Lilia Davite |
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Lilia
Davite insegnava ai bambini, e anche agli adulti.
Insegnava generosità, moralità, finezza intellettuale, rispetto
della parola data, fiducia negli altri. Il che non la rendeva affatto un
monumento alle virtù sacrificali: amava divertirsi, ridere, innamorarsi,
viaggiare, sapeva godere di una buona cena, di una festa, di
un’escursione in montagna. Era anche una persona vulnerabile, vorrei
dire “delicata”, cui il destino aveva dato intelligenza, brillantezza
e carattere in quantità, ma non la protezione rappresentata da nervi a
prova di sofferenze e disincanti - e per quest’ultimo aspetto mi
riconoscevo in lei. Figlia
di genitori valdesi, bella, piccolina, occhi grandi e una massa di
capelli neri,era nata il 20 marzo 1952, aveva fatto in tempo a vivere uno scorcio della
stagione dei movimenti, aveva scritto su giornali della sinistra, abitato
in una comune; si era laureata in storia, aveva cominciato a fare la
maestra. Nei primi anni ottanta aveva partecipato
a una vasta (forse la più vasta in Italia) raccolta di storie di
vita di sopravvissuti/e ai lager nazsisti, promossa dalla sezione
piemontese dell’Aned, l’associazione dei deportati e
delle deportate. Era un’impresa difficile: difficile ascoltare
quei racconti, porre domande pertinenti ma non intrusive, creare una
relazione con chi narrava per condividere il ricordo. Lilia in questo era
strarodinaria, le sue erano fra le interviste più belle, insieme profonde
e discrete. Poi
aveva collaborato alla stesura di un’antologia di brani dei racconti, e
anche in questo era stata maestra. Era un altro un lavoro complicato.
Perché volevamo che ogni persona comparisse nel libro con le sue
espressioni più significative, mentre lo spazio era limitato, e come
spesso succede, non tutto quello che nella narrazione orale era efficace
manteneva la stessa forza una volta trascritto. Ma era complicato anche
perché leggere e rileggere quei racconti ci faceva entrare sempre
più a fondo in un gorgo di dolore. Per quasi due anni, abbiamo
lavorato fianco a fianco con altre ricercatrici e ricercatori, ma spesso
ci siamo trovate lei e io da sole, a cercare fino a notte tarda la parola
giusta, il montaggio di brani più rispettoso dello spirito
dell’intervista, ma anche più adatto al taglio dell’antologia. Che
voleva costruire un discorso corale, senza soffocare gli “a solo”, ma
facendo risuonare anche le voci più
flebili. Non era perfezionismo, sebbene tutte e due fossimo affette
dalla coazione a fare e rifare, era senso di responsabilità verso che ci
aveva regalato la sua storia e verso chi l’avrebbe letta. Ne è nato un
libro, La vita offesa. Storia e
memoria nel racconto di duecento sopravvissuti, che porta, e molto
forte, l’impronta di Lilia e dei suoi due talenti: l’originalità del
pensiero, che le faceva intuire connessioni impreviste tra fenomeni, e la
precisione assoluta con cui le passava al vaglio. Lilia ha continuato per anni a
occuparsi di deportazione e genocidio. Ha scritto Myth, impotence, and survival in the concentration camps, in The
Myths we live by di Raphael Samuel e Paul Thompson,
e La testimonianza di un ex deportato in un scuola elementare della
cintura torinese. Non
voglio fare una bibliografia, ma non posso non citare almeno questi due
testi, particolarmente il secondo, in cui analizzava una esperenza fino
allora mai tentata: Lilia aveva invitato nella sua classe un ex deportato,
Ferruccio Maruffi, perché raccontasse ai bambini la sua storia di
prigionia. Era un azzardo, e infatti molti pensavano che in quinta
elementare fosse troppo presto per avvicinarsi a quella realtà. Ma un
azzardo molto ben guidato: Maruffi è un grande narratore, attentissimo a
calibrare i contenuti a seconda di chi ha davanti; Lilia aveva preparato i
bambini all’incontro; dopo, aveva chiesto loro di disegnare quel che
avevano capito, un modo per esprimere le emozioni e discuterne insieme.
