liberazione- 28-04-04

 

Oggi mobilitazioni in tutta Italia con scioperi e presidi davanti alle Prefetture

Otto ore a Melfi

 

 

In Basilicata si svolgerà uno sciopero generale di 8 ore, proclamato dalla Fiom. In tutte le altre regioni, invece, 4 ore per turno. A Torino, la Fiom invita i lavoratori a scioperare dalle 9,00 alle 13, 00 con presidi fuori dai cancelli e in prefettura. Altre iniziative similari ad Asti, Cuneo e a Verbania. A Genova, corteo verso la prefettura. Presidio della rappresentanza del Governo anche a La Spezia. A Savona, invece, scioperi articolati nei diversi luoghi di lavoro. In Lombardia, saranno effettuati altri presidi delle Prefetture a Bergamo, Lodi e Varese e all'Alfa Romeo di Arese. Infine, a Brescia gli scioperanti formeranno un corteo che, unendo idealmente i due poli della protesta, partirà dallo stabilimento Iveco per raggiungere la prefettura. Anche in Veneto, presidi davanti alle prefetture di Padova, Belluno e Vicenza. A Treviso, presidio davanti alla Fiat. In provincia di Venezia, presidi davanti alla Fincantieri di Porto Marghera, l'Aprilia di Noale e l'Alcoa. In Friuli-Venezia Giulia manifestazione a Monfalcone. In Emilia-Romagna, saranno effettuati presidi davanti alle Prefetture di Parma, Forli' e Rimini. Presidi davanti a stabilimenti del gruppo Fiat saranno invece effettuati a Bologna e Modena. A Reggio Emilia saranno presidiate le portinerie. A Ferrara, ci sarà invece un concentramento di lavoratori davanti alla Fox Bompani di Ostellato. Ad Ancona sara' effettuato un presidio davanti alla sede regionale della Rai. Presidi delle Prefetture anche a Terni, Roma, Frosinone e in varie città della Campania. Scioperi articolati a Lucca, Pesaro, Ascoli Piceno, Macerata nonché in Sicilia e Sardegna.

 

Morchio: «Pronti a dilscutere dei problemi organizzativi dei lavoratori», ma non c'è nessun riferimento alla "doppia battuta"

Fiat, dai manganelli al tavolo sindacale

 

 

La Fiat è pronta a discutere dei problemi che i lavoratori avanzano nella piattaforma. La dichiarazione di Morchio è piuttosto solenne. Ed avviene davanti alle telecamere del Tg1 poco dopo la fine dell'incontro con i sindacati. L'amministratore delegato dell'azienda parla di «problematiche di tipo organizzativo che possono creare disagi ai lavoratori», ma è chiaro che si riferisce alla "doppia battuta". Una dichiarazione inimmaginabile qualche giorno fa quando di fronte ai primi rumors di mobilitazione a Melfi il numero uno del Lingotto dichiarava che per il confronto sindacale bisognava aspettare tempi migliori. Non solo, ma nel tentativo di arginare l'onda montante finiva col firmare l'ennesimo accordo separato, un accordo "senz'anima" firmato da Fim e Uilm, le organizzazioni di categoria di Cisl e Uil, utile solo a far partire le cariche davanti ai cancelli del "prato verde". Morchio aggiunge pure che la fabbrica di Melfi «è strategica per Fiat Auto. E' una fabbrica nella quale abbiamo investito molto e pensiamo di investire 630 milioni di euro nei prossimi tre anni», aggiunge. «In un contesto di sovracapacità produttiva abbiamo evitato chiusure di stabilimenti italiani e - conclude - abbiamo definito un ruolo per ciascun stabilimento, compreso anche quello di Termini Imerese e di Mirafiori». Ovviamente non entra nel merito di tutte le richieste avanzate dai lavoratori, dal salario equiparato a tutti gli altri lavoratori del gruppo Fiat alla diminuzione dei carichi di lavoro e alla scandalosa questione dei provvedimenti disciplinari. E si limita a parlare di «svolta», pretendendo la rimozione «contestuale» dei blocchi.

I "tempi migliori", guarda caso, arrivano in fretta e sono quelli della lotta e della mobilitazione. Solo così la Fiat alla fine ha accettato di incontrare i sindacati. Per il momento solo Cgil, Cisl e Uil. Che ieri si sono presentati ai massimi livelli davanti alla sede dell'azienda a Roma in via Bissolati.

Un incontro veloce, al termine del quale i volti più rilassati sono quelli del segretario della Uil Luigi Angeletti e di quello della Cisl Savino Pezzotta. «Riprende la trattativa. La data del tavolo verrà decisa con le segreterie dei metalmeccanici», taglia corto il premier della Uil. Sicuramente, aggiunge, potrebbe essere prima del quattro maggio.

