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La
sinistra e la guerra
UN DISCRIMINE RICORRENTE
Giuseppe Chiarante
1.Nel
corso del Novecento l'idea di sinistra è quasi sempre apparsa collegata,
nell'immaginario collettivo, con l'ostilità al militarismo e alla guerra
e con l'aspirazione a rapporti di maggior uguaglianza e solidarietà tra i
popoli di tutto il mondo. Basta pensare – per ricavare dal mondo
dell'arte e della letteratura i primi esempi che vengono alla mente – ai
grotteschi generali di Georg Grosz, alla
drammaturgia di Bertolt Brecht, ai romanzi di Hemingway, a Guernica e alla
colomba di Picasso: sono esempi che rendono immediatamente evidente quanto
abbia contato quel collegamento non solo nell'opinione popolare, ma negli
orientamenti e nell'emozione di più generazioni di intellettuali e
artisti.
Tanto più sorprende, perciò, che il secolo si sia invece concluso in un
clima ideale e politico assai diverso. La scelta dell'impegno per la pace
non sembra più fare parte, oggi, del sentire comune di gran parte della
sinistra. Un tempo le sole guerre che si consideravano giustificabili
erano quelle difensive e per la libertà, come la guerra contro il
fascismo e il nazismo; oppure le guerre di indipendenza nazionale, come le
lotte dei popoli oppressi contro la dominazione coloniale. Nell'ultimo
decennio, invece, sono venute esercitando un peso crescente, anche
nell'opinione di sinistra, ideologie – un tempo non presenti – che
giustificano un assai più ampio ricorso alla guerra: come la tesi della
`guerra umanitaria', intrinsecamente contraddittoria e che tuttavia è
stata tanto evocata in occasione dell'intervento nel Kosovo; o come la
teorizzazione (è il caso odierno) della legittimità del ricorso al più
micidiale apparato bellico, contro il popolo più povero del mondo, per
perseguire un risultato – la sconfitta del terrorismo – che richiederebbe
invece una ben diversa e assai più articolata strategia politica.
Come si spiega questo che può apparire come un vero e proprio
rovesciamento di posizioni? Si tratta solo di un cedimento culturale e
politico di gran parte dei gruppi dirigenti della sinistra dell'Europa
occidentale, analogo a quello nei confronti dell'offensiva liberista? O il
cedimento è il segno di un nodo non sciolto nel pensiero e
nell'esperienza politica della sinistra europea? Su questo interrogativo
vale la pena di approfondire la riflessione.
2. In realtà la questione della pace e della guerra, tanto più nel caso
di un conflitto tra paesi del Nord e del Sud del mondo, è stato uno dei
nodi più tormentati – al di là delle dichiarate
aspirazioni alla pace e alla solidarietà fra i popoli – nella storia
della sinistra del Novecento.
Non va dimenticato, innanzitutto, che anche prima dell'agosto 1914, che
vide il cedimento dei maggiori partiti socialisti e il famoso voto a
favore dei `crediti di guerra', l'impegno per la pace tante volte ribadito
nei congressi della Seconda Internazionale riguardava essenzialmente, in
realtà, l'ipotesi di un conflitto fra gli Stati dell'Europa
capitalistica. In vista di tale eventualità il dibattito nel movimento
socialista ruotava intorno a due tesi: la tesi di far ricorso, in caso di
guerra, a tutte le forme di lotta sino allo sciopero generale per imporne
la cessazione; oppure quella (minoritaria ma destinata ad aver fortuna
perché era la tesi di Lenin e dei bolscevichi
oltre che di Rosa Luxemburg e di Karl Liebknecht) di fare appello alle
masse per trasformare la guerra interimperialistica in guerra
rivoluzionaria.
Assai meno radicali, ed anzi più sfumate e differenziate, erano le
posizioni a proposito delle guerre e della dominazione coloniale. Sul
colonialismo il socialismo della Seconda Internazionale aveva, in
generale, posizioni molto possibiliste. Era assai diffusa una posizione
scientista (e pseudoumanitaria) che considerava positiva la presenza delle
potenze europee per favorire il progresso e la civilizzazione dei popoli
degli altri continenti. Ma non mancavano altri atteggiamenti, dalla
preoccupazione degli italiani che le guerre d'Africa sottraessero risorse
indispensabili per lo sviluppo nazionale all'opposto orientamento dei
laburisti inglesi, che consideravano le posizioni imperiali come un
fattore di miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori della
madrepatria.