Ricordo, fra le altre, un’immagine del lager rappresentato come un
animale enorme e minaccioso, una balena, uno squalo gigante pronto a
inghiottire i prigionieri. L’intervento in cui aveva raccontato
quell’esperienza e mostrato quei disegni era stato fra i più seguiti in
un convegno internazionale degli ultimi anni ottanta. Poi
Lilia aveva iniziato una serie di viaggi/soggiorni in Oriente e in Africa,
dove scopriva via via modi di vita e orizzonti che la colpivano a fondo.
Ma era lontanissima dal farne un mito, e non perché aveva letto Said, ma
perché le era stato subito chiaro che le teorie più avanzate possono
facilmente trasformarsi in costruzioni artificiali sovrapposte a quei
mondi. Tornava con molti racconti, con molte fotografie. Ricordo
soprattutto quelle dei giocattoli che i bambini africani si costruivano
con materiali di recupero, cartone, latta, fogli colorati, rotelle di
vecchi ingranaggi – camioncini, casette per i pupazzi, scatole,
microcarretti, tutti visibilmente pericolanti
ma belli, variopinti, allegri. E’ stato un pezzo importante della sua
vita. Che
Lilia abbia deciso di morire è un dolore per chi le ha voluto e le vuole
bene. Io vorrei solo dire che questa mia amica preziosa non era una
persona capace di abituarsi alle ingiustizie, di voltare le spalle agli
altri; e che questa sua dote/ricchezza/fardello aveva poco a che fare con
le ideologie, e molto con la
sua nativa limpidezza di animo. Anna Bravo . LILIA Ho
conosciuto Lilia nel 1970. Doveva
avere 18 anni, poiché aveva appena finito il liceo. Era
stata coinvolta attivamente, forse freneticamente, nelle lotte
studentesche. Non
si sentiva di iscriversi subito all’università: voleva continuare un
impegno politico e vivere un pezzo della sua vita di giovane impegnata ed
entusiasta fuori dai luoghi privilegiati, protetti, isolati dalla vita
reale, come possono essere quelli accademici. Per
questo chiese di venire a vivere per un anno (che diventarono tre) nella
comune di Cinisello, di cui anche io facevo parte. Eravamo
una ventina di adulti in media sui trent’anni, e sei bambini, alcuni
sposati, altri single,
insegnanti, operai, tecnici, assistenti sociali, impiegate, disoccupati,
studenti. Avevamo scelto di andare a vivere nella brutta e nebbiosa
periferia industriale milanese per seguire da vicino le lotte operaie di
quegli anni caldi e pieni di promesse di cambiamento. Nel tempo libero,
gestivamo una scuola serale per preparare all’esame di terza media
lavoratori e lavoratrici che avessero bisogno della licenza o che
semplicemente volessero approfondire le loro conoscenze. La scuola era
gratuita e tutti gli insegnanti volontari. Oltre ai membri della comune
molti venivano ad insegnare da Milano o da altri comuni della cintura. Il
nucleo promotore era formato da evangelici, ma presto si aggiunsero,
cattolici, atei, agnostici. Non
so cosa attrasse Lilia, ma credo la vita comunitaria e forse soprattutto
la possibilità di partecipare alle lotte del movimento operaio. Io
avevo 15 anni più di Lilia. Potevo esserle sorella maggiore o addirittura
giovanissima mamma, in realtà il rapporto che ci unì fu di grande
amicizia e condivisione di ogni tipo di impresa che fosse politica,
avventurosa e semplicemente divertente. Lilia
era la più giovane del gruppo, ma il suo impegno, la sua intelligenza ,la
sua modestia, la sua autonomia di iniziativa facevano dimenticare la sua
giovane età. Trasmetteva una carica di vitalità e fantasia che pur
passando a volte i limiti del lecito, o meglio del “buon senso
comune”, rappresentarono una ventata di freschezza, di allegria, di
genuinità e fantasia tali che mi è impossibile pensare a quegli anni
senza pensare a lei. Alcuni
di noi si impegnavano anche personalmente nelle lotte operaie e Lilia era
una di questi. Che fosse un picchetto davanti a una fabbrica alle sei del
mattino nel gelo e nella nebbia, un volantinaggio ai cancelli dove
bisognava porgere i volantini agli operi in bicicletta senza farli
ruzzolare, una notte condivisa coi lavoratori dell’Alfa in agitazione,