Per Paolo Ferrero, membro della segreteria nazionale del Prc, «adesso si tratta di riuscire a portare a casa gli obiettivi posti dai lavoratori. E questo sarà l'esito delle lotte, a partire dallo sciopero generale generale di domani (oggi, ndr), e dalla prosecuzione articolata della lotta di Melfi. In ogni caso - conclude Ferrero - decisivo sarà il parere vincolante dei lavoratori».

Le parole di Giorgio Cremaschi, segretario della Fiom, che ieri è stato a stretto contatto con i lavoratori davanti alla Fiat di Melfi, sono molto chiare. «Andiamo avanti con la lotta. Se il paragone è il modello scaturito dalla vicenda delle acciaierie di Terni, vuol dire che se ci sono evoluzioni positive si modificheranno le forme di lotta». «Non paghiamo alcun ticket per sederci al tavolo», conclude.

Alla fine della lunga assemblea dei rappresentanti sindacali di Fiom, Slai. Cobas e Ugl escono più o meno le stesse posizioni. I lavoratori parlando di «flessibilizzazione» delle forme di lotta nel caso in cui l'azienda accetti di trattare e di dare risposta positiva alle richieste. All'incontro hanno dapprima partecipato alcuni rappresentanti sindacali di Fim e Uilm ma vista l'insostenibilità delle loro richieste hanno deciso di non prolungare oltre la loro presenza.

Fabio Sebastiani 

A Melfi la lotta non si ferma. Ieri nessuno si è presentato al lavoro

 

A mantenere il presidio anche alcuni dei feriti nelle cariche di lunedì. Oggi la manifestazione davanti alla fabbrica

Melfi

nostro inviatoE'trascorsa in modo tranquillo l'ottava notte in bianco degli operai della Fiat Sata di Melfi. Ieri nessun crumiro ha osato presentarsi al lavoro e così la vergognosa scena del giorno prima che aveva visto poliziotti e carabinieri manganellare lavoratori pacificamente schierati per impedire l'accesso allo stabilimento dei pullman aziendali (ma chi voleva entrare a lavorare avrebbe potuto farlo, purché a piedi) non si è ripetuta. Per alcuni, è il segnale di una tregua, in attesa di novità dai corridoi delle diplomazie sindacali. Nel frattempo ha smesso di piovere. Anche se il sole resta nascosto tra le nuvole. Mentre il clima fuori dai cancelli si fa più disteso. Un contributo lo dà il chiosco che vende bibite e panini, punto di incontro (obbligato) sia per le forze dell'ordine che per i manifestanti. E tuttavia c'è chi porta ancora i segni della violenza subita: «All'ospedale - racconta Rosario Calandra, delegato Fiom, - mi hanno dato dieci giorni di prognosi. Sono stato preso a calci nella schiena, assieme a un mio compagno, perché c'eravamo messi in ginocchio con le mani in testa davanti al pullman che portava i crumiri, per non farlo passare. Un gesto assolutamente pacifico. Se volevano intimidirci hanno ottenuto l'effetto contrario. Altro che minoranza di facinorosi. La gente è dalla nostra parte, nessuno viene a lavorare perché siamo stufi di essere sfruttati».

Gli operai, ancora infreddoliti per l'ennesima notte passata all'addiaccio, si scaldano con l'arrivo di buon mattino del segretario generale della Fiom, Gianni Rinaldini, accolto da un caloroso applauso. «E' evidente - osserva subito Rinaldini - che le cariche hanno avuto un effetto controproducente per la Fiat, perché nei turni successivi non si è presentato nessuno. Questa è la dimostrazione del livello di consenso che sta dietro a questa protesta decisa direttamente - sottolinea il leader della Fiom - dai lavoratori di Melfi». Anche Giovanni Russo Spena, deputato di Rifondazione comunista, è reduce da una notte passata tra i falò degli operai: «Il governo parla di una minoranza che blocca la produzione? Venga qui Sacconi, vedrà che c'è tutta una comunità che lotta insieme per dignità e diritti». Altrettanto dure le parole di Cesare Salvi, vicepresidente del Senato, giunto in tarda mattinata: «Il governo non si occupa dei problemi di lavoratori che vivono in condizioni inaccettabili per un paese civile, ma si preoccupa invece di far intervenire la polizia. Una posizione scandalosa». Incomprensibile invece è la sentenza emessa ieri dal giudice civile di Melfi, dietro richiesta della Fiat, con la quale si ordina alla Fiom di rimuovere i blocchi. «A nessun lavoratore è impedito di entrare», taglia corto Giorgio Cremaschi, segretario nazionale Fiom.