Alla base di questi orientamenti c'era in sostanza la visione
evoluzionistica, prevalente nel marxismo della Seconda Internazionale, che
portava a considerare indispensabile – sotto il profilo sia delle
condizioni economiche sia di quelle civili e culturali – la maturazione
dello sviluppo capitalistico (e dunque della società e della civiltà
borghese) come premessa per il passaggio alla società socialista. Di qui
il ruolo subordinato attribuito ai paesi meno avanzati e tanto più a
quelli coloniali. Fu solo in Lenin e nei bolscevichi
che cominciò ad affacciarsi, nei dibattiti seguiti alla fallita
rivoluzione del 1905, l'idea che – a causa delle più stridenti
contraddizioni fra progresso e arretratezza – la rottura rivoluzionaria
potesse avere inizio più facilmente proprio in un grande paese che era
ancora ai margini, come la Russia, dello sviluppo capitalistico: e ciò
spingeva a guardare con un diverso interesse anche alle lotte contro il
colonialismo e l'imperialismo particolarmente nei grandi paesi dell'Asia,
dalla Cina all'India, dall'Iran al complesso del Medio Oriente.
Del resto, anche la svolta storica dell'agosto del 1914, contrassegnata
dall'allineamento dei principali partiti socialisti ai governi borghesi
dei rispettivi paesi, aveva in ultima analisi il suo fondamento in una
visione evolutiva ed economicistica della storia, che si traduceva in una
sostanziale subalternità al modello di sviluppo capitalistico-borghese.
Ciò era particolarmente evidente nelle posizioni del partito
socialdemocratico tedesco, che per rappresentatività politica e per
autorità dottrinale era il vero partito guida dell'epoca. Dal dibattito e
dall'elaborazione di quel partito emergeva infatti in modo abbastanza
palese la persuasione che la crescita della forza politica ed economica
della Germania era una delle condizioni (certamente non l'ultima) che
aveva favorito la conquista di migliori condizioni di lavoro e di vita per
la classe operaia e lo sviluppo numerico e organizzativo del sindacato e
del partito. È sulla base di questa visione culturale e politica che si
spiega ciò che altrimenti sarebbe incomprensibile: ossia la frana, di
fronte alla guerra, di un impegno per la pace che sembrava incrollabile.
Cedimento al ricatto nazionalistico e chiusura
europeistica verso i popoli coloniali avevano dunque, nel socialismo della
Seconda Internazionale, una comune origine teorica e politica.
3. La rottura determinata dalla prima guerra mondiale provocò perciò nel
movimento operaio non solo una spaccatura organizzativa pressoché
irrecuperabile (la divisione tra socialisti e comunisti, destinata a
prolungarsi per quasi tutto il secolo), ma modificò profondamente le
posizioni così sul tema delle guerre come su quello dei rapporti tra il
Nord e il Sud del mondo.
L'Internazionale socialista uscì dal conflitto e dalle lacerazioni da
esso provocate duramente colpita. Un'effettiva ripresa di un suo ruolo
internazionale si ebbe, fra le due guerre, solo con la politica dei Fronti
popolari; e poi, dopo il secondo conflitto mondiale, quando divenne uno
dei principali protagonisti, a partire dagli anni sessanta, delle
politiche di Welfare in vari paesi dell'Occidente europeo e, nel decennio
successivo, fra i promotori dell'iniziativa per nuovi rapporti tra
l'Occidente e i paesi dell'Est. A lungo essa rimase, però, una realtà
politica sostanzialmente limitata all'Europa occidentale. Il superamento
di questa connotazione eurocentrica non fu certo favorita, nei primi
decenni dopo la guerra, dal permanere nei partiti socialisti di posizioni
subalterne agli interessi conservatori in materia di politica coloniale.
Il problema – come è ovvio – riguardava praticamente solo la Francia
e l'Inghilterra. Ma acquistò un valore quasi emblematico per l'intero
movimento il fatto – per esempio – che proprio nella fase più dura e
drammatica della guerra d'Algeria il partito socialista si trovò ad
avere, a Parigi, le massime responsabilità di governo. E fu certamente
significativo che a prendere la decisione di chiudere
la pagine dell'esperienza coloniale furono, in Francia come in
Inghilterra, più i partiti o gli uomini di destra – per esempio De
Gaulle – che i partiti socialisti.
