La pace nella guerra, la guerra nella pace
Le pratiche di pace femminili mostrano che il rifiuto
della guerra comporta la rivoluzione di tutto il lessico della politica. Per
chiarire le occulte parentele che legano la violenza pubblica e quella privata,
e per inventare una politica della relazione contro la politica dell'identità
PAOLA MELCHIORI
Le considerazioni di Adriana Cavarero sul rapporto
fra guerra e politica (Una
politica oltre il potere, sul manifesto del 28
febbraio scorso) mi stimolano a una riflessione ulteriore che parte dalle molto
diffuse quanto poco note o quantomeno poco considerate «pratiche di pace» delle
donne, pratiche che hanno popolato la storia recente in molti luoghi difficili
del pianeta. Sono d'accordo con la lucida e nitida radicalità con cui Cavarero
prospetta la vicinanza/continuità tra politica e guerra ed evidenzia, del
femminismo, la spinta al ripensamento radicale dei concetti di base che fondano
il nostro pensare e il nostro vivere.
Poco note, poco
considerate, attribuite al pacifismo tutto femminile del materno, o alla
«vocazione sacrificale» delle donne, da molti (quanti?) anni, nei luoghi dove
ogni dialogo si è ormai spento, si ritrovano gruppi di donne che non cedono
nell'estenuante pratica del dialogare, parlarsi, continuare a confliggere, non
rompere del tutto. Israele, Palestina, Colombia, Irlanda, Gran Bretagna, ex
Jugoslavia per citare le più note, India-Pakistan, Ruanda, in ognuno di questi
luoghi esistono tentativi di non arrendersi alle frontiere segnate dalla
storia. Oggi, ogni organizzazione di incontri internazionali deve fare i conti
con la eventualità di incontri/scontri/ dialoghi estremi tra «nemiche
potenziali» o definite come tali dalla storia e da una soggettività che alla
storia comunque non può sfuggire. Il ragionamento di Cavarero mi permette di
esplicitare con maggiore chiarezza ciò che questi tentativi testimoniano, di
tirarli fuori da una eccessiva ovvietà, da facili stereotipi.
Per chi non pratica
queste esperienze e questi luoghi e ne vuole avere una idea un po' più che
descrittiva, invito alla lettura di un libro, non recentissimo, ma molto
attuale in questa discussione, The space between us, Negotiating Gender and
National Identities in Conflict (Zed Books). Cinthia Cockburn vi analizza le
caratteristiche di queste pratiche in tre zone calde del mondo,
Israele-Palestina, Irlanda-Gran Bretagna, ex Jugoslavia. Vi si trovano spunti
utili al dibattito in corso, che da un lato evidenziano le premesse necessarie
a una possibilità di dialogo, tra persone in guerra potenziale o reale: la
rinuncia a una politica dell'identità, per esempio. Dall'altro vi si descrivono
le strategie che appunto le donne si sono inventate, nelle varie e molto
diverse situazioni, per stare al di qua della guerra, della rottura, per
mantenere uno spazio abitabile dall'idea di relazione. Vi si descrivono i
vissuti delle singole, si osano alcune ipotesi interpretative. Sono pratiche
del tentativo di usare il conflitto al posto della guerra, pratiche che si
collocano fuori dalle ideologie e sembrano fondarsi sulla disperata necessità
del salvataggio di una relazione con le altre donne, sulla preservazione anche
di uno spazio fisico comune, una «casa delle donne», per esempio, dove prima
che il conflitto si radicalizzasse le donne si incontravano, in una sorta di
terreno franco. Sono pratiche che cercano di preservare uno «spazio tra», uno
spazio transnazionale e«transizionale» , più importante di ogni ideologia, di
ogni identità da difendere, o terra, o principio. Pratiche che sono state
affinate con l'esperienza, fatte anche di stratagemmi, di usi abili e
consapevoli del silenzio, politiche del «fermarsi e deviare» prima che...
sperimentate nel tempo, senza ingenuità, dove tutte sanno qual è la posta in
gioco, dove vengono sapientemente dosate le possibilità emotive di conflitto di
ognuna, i suoi limiti.
Tali pratiche,
rigorosamente, condividono la radicalità di alcune revisioni concettuali. Prima
di tutto esse sono fondate sulla più o meno esplicita coscienza che vi sia una
occulta parentela da chiarire, comprendere, disfare e ri-comporre, tra il
maschilismo della guerra e le violenze che popolano le case, i luoghi privati
di quell'amore tradizionalmente contrapposto alla guerra dall'immaginario
maschile. Mi ha più volte colpito come molte delle donne della rete
internazionale di cui faccio parte che vengono da zone di guerra, dal Sudan ,
dal Mozambico, facciano tesi (di laurea o master) sulla guerra da cui
provengono. Molte finiscono per focalizzare la contrapposizione tra guerre di
liberazione e guerre nelle case. Molti titoli suonano: «Pace nella nostra
terra, guerra nelle case». Molti dei racconti, negli incontri post pace,
evidenziano i paradossi della pace dei tempi di guerra e delle guerre dei tempi
di pace, secondo una percezione, quella delle vite femminili, che impongono
rovesciamenti, ridefinizioni inaspettate. Pace e guerra si riempiono di significati
opposti.
La nascita di una
nuova antropologia può avvenire soltanto se e quando divenga impossibile
«saltare» le domande che ri-accomunano in ogni singolo soggetto l'autoanalisi
della distribuzione pulsionale tra le due «guerre», le due violenze, quella tra
i sessi e quella tra uomini. Ciò che accomuna questi tentativi sono lo sforzo e
il coraggio, che è stato già di molte donne, di guardare dentro il pozzo dei
propri desideri, complicità, miserie, distribuzioni pulsionali, tenendo insieme
questi paesaggi pubblici e privati. Alcuni uomini ci hanno provato, a partire
dal vecchio libro di Glenn Gray, del 1959, The Warriors, diario da soldato in
Italia, durante la seconda guerra mondiale, di un intellettuale americano. Ce
ne sono ormai molti altri. Senza un lavoro di questo tipo ogni teoria della
guerra e della pace, ogni pacifismo non puramente tattico ma sostanziale sarà
sempre monco, di superficie, inadatto a sfiorare le forze profonde che operano
nel sostenere le guerre, il desiderio di guerra, la repulsione della guerra, i
sogni dell'andare e del tornare, i paradossi di paci che diventano altre guerre
e di paci che coprono altre guerre.
In quale luogo sarà
analizzabile questo rovesciamento dei luoghi comuni? Sarà possibile trovarne
uno in cui liberamente si possano rimettere in questione i significati, le
definizioni concettuali di pace, guerra, conflitto, a tutto campo? Questa è una
delle questioni culturali e politiche su cui si giocano oggi sia la possibilità
di un dialogo tra i sessi che la stessa presenza politica non subalterna delle
donne nello spazio pubblico. Quanto di questa estenuazione dialogica cui le
donne non rinunciano si basa sulla comune consapevolezza che esistono altre
guerre e altre paci da trovare e che i fondamenti dell'una e dell'altra
«pescano» in quell' altro fondo, vivo e trasversale alle ideologie politiche,
oltre il marxismo, che è il patriarcato?