Questa mattina lungo il perimetro della Fiat Sata sfilerà la manifestazione decisa in concomitanza con lo sciopero generale di otto ore proclamato dalla Cgil in Basilicata (quattro ore per i soli metalmeccanici nel resto d'Italia). E poi? «Il modello di riferimento per noi - spiega Rinaldini - è quello di Terni. I blocchi continuano finché la Fiat non accetta di sedersi attorno a un tavolo con la rappresentanza sindacale di Melfi e tutti i sindacati. Inoltre il negoziato deve prevedere in partenza il referendum tra i lavoratori sull'eventuale ipotesi di accordo». Qualcuno ricorda al segretario della Fiom le parole pronunciate il giorno prima da Umberto Agnelli («Così si regalano vetture alla concorrenza»). «Non è che i lavoratori si divertono a bloccare la produzione - ribatte Rinaldini -. Se Agnelli ha queste preoccupazioni ci convoca e si apre la trattativa. Non bisogna dimenticare che la vicenda Melfi deriva dal comportamento della Fiat, che a fronte degli scioperi sulle piattaforme dei lavoratori dell'indotto ha risposto mettendo in libertà gli operai di Fiat Sata, sperando di mettere in contrapposizione gli uni con gli altri. E' invece successo il contrario: all'ennesima messa in libertà, i lavoratori della Sata hanno detto "adesso basta"». Pochi metri più in là c'è Carla Cantone, segretaria confederale Cgil, che smentisce prese di distanza dalla Fiom da parte di Guglielmo Epifani: «Noi non rinunciamo mai all'unità sindacale - premette - ma rimane il fatto che la Cgil è comunque con i lavoratori».

Melfi è diventata punto di riferimento di una vertenza che ormai riguarda tutti gli stabilimenti della Fiat. Ieri sono arrivati qui due pullman con circa 100 operai della Sevel Val di Sangro. Ma ci sono delegazioni anche dello Slai Cobas di Pomigliano, della Fiom di Brescia, di Mirafiori. Giulio Petrillo, ad esempio, è delegato Fiom della Fma di Gm di Pratola Serra (Avellino): «I problemi di Melfi sono anche i nostri - spiega Giulio -. A Pratola Serra abbiamo gli stessi livelli salariali degli operai della Sata (inferiori del 15% rispetto agli altri ndr). Da dieci anni non abbiamo preso mille lire di aumento al di fuori del contratto nazionale, perché quello integrativo non ci viene rinnovato». A Melfi, in più, c'è il problema delle condizioni di lavoro. Carmine lavora all'Officina 77, al montaggio: «I ritmi sono massacranti - racconta -. Negli ultimi tempi quando dovevi andare in bagno non ti potevi muovere perché l'addetto che ti dà il cambio in queste circostanze non era mai disponibile in quanto utilizzato sulle linee». Dal '98 ad oggi Carmine ha collezionato 17 giorni di sospensione. «Tutto è cominciato - racconta - dal momento in cui ho iniziato a fare sciopero. Sono arrivati a sostenere che non avvisavo il mio capo quando ero in malattia. Ho portato i tabulati telefonici che comprovano le chiamate da me effettuate in azienda ma mi hanno sospeso lo stesso».

Roberto Farneti  

Rifondazione: «Difendere il valore reale dei salari dall'aumento dell'inflazione»

La proposta di legge presentata ieri

 

 

Difendere il valore reale dei salari dall'aumento dell'inflazione. E' questo l'obiettivo della proposta di legge presentata da Rifondazione per «la grave condizione di emergenza sociale» in cui versa il nostro paese, come sottolinea il segretario del Prc Fausto Bertinotti. Gli effetti di un tasso d'inflazione, cresciuto - nel periodo 2001-2003 - di ben 16 punti percentuali sono sotto gli occhi di tutti. «Secondo i dati Istat - sottolinea Alfonso Gianni, deputato di Rifondazione - il 4,2% delle famiglie italiane vive al di sotto della soglia di povertà assoluta, che denota l'incapacità all'acquisto di un paniere di determinati beni e servizi essenziali». E un altro 11% vive in condizioni di povertà relativa. In sostanza, «per una famiglia di due persone, la soglia di povertà relativa è pari a una spesa di 823,45 euro mensili». Da qui la proposta basata su un nuovo meccanismo «che difenda in modo automatico il valore reale delle retribuzioni non intendendo violare e sostituirsi alla contrattazione tra le parti sociali, ma intervenendo solo nel caso in cui l'inflazione programmata sia più bassa di quella reale e che intende lasciare inalterati i contenuti degli accordi sindacali vigenti in materia consentendo anche un rilancio dei consumi». Il meccanismo è semplice: quando l'inflazione reale si rivela superiore a quella programmata, la differenza, corrispondente alla derivante diminuzione del valore reale delle retribuzioni verrebbe inserita nella busta paga dei lavoratori dipendenti da imprese private e pubbliche entro il primo mese dell'anno successivo a quello di riferimento. «Nulla a che fare con la scala mobile» dunque, come spiega ancora lo stesso Bertinotti, ma la necessità di introdurre una "clausola di salvaguardia" che consenta di intervenire "a posteriori" e non a priori per recuperare lo scostamento tra inflazione programmata e inflazione. Il Polo? Ha rifiutato ogni forma di dialogo, presentando un emendamento - «fatto unico nella storia parlamentare», fa notare Alfonso Gianni - soppressivo dell'articolo unico su cui si fonda la proposta. «Non si tratta solo di un aspetto sostanziale ma anche formale - conclude il deputato di Rifondazione - perché ferisce le regole democratiche della negoziazione». Viene non solo azzerata la dialettica parlamentare ma di fatto viene assunto un comportamento da "vero regime". «E' lo stesso atteggiamento del resto - conclude Bertinotti - che sceglie di caricare un presidio pacifico addirittura inerme come quello di Melfi». Ma ora è troppo, è «ora di dire basta».