4. Assai diversa è invece stata – anche se non sono certo mancati
aspetti fortemente problematici – l'esperienza compiuta nel corso del
secolo dal movimento comunista. Tramontata rapidamente la speranza che il
tracollo della Germania nella prima guerra mondiale potesse aprire la
strada per un'espansione dell'iniziativa rivoluzionaria verso il cuore
dell'Europa, sin dal 1920 così il tema della pace come quello
dell'alleanza con i popoli in lotta contro il colonialismo assunsero un
rilievo centrale nelle iniziative della Terza Internazionale.
Certo, così sull'uno come sull'altro piano l'iniziativa era fortemente
condizionata da un legame molto stretto con l'obiettivo – considerato
prioritario – di contribuire a difendere il `primo paese socialista',
ossia l'Urss, dalle minacce controrivoluzionarie. È un fatto, però, che
l'impegno per la pace del movimento comunista – fatta eccezione per la
parentesi del patto tra Molotov e Ribbentrop, diretto soprattutto a
ritardare l'attacco tedesco all'URSS – finì con l'essere, negli anni
trenta, un potente fattore di coagulo del movimento mondiale di resistenza
al fascismo e al nazismo; e, dopo la guerra, la lotta per la pace contribuì
a consolidare un equilibrio fra i due blocchi
e a rendere possibile una coesistenza che valse a scongiurare il
catastrofico ricorso alle armi atomiche.
Anzi, proprio la natura di queste nuove armi portò il movimento comunista
a modificare anche teoricamente le sue posizioni sul tema della pace e
della guerra. Infatti, nella lettura del marxismo fatta da Lenin e da
Stalin era rimasto un punto fermo la tesi che la guerra sarebbe stata alla
lunga inevitabile fintanto che non fossero superati i rapporti
capitalistici di produzione: la guerra era cioè intrinseca alla
conflittualità e all'aggressività del capitalismo e dell'imperialismo.
Nel dibattito che seguì alla morte di Stalin, nel 1953, maturò invece
una posizione radicalmente nuova. Ossia che una guerra combattuta con le
armi nucleari avrebbe potuto condurre non alla vittoria per l'una o per
l'altra parte, ma alla distruzione della stessa civiltà umana: e che
perciò, poteva e doveva essere evitata. I primi ad enunciare questa tesi
furono – come è noto – Malenkov a Mosca, Togliatti fra i leaders
comunisti occidentali: ma dopo qualche esitazione (Krusciev, per esempio,
inizialmente la ripudiò) essa fu accolta da tutto o quasi il movimento
comunista, diede nuova incisività al suo impegno per la pace e favorì,
particolarmente nell'Europa occidentale del ventennio tra il sessanta e
l'ottanta, la crescita di un vasto movimento contro gli armamenti atomici
al quale parteciparono comunisti, socialisti, progressisti e pacifisti di
vario orientamento laico o religioso. Fu questo, nel corso del secolo, il
periodo in cui il tema della pace ebbe, in modo concreto, maggiore
incidenza negli orientamenti della sinistra e non solo della sinistra, in
Europa e nel mondo.
5. Quanto alla questione coloniale, sin dagli inizi degli anni venti essa
divenne uno dei temi su cui più si concentrarono il dibattito e
l'iniziativa dell'Internazionale comunista. Sul piano teorico era
l'attenzione per le contraddizioni create, su scala mondiale, dallo
sviluppo disuguale del capitalismo a indurre a guardare con particolare
interesse alle potenzialità di lotta che si aprivano nei paesi coloniali.
Sul piano politico era la dottrina leninista dell'imperialismo che portava
a considerare i movimenti per l'indipendenza dal colonialismo –
superando le remore eurocentriche della tradizione socialista – come una
componente essenziale di uno schieramento
rivoluzionario mondiale. Significativamente, perciò, già le tesi sulla
questione nazionale e coloniale votate nel luglio 1920 dal secondo
Congresso della III Internazionale vedevano nella lotta dei popoli
coloniali, e in una certa misura anche nei movimenti di indipendenza
nazionale a guida borghese (ma non nel panislamismo) un potenziale alleato
del movimento comunista, da considerarsi non meno rilevante della classe
operaia occidentale.