una, anzi infinite, manifestazioni milanesi
o continue riunioni serali nelle varie sedi dei gruppi politici a
discutere la linea da tenere su questo e quell’episodio accaduto (sono
gli anni di Piazza Fontana, di Pinelli, di Feltrinelli, dei lacrimogeni
sparati ad altezza d’uomo, delle case occupate ecc) Lilia era sempre
presente. Ma era presente anche nel preparare le lezioni per la scuola
serale, nel turno di cucina della comune, nella gestione dei teppisti,
negli studi biblici e nelle serate di divertimento e risate. Per
ridere con Lilia a dire il vero non c’era bisogno di aspettar le serate,
il suo spiccato senso dello humor sapeva inventare occasioni di
divertimento in qualunque momento. Si
cacciava volentieri nei guai, ma sapeva anche escogitare espedienti per
uscirne. Una
sera arrivò a casa tardissimo e stravolta. Aveva perso l’ultimo mezzo
per rientrare da Milano e si era messa a fare l’autostop in Viale Zara,
zona notoriamente poco raccomandabile. Un tizio che la carica, appena
uscito dall’abitato prende una stradina per i prati e ferma la macchina
in un luogo del tutto isolato. Lilia si terrorizza ma non si arrende:
comincia ad agitarsi e urlare mettendo in atto una scena isterica così
violenta e inarrestabile che l’altro terrorizzato la scarica dalla
macchina e se ne va. Nel buio, in mezzo ai prati di periferia Lilia prende
un grosso sasso in mano quale arma di difesa e si incammina. Inseguita,
durante una violante carica della polizia in un comune vicino a Cinisello,
si salva entrando in una chiesa e nascondendosi sotto l’altare. Non
sempre usciva indenne dalle avventure, non quando la coinvolgevano
sentimentalmente. Me la ricordo a letto per più giorni senza mangiare
distrutta da un amore finito. Né
posso dimenticarla quando insieme all’inseparabile Eralma (sua compagna
di stanza e di avventure di ogni tipo) ci faceva morire dalle risate
immedesimandosi in due portinaie di Torino e, parlando piemontese,
infilavano una sfilza di luoghi comuni e di giudizi sugli avvenimenti del
mondo tipici di quel settore popolare, che si crogiola nei pettegolezzi,
subisce l’influenza della televisione e spesso cova invidia e
aspirazioni piccole borghesi. Erano fantastiche! O
quella volta, sempre con Eralma, che, passeggiando per Milano, abbordarono
dei poliziotti in libera uscita e, mantenendo accesa in loro la speranza
di un lieto fine di tipo erotico, approfittarono per far loro domande
sulla vita di caserma e su come si sentivano quando in tenuta
antiguerriglia assalivano le manifestazioni e su cosa raccontavano loro i
superiori sui dimostranti che dovevano caricare. Il gioco divenne
eccitante e la prudenza non era certo parte del carattere delle due. Fu
difficile liberarsi dei PS alla fine, e ci riuscirono non prima di essersi
fatte ammanettare quale dimostrazione di come funzionavano bene le moderne
manette in dotazione. Questa
è la Lilia che più ricordo, compagna di avventure serie e scherzose,
imprevedibile e totalmente indipendente nelle scelte, nei giudizi e nei
comportamenti. Solidale e leale nei momenti di bisogno, spietatamente
crudele verso le scorrettezze, le falsità o gli opportunismi. La
vita ci ha diviso per anni ma quando all’inizio degli anni novanta ci
siamo reincontrate qui nel pinerolese… era la Lilia di sempre, più
matura, più pacata, ma con la stessa tensione etica e lo stesso slancio
verso le cose e le persone “giuste”. Mi
ha parlato delle sue nuove passioni e abbiamo parlato di letteratura
mentre rastrellavamo le foglie di castagno nei miei prati di Angrogna. Abbiamo
rinvangato gli anni della comune, anni in cui, condividendo la vita
quotidiana coi suoi momenti banali o esaltanti, si era creato un rapporto
che il tempo non poteva cancellare. Anni che la sua presenza aveva reso più
ricchi e più intensi. Mi
son rallegrata di averla ritrovata e ho immaginato che il nostro rapporto
potesse durare per sempre, ora che la vicinanza geografica lo permetteva. Ma
fu così per poco. Toti Rochat
riforma 3.10.1997
riforma 10.10.1997
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