CM 

Tutta la solidarietà attorno alle tute blu in lotta

 

 

Due ore di sciopero a Mirafiori, dalle 9 alle 11, proclamate dalla sola Fiom. Comincia così la giornata della solidarietà con i lavoratori di Melfi. La loro mobilitazione sta diventando sempre più il simbolo di un movimento che tocca categorie sempre più ampie. Contro l'arroganza che è, contemporaneamente, della Fiat e del governo.

Testimonianze di solidarietà sono giunte direttamente dai lavoratori del settore agroalimentare di Parma, tutti rappresentanti sindacali della Flai-Cgil. Le Rsu di Telecom Italia (Lombardia) sottolineano di essere «a fianco» delle tute blu di Melfi e nello stesso tempo «considerano inaccettabile la pratica degli accordi separati». Tra le sigle sindacali, c'è da segnalare il messaggio della Fillea Lombardia (segreteria) e dello Slai-Cobas di Taranto. Il Comitato direttivo della Camera del lavoro di Reggio Emilia esprime «piena solidarietà» e sottolinea la necessità di «riconquistare ai lavoratori il diritto di decidere sulla contrattazione collettiva». La Cgil sarda esprime piena solidarietà ai lavoratori di Melfi «vittime di un grave atto di forza della polizia che riporta a tempi che credevamo consegnati alla storia». La Cgil sarda - prosegue la nota - auspica che la vertenza realizzi gli obiettivi di perequazione che persegue, e ritiene che spetti ai lavoratori interessati, insieme alla loro Rappresentanza Sindacale Unitaria, decidere sul prosieguo dell'iniziativa e valutare i possibili esiti.

Per Piero Bernocchi, della Confederazione Cobas, «è chiaro che la Fiom e i lavoratori hanno bisogno di una grande solidarietà. E questo deve valere anche per il movimento antiliberista che non deve lasciar sola la punta più radicale».

I Giovani comunisti del Prc promettono una presenza massiccia oggi nelle mobilitazioni di protesta.

«Solidarietà agli operai di Melfi: perché i loro diritti oggi, saranno i nostri domani»: è il messaggio degli studenti dell'Uds. La federazione provinciale di Chieti di Rifondazione Comunista scende in campo in appoggio sia ai lavoratori della Fiat di Melfi che a quelli della Sevel di Atessa e nei prossimi giorni organizzerà una raccolta di fondi per la cassa di resistenza operaia. Per Augusto Rocchi, segretario provinciale del Prc di Milano, va accolto l'invito della Fiom «alla mobilitazione e ad assumere iniziative per fermare il tentativo della Fiat di cancellare le libertà sindacali». Il Prc di Trieste porterà la sua solidarietà fin davanti alla Ferriera di Servola, domani, in occasione della mobilitazione.

Parole di solidarietà anche dal Consiglio regionale della Toscana. La mozione, presentata dai gruppi del Pdci e del Partito della Rifondazione comunista. votata impegna la giunta regionale e il suo presidente Martini «a intraprendere un'azione concreta, coinvolgendo tutto il livello istituzionale toscano, nei confronti del governo per favorire un'azione rapida e positiva della vicenda».

Fa. Seba.