Questa scelta era destinata a diventare una costante nella politica dell'Urss
e del movimento comunista, sia pure con non poche divergenze sulla sua
concreta attuazione. In particolare la discussione che si aprì negli anni
venti sulla questione cinese (ossia se l'appoggio dato al Kuomintang non
si era ritorto a danno delle possibilità rivoluzionarie del Partito
comunista cinese, colpito dopo i moti di Shanghai del 1927 da una feroce
repressione) segnò l'avvio di un dibattito destinato a svilupparsi anche
dopo la seconda guerra mondiale a proposito del ruolo delle borghesie
nazionali e del maggiore o minore peso da dare all'elemento di classe
nelle lotte di indipendenza dei popoli coloniali.
In ogni caso - almeno fino agli anni settanta: dopo vi furono vicende come
l'avventura nel Corno d'Africa o l'occupazione dell'Afghanistan, che
rovesciarono del tutto l'immagine dell'Urss anche nel Terzo mondo – due
fatti appaiono indubbi. Il primo è che la piattaforma sulla questione
coloniale adottata dalla III Internazionale sin dal 1920 assegnava al tema
della liberazione dei popoli coloniali un rilievo che segnava una assoluta
novità nella strategia del movimento operaio europeo e che non trovava
alcun riscontro nelle posizioni via via assunte dall'Internazionale
socialista. È utile ricordare, al riguardo, che questa organizzazione
cercò di aggiornare la propria elaborazione su questo tema nel congresso
tenuto a Bruxelles nel 1928; ma non andò al di là di una risoluzione che
proponeva di distinguere fra paesi che potevano aspirare subito
all'indipendenza, paesi che al più potevano rivendicare un'autonomia,
paesi che in nessun modo erano in grado di governarsi da soli. Era una
distinzione che non rompeva con le pregiudiziali ideologiche e politiche
poste a giustificazione della dominazione coloniale.
Il secondo fatto è il ruolo storico determinante che prima il successo
della rivoluzione in Russia, poi la vittoria dell'Urss nella guerra contro
il nazismo, infine il contrappeso da essa rappresentato rispetto
all'imperialismo americano, hanno esercitato concretamente nel corso del
secolo – dopo la prima ma soprattutto dopo la seconda guerra mondiale
– come stimolo e appoggio per la conquista dell'indipendenza dei popoli
dell'Asia e dell'Africa. La vittoria della rivoluzione in Cina nel 1949,
che modificava profondamente gli equilibri mondiali, e, pochi
anni dopo, la Conferenza di Bandung del 1955 che, su basi fortemente
progressiste, chiedeva la fine immediata
del sistema coloniale, furono l'espressione più evidente del risultato
positivo di questa politica.
Altri furono i limiti o gli aspetti negativi che caratterizzarono la
strategia dell'Urss e del movimento comunista verso il Terzo mondo. Vi è
da chiedersi innanzitutto perché sia
fallito quasi ovunque il tentativo di dar vita a partiti comunisti nei
paesi dei continenti extraeuropei. Le eccezioni sono la Cina, dove però
Mao e il pur composito gruppo dirigente del Pcc ebbero la capacità di
tradurre l'ideologia marxista e comunista in termini adeguati alla realtà
e alla cultura cinese; e il Vietnam, dove Ho Chi
Minh seppe coniugare strettamente
comunismo e causa nazionale. Negli altri casi i partiti comunisti, che
pure in diversi paesi dell'Asia erano riusciti in un primo momento a
raccogliere un certo consenso, si andarono presto isterilendo, quasi come
alberi trapiantati in un terreno non adatto. Appariva chiaro,
in sostanza, che si trattava di esperienze legate a una dottrina politica
– il marxismo – fortemente radicata nella cultura e nell'esperienza
europea; e che era mancata la capacità di fare i conti con altre culture,
da quelle del subcontinente indiano a quelle dell'Islam e del Medio
Oriente. Ancor più sterili sono poi state le esperienze dei partiti
socialisti africani, costruite sul modello del partito unico e sulla base
delle borghesie locali e di potentati militari destinati ad essere prima o
poi riassorbiti sotto l'egemonia del capitalismo occidentale.
Sostanzialmente connesso, almeno nei principi ispiratori, è l'altro
limite che ha pesato negativamente sulla presenza sovietica nel Sud del
mondo: ossia l'incapacità di proporre un modello di sviluppo che non
fosse quello imperniato su una economia pianificata diretta da un potere
statale autoritario. La crisi di quel modello (dimostratosi, del resto,
incapace di evolvere positivamente nella stessa Urss) ha aperto la strada
a fenomeni sempre più estesi di neocolonialismo, guidati da governi che
sono espressione di una nuova borghesia `compradora' asservita agli
interessi del grande capitale internazionale.
