma non consegnate agli iscritti» (lo denuncia un arrabbiatissimo
signore che si presenta come fondatore del primo sindacato dei
parrucchieri, 1945). Così cresce la sensazione che il rapporto tra
iscritti e partecipazione (e peso) congressuale sia perlomeno da
aggiustare. Alla fine - dopo che anche un'esponente di «Lavoro e
società» tira le orecchie alla mozione n.2 - spazio al seggio
elettorale: rimarrà aperto per due giorni, ma voteranno solo in 26
(13 per la n.1, 9 per la n.2, 4 nulle). Pochi voti ma molto pesanti:
qui si eleggono dieci delegati.
La scarsa partecipazione non è una novità - all'ultimo congresso
veneziano aveva votato il 10% degli iscritti allo Spi - ed è un
canovaccio che si ripete un po' dappertutto. Anche nella fedelissima
Emilia lo scenario non cambia di molto. E non è solo una questione di
numeri. Come esplicitamente emerge al congresso della frazione di
Pegola di Malalbergo (Camera del lavoro di Bologna: quasi 100.000
pensionati su 170.000 iscritti), dove lo Spi si racconta come «sindacato
dei cittadini», perché «quando uno va in pensione non c'entra più
nulla con quello che era prima, con il lavoro che faceva e, quindi,
con la categoria di provenienza». Una nuova identità, quindi,
ovviamente separata da tutte le altre, un vero e proprio «sindacato
generale dei diritti della terza età». E qui si ritorna al
contenzioso sui delegati tra maggioranza e minoranza e sul rapporto
Spi-Cgil. Ma il problema che si pone va ben oltre il sindacato
pensionati, perché la strada delle identità separate investe anche
gli «attivi» e rischia di portare al coorporativismo - soprattutto
in un mercato del lavoro frantumato, in una società sempre più
parcellizzata e come si è visto nell'ultima tornata contrattuale,
dove alla rottura dell'accordo separato Cisl-Uil-governo ogni
categoria della Cgil ha reagito in modo diverso. Cosicché la
confederalità (il «sindacato generale» di Di Vittorio) si traduce
in politiche generali e nelle sintesi dei diversi gruppi dirigenti.
Una sorta d'incrocio tra movimento d'opinione e partito politico. Una
«pericolosa mutazione», per citare due pensionati famosi, due ex
leader sindacali (e non solo sindacali) che, dopo essersi divisi per
anni su quasi tutto si sono ritrovati d'accordo a sostenere - da
pensionati - il documento n.2: Sergio Cofferati e Fausto Bertinotti.
Il «come eravamo» della Cgil.
(2-continua)