Una notte con
gli operai

Davanti ai cancelli

 

 

Impari tanto, a Melfi, una notte intorno ai falò dei blocchi, in mezzo a questa splendida comunità lucana. Melfi, non lontano da Battipaglia, dove, nel 1969, due lavoratori furono uccisi dalla polizia lottando contro le gabbie salariali. Una discriminante storica. Si è creata, qui ai blocchi, una speciale relazione politica, emotiva, una connessione sociale tanto soggettivamente differente eppure tanto simile alla consonanza perfino affettiva che vivemmo nel '69. Come a Termini Imerese, rinasce il conflitto operaio meridionale "dentro e contro" la globalizzazione; appaiono i materiali che si sono formati sotto la crosta di dieci anni di silenzio operaio, di incubazione di una ribellione. È questo che leggi nei visi determinati e gioiosi di queste giovani lavoratrici e lavoratori: con le gabbie salariali, con una gerarchia autoritaria e militarista, con condizioni di lavoro disumane, ci hanno privato di senso, ci hanno tolto la dignità. Ora, ti dicono, la riconquistiamo, con un percorso di lotta che va da Scanzano, a Rapolla, alla lotta altermondialista, sino a Melfi. Senza la disobbedienza di massa di Scanzano non si sarebbe giunti ai blocchi di Melfi. A questi giovani lavoratori arrivano spente, mute, inutilmente minacciose le parole dell'ordinanza del Prefetto di Melfi di rimozione dei blocchi, come la minaccia di Fini dagli Stati Uniti o dal Ministero dell'Interno: "interveniamo per neutralizzare i provocatori". Qui a Melfi l'impressione è di una coazione a ripetere emergenzialista ed autoritaria, che nega in radice ogni ribellione, ogni conflitto: i pacifisti sono amici dei terroristi; la totalità solidale dei lavoratori di Melfi, le delegazioni operaie degli stabilimenti Fiat, le comunità lucane non sono una splendida narrazione sociale e civile, ad avviso dell'azienda e della sua protesi governativa, ma solo un pugno di "provocatori" da abbattere e rimuovere. Alle prime luci del mattino una ragazza mi chiede: "ieri, mio padre, che ha fatto le lotte bracciantili, mi ha nominato Scelba; mi spieghi bene chi era questo Scelba"?

Giovanni Russo Spena   

Il lavoro al centro della politica

 

Lo sciopero generale dei lavoratori metalmeccanici in sostegno alla lotta di Melfi. Il blocco generalizzato dei voli e degli aeroporti per la vertenza Alitalia, proclamato da tutte le organizzazioni sindacali. Ecco due eventi reali, sociali, che caratterizzano la giornata di oggi: un pezzo ampio e significativo del mondo del lavoro che scende in campo e torna protagonista. L'orizzonte generale, certo, è sempre più segnato dalla spirale guerra-violenza-terrorismo, che avviluppa il mondo e determina, insieme alla nostra attenzione e al nostro impegno per la pace, perfino la nostra quotidiana emotività. E tuttavia questa nuova esplosione del conflitto sociale non solo ha straordinaria rilevanza in sè e per sè, ma è parte integrante di una risposta autonoma e alternativa allo stato d'eccezione che si vorrebbe imporre: quello dettato dalla crisi delle ricette neoliberiste, e dall'incapacità delle destre di governo di fronteggiarle con strumenti democratici. Il lavoro - ecco il punto - rilancia le sue ragioni e le sue rigidità, costringe la politica a misurarsi con esse, ne modifica l'agenda. In questo senso la sua convergenza con le istanze del movimento pacifista è profonda, non è, nient'affatto, il frutto di una contingenza temporale. Non è nemmeno soltanto un legame di natura politica, il fatto cioè che il governo servo fedele degli Usa, quello che mantiene ad ogni costo le truppe italiane in Iraq e coinvolge il nostro paese in una guerra sciagurata, è lo stesso che scatena la repressione contro gli scioperanti di Melfi e che elabora un "piano" che distrugge l'Alitalia e l'occupazione in un settore strategico. E' anche - forse soprattutto - una connessione sempre più organica tra la rivendicazione di un mondo liberato dall'orrore della guerra e una società costruita sui diritti e i bisogni essenziali delle persone.


Lo strumento concreto di questa possibile nuova consapevolezza è antico come il movimento operaio: è la scelta della lotta. Così hanno fatto i lavoratori di Melfi - nove giorni di blocco della produzione e di presidio della loro fabbrica - per affermare istanze "elementari", quale quella di un salario eguale ad eguale prestazione lavorativa, quale quella dell'apertura di un vero tavolo di trattativa con i vertici Fiat. Per questi obiettivi, un'intera comunità lavorativa si è mobilitata in uno sciopero ad oltranza, il solo che potesse incidere, e ha subito la violenza delle forze dell'ordine. Ora, forse, nelle prossime ore si vedrà che - una volta di più - la lotta paga, vince le arroganze padronali, supera la logica degli accordi separati.

Così hanno già fatto - e faranno oggi - i lavoratori dell'Alitalia, che si rifiutano di diventare una razza in via di estinzione, in omaggio alle logiche di privatizzazione e alla cecità di chi governa. E anche qui il contrasto, nella sua "semplicità", ha natura strategica e attiene al modello di civiltà verso il quale si vuole andare. Nella giungla selvaggia prefigurata dal capitalismo senza consenso e senza egemonia, non c'è spazio di sorta per i diritti e i bisogni di massa. Per quella dignità "assoluta" del lavoro che è alla radice del conflitto di oggi.

Rina Gagliardi        

 

Parla Domenico Cersosimo, docente di economia regionale all'Università di Calabria e studioso delle relazioni industriali sul territorio

Fiat di Melfi, sofisticata ma gracile

 

 

Melfi si ferma e interviene la polizia. Come mai il tempio della tecnologia avanzata della Fiat - dirigenti e operai tutti assieme in una grande famiglia - è balzato nelle cronache di questi giorni per una protesta che sembra appartenere a tempi passati? Eppure sarebbe illusorio rifarsi a vecchi scenari per comprendere la crisi di uno stabilimento che più d'ogni altro ha sperimentato un nuovo modello di relazioni. «Innanzitutto, va compresa la strategia della Fiat. Non comprendiamo quello che accade se non ragioniamo sui motivi che hanno spinto l'azienda a impiantare uno stabilimento nel territorio di Melfi», spiega Domenico Cersosimo, docente di economia regionale all'Università della Calabria, oltre che studioso del modello territoriale della Fiat.


Qual è il principio dell'organizzazione postfordista di Melfi?

Può essere descritto come il modello del "prato verde". E' la ricerca di ambienti sociali non contaminati dal vecchio modello fordista caratterizzato da alta conflittualità, ipercentralismo e gerarchie rigide. Per la prima volta la Fiat prova a misurarsi con il nuovo modo di produrre automobili sperimentato in Giappone: la produzione snella del just in time. Lo stabilimento viene ripensato alla radice, fin dal momento della progettazione, per ridurre il più possibile la penosità fisica del lavoro. Il nuovo modello ha bisogno del consenso dei lavoratori tanto da investire persino sugli aspetti estetici dello stabilimento, sul colore e la forma architettonica, riducendo al minimo il contrasto con il paesaggio circostante. Il secondo punto è l'azzeramento del pregresso. In passato Mirafiori era il modello e questo schema si trapiantava in maniera meccanica in altre zone d'Italia, portando con sé un nucleo già formato di ingegneri e operai specializzati. La razionalità del modello fordista era predeterminata, congegnata per raggiungere il risultato massimo in un'economia di scala riducendo il più possibile i costi - quindi i prezzi - per un mercato di massa esteso a una larghissima fascia di consumatori. Ad un certo punto i dirigenti Fiat hanno capito che questo modello non andava più, la qualità era bassa, la produzione si inceppava e via di seguito.


E quindi pensano allo stabilimento su "prato verde"...

Costruito ex novo. Persino nel nome c'è la novità, non si chiama Fiat bensì Sata, società automobilistica a tecnologia avanzata. Anche se la proprietà è immutata, con la Fiat non ha nulla a che fare dal punto di vista giuridico formale. Non ci si vuol portare dietro il pregresso dell'azienda, si vuole azzerare una storia di relazioni industriali e sindacali. Tanto è vero che prima ancora di lanciare lo stabilimento la Sata costringe il sindacato a firmare una deroga alle leggi che regolamentano il lavoro notturno, anche per le donne. Non è necessario in quest'ottica scegliere una grande città. Gli operai, la sera, tornino a casa, coltivino la terra, facciano quel che vogliono, purché non si addensino intorno alla fabbrica. Niente cinture periferiche ma dispersione in un bacino geografico molto ampio tra Basilicata, Campania e Puglia. E poi Melfi è un'area baricentrica, un nodo strategico rispetto agli altri stabilimenti del Mezzogiorno. Questo aspetto ha a che fare con la crisi di questi giorni e ha permesso al blocco di far saltare il gioco d'intrecci delle subforniture.


In questa regione non esiste una classe operaia con una storia sedimentata alle spalle. Qual è il profilo del lavoratore di Melfi?

I lavoratori sono soprattutto giovani e locali, pronti a "starci", a farsi permeare dal nuovo modello produttivo, a lavorare al ritmo di sei giorni a settimana (con quattro giorni di riposo ogni tre settimane). Questi turni sarebbero improponibili a Mirafiori. Chi mai riuscirebbe a convincere un operaio torinese a rinunciare al sabato? La Fiat preferisce agire in ambienti - come quello di Melfi - dove gli stili di vita non sono così rigidi e le persone sono "incontaminate".


La nuova organizzazione consegna al conflitto operaio una carta in più da giocare?

Se l'ossessione del fordismo era "tutto dentro", internalizzare nella fabbrica tutte le fasi della produzione dalla fonderia all'ultimo bullone, adesso invece la fabbrica dimagrisce, diventa molto più snella, si concentra sul montaggio e tutto il resto si fa fuori - le plance, le batterie, i retrovisori. Non c'è accumulazione delle scorte, i subfornitori riforniscono le produzioni just in time. Il magazzino è decentrato presso i fornitori creando relazioni di dipendenza molto strette. Ora, proprio perché questo meccanismo è molto sofisticato, tende a essere proporzionalmente molto gracile e aumenta il rischio di intoppi. Se si ferma uno, si fermano tutti. Il conflitto esce subito fuori dai confini locali.


Uno di questi intoppi non previsti è la rinascita di conflittualità dei lavoratori. Si pensava che operai senza storie di lotte pregresse fossero più remissivi. Cosa è accaduto?

Il primo punto è che, per funzionare, gli incastri tra le subforniture devono essere oliati alla perfezione. Ma soprattutto, c'è bisogno del consenso dei lavoratori, che questi siano sempre disponibili ad alimentare quel meccanismo che tuttavia li penalizza. Non essendo, infatti, inquadrati come operai Fiat - allo stesso livello dei lavoratori degli altri stabilimenti - non godono degli stessi diritti e salari. Melfi ha una delle produttività più alte, ma con salari tra i più bassi in virtù del fatto che gli operai non hanno storia alle spalle. Tuttavia, l'ingenuità del management della Fiat, per così dire, è non aver pensato che dopo dieci anni di lavoro un ragazzo accumula conoscenze, relazioni, competenze tecniche. Aumenta il potere individuale e collettivo degli operai, i sindacati sono cresciuti e la coscienza è più matura.

Tonino Bucci         

Luigi Pintor analizza con grande lucidità la crisi che ha attraversato e attraversa ancora la fabbrica torinese. Anticipazioni dal libro in uscita

«Una sconfitta del capitalismo italiano tronfio e inetto»

 

 

Pubblichiamo uno dei capitoli del libro "Punto e a capo" (Manifestolibri, pp. 158), di prossima uscita, che raccoglie gli scritti di Luigi Pintor, pubblicati sul "Manifesto" dal 2001 al 2003. Si tratta, in questo caso, di un capitolo dedicato alla vicenda Fiat, dal titolo "Pietà per la Fiat, 12 ottobre 2002".


Non è un lutto nazionale, la crisi della Fiat. E non è una crisi, ma un fallimento senza riscatto. Una sconfitta padronale, del capitalismo italiano trionfo e inetto, un piccolo otto settembre della classe dirigente. Una caduta degli dei senza grandezza. Lasciamo stare il passato storico, gli esiti monarco-fascisti del risorgimento, la disfatta del movimento operaio dopo la prima guerra mondiale, un triste passato che neppure la lotta di liberazione ha cancellato e che pesa ancora sul presente. Contentiamoci dell'ultimo mezzo secolo.

Per cinque generazioni centomila operai hanno prodotto di decennio in decennio la nostra ricchezza negli stabilimenti targati Fiat, torinesi e decentrati, multinazionali ed extra-nazionali. Emigrati a milioni dal sud al nord e dal nord nelle periferie del mondo. Il lutto riguarda solo loro, il fallimento è consumato a loro spese e ricade sulle loro vite.

La Fiat ha espresso il meglio di sé, sotto questo aspetto. Ha prodotto sì e no un solo modello intelligente di automobile ma, in compenso, ha esercitato splendidamente il suo dominio sulle maestranze del più grande insediamento operaio nazionale umiliandole in mille modi. La gloria dei suoi proprietari e manager non è la Topolino, la cementificazione del territorio, la «qualità totale» millantata e la competizione mercantile affidata alla formula uno, ma si riassume simbolicamente nei reparti confino e nell'espulsione di 61 sovversivi. Me ne ricordo perché fu l'ultima stagione di Berlinguer.

La Fiat ha dato anche il meglio di sé nello scambio politico con i governi del paese, quali che fossero. Protezionismo e rottamazioni, soldi che perfino B. Craxi un giorno le rinfacciò, in cambio di una autorizzazione piemontese a procedere in qualsiasi direzione e con camicie di qualsiasi colore. Oggi si vede a occhio nudo, i suoi giornali e i suoi intellettuali organici sono più berlusconiani di Mediaset, in spasmodica attesa di provvidenze governative che rendano più praticabile la svendita della perla nazionale ai colossi americani o europei.

E' strano che i cantori del capitale, per una volta, non incolpino di questo sfascio gli esuberi, l'avidità contrattuale dei salariati, l'invadenza dei sindacati di classe, dello statalismo e dei comunisti. E' strano che non invochino come giustificazione la crisi epocale del mercato dell'auto. Non è per pudore, è che non sanno cosa dire perché non possono ammettere che un tempio del capitale imploda e crolli su se stesso e su tutti i filistei.

Nessun lutto, il capitalismo è un idolo e quello italiano è dorato solo in superficie. Non è il solo, anche altrove ci sono palloni gonfiati che scoppiano. La dignità abita più in basso, tra le masse di sconosciuti che non profittano ma lavorano e producono senza riconoscimento, senza voce né potere. Se il 18 ottobre riaffermerà questa dignità sarà un giorno, almeno un giorno, di rivalsa e quasi di festa. 

"Quelle scene anni '60" dall'editoriale di Luciano Gallino su Repubblica

 

 

Ma non erano scomparse le tute sporche di grasso o vernice, le file di facce stanche alla fine del turno di notte, le due ore in autobus per andare e tornare dal lavoro, le fasi di lavorazione di due minuti per prendere un pezzo del cestello, azionare un meccanismo e ricominciare, 240 volte al giorno?

Il lavoro non era diventato tutto camici bianchi e schermi di computer, macchine fruscianti che da sole costruiscono altre macchine, una passeggiata saltuaria lungo le linee per vedere che tutto funzioni bene? Le persone al lavoro non erano diventate per l'azienda preziose "risorse umane", da formare e trattare con ogni riguardo al fine di farle sentire partecipi, ovvero responsabili, dell'intero processo produttivo?

A dedurre da quel che sta accadendo in questi giorni negli impianti Fiat di Melfi parrebbe proprio di no. Lo scenario di Melfi sembra uno spezzone di film sulle fabbriche e sui modi di lavorare degli anni '60. Ci si ritrova quasi tutto, di quell'epoca, comprese le manganellate dei poliziotti sulle spalle degli operai. C'è il lavoro durissimo, i bassi salari, l'organizzazione del lavoro fondata su tempi e metodi imposti da uffici imperscrutabili (sostituiti oggi da computer parimenti imperscrutabili), il controllo opprimente dell'apparato azienda su ogni istante della giornata lavorativa. Perfino le comunicazioni dei provvedimenti disciplinari - 2500 solo nell'ultimo anno - sono scritti nel linguaggio di allora (...).

Continuando a proiettare quel vecchio film, la Fiat, con l'aiuto del governo, ha però ottenuto un risultato imprevisto: il ritorno della classe operaia, quanto meno di una delle sue frazioni storicamente più significative, quella dei metalmeccanici. Scriveva Max Weber che una classe sociale si definisce come una comunità di destino. E' quello che hanno capito benissimo gli operai di Melfi. E quel destino che li accomuna non gli piace per niente. E' un destino che promette soltanto fatica, lavoro usurante, difficoltà economiche, scarsa o nulla crescita professionale, rischio di emarginazione dal mercato del lavoro appena si superano i quaranta. Dieci anni fa i loro padri o fratelli o sorelle maggiori non avevano protestato più che tanto, di fronte alla fabbrica che portava posti di lavoro in aree ancora contrassegnate dal sottosviluppo. Le nuove leve non gradiscono, e lo fanno sapere, muovendosi insieme (...) come se appartenessero - fatto inaudito secondo la modernità vista da destra - ad un'unica classe sociale.

Se i futuri sviluppi confermassero che il ritorno dei metalmeccanici come classe sociale non è un fatto contingente, la Fiat ha un problema, ed i sindacati ne hanno un altro. Se vuole continuare e produrre mantenendo entro limiti tollerabili il livello di conflittualità in azienda (...) deve forse innovare radicalmente il modello di relazioni industriali che applica nei suoi stabilimenti da oltre mezzo secolo. Al precetto base "voi lavorate, noi pensiamo", dovrebbe sostituire l'idea che più sono quelli che pensano, meglio va la produzione in ogni suo segmento (...). Per i sindacati, ovviamente, il problema è quello della rappresentanza (...). Il caso Melfi dimostra che vi sono tuttora larghi strati di lavoratori che non sono dispersi nello spazio, sono inquadrati da contratti simili e debbono far fronte a condizioni di lavoro analoghe. Hanno insomma un destino comune (...). Dinanzi a questo fatto l'unità sindacale, almeno su alcuni punti essenziali, diventa un dovere non meno che una necessità.