6. Conviene aprire una finestra, a questo punto, sull'esperienza della
sinistra italiana: anzi, sull'indubbia specificità di questa esperienza,
per quel che riguarda sia il movimento socialista, sia quello comunista.
Si tratta di una specificità che si ritrova, ancor oggi, nell'ampiezza e
nell'articolazione che caratterizzano, rispetto agli altri paesi europei,
il movimento di lotta per la pace che si è sviluppato in questi giorni in
Italia.
Ho già ricordato l'ostilità dei socialisti italiani (almeno nella loro
maggioranza) alle imprese coloniali, a differenza dell'atteggiamento
favorevole di altri partiti socialisti. Ma ancor più significativa fu la
posizione di fronte alla prima guerra mondiale: non vi fu il cedimento al
nazionalismo patriottico che si verificò in Germania, in Francia, in Gran
Bretagna e la parola d'ordine «né aderire né sabotare» si prolungò
nella partecipazione dei socialisti italiani alla Conferenza di Zimmerwald
(1915) e di Kienthal (1916) nelle quali si riunirono i settori del
movimento socialista contrari alla guerra.
Questa tradizione di marcato impegno per la pace fu raccolta dai comunisti
italiani: non solo nella fase culminante degli anni trenta, quando questo
tema si intrecciò strettamente, di fronte all'inasprirsi della minaccia
nazista, con quello della costruzione della più ampia rete di alleanze
contro la politica aggressiva del fascismo e del nazismo; ma soprattutto
dopo il ritorno alla democrazia in Italia, quando la costruzione di un
largo movimento per la pace divenne uno degli obiettivi qualificanti della
politica del partiti comunisti, con una peculiarità di accenti in cui si
manifestava la crescente e sempre più netta autonomia rispetto al modello
sovietico.
Ricordo, per brevità, solo due momenti particolarmente significativi di
questa politica. Il primo riguarda il 1954: quando Togliatti non solo fu
tra i primi leaders comunisti dell'Occidente a riprendere e rilanciare la
svolta di Malenkov che metteva in discussione la tesi tradizionale
dell'inevitabilità della guerra; ma soprattutto fece di quella nuova
posizione la base di una proposta diretta al mondo cattolico per la
ricerca di un'intesa volta a scongiurare una guerra combattuta con le armi
nucleari, che avrebbe minacciato la stessa sopravvivenza della civiltà
umana. Veniva così ripresa con forza, dopo il periodo più aspro della
guerra fredda, quella linea del dialogo col mondo cattolico (o almeno con
la sua parte più avanzata) che aveva già caratterizzato la svolta di
Salerno del 1944 e che avrebbe avuto ulteriori sviluppi negli anni
successivi, divenendo uno dei cardini della strategia del Pci.
Ma – ed è questo il secondo momento – i temi della pace e del disarmo
(e assieme ad essi quelli di una rinnovata solidarietà tra i popoli e
dell'`austerità' come connotato necessario di un diverso modello di
sviluppo capace di rispondere in modo più equo ai bisogni dei popoli di
tutto il mondo) divennero il fondamento della proposta di politica
internazionale di Enrico Berlinguer: rivolta a cercare di porre in atto,
assieme alle forze migliori del socialismo europeo, una sorta di terza via
tra un'esperienza socialdemocratica subalterna al modello capitalistico e
un'esperienza comunista ancorata al modello sovietico. Su queste basi
Berlinguer riuscì, nella seconda metà degli anni settanta, a stabilire
un'intesa con Willy Brandt, allora presidente dell'Internazionale
socialista e con Olof Palme, vice presidente, attorno a una prospettiva
che aveva come momenti essenziali – fra loro congiunti – da un lato la
lotta per la coesistenza, per un progressivo disarmo nucleare, per una
cooperazione tra Est e Ovest; dall'altro una politica concreta per il
progresso economico, sociale civile dei paesi del Terzo mondo e per
un'equa soluzione dei principali problemi internazionali aperti in
quest'area, a partire dal conflitto israeliano palestinese.
Fu quello un momento alto per la politica della sinistra europea, così
sul tema della pace come sui problemi del mondo già coloniale: un momento
che ebbe il suo punto culminante nella grande giornata di lotta contro gli
euromissili del 22 ottobre 1983, quando cinque milioni di persone – sia
socialisti, sia comunisti, sia pacifisti delle più diverse tendenze –
scesero in piazza in tutte le capitali dell'Europa occidentale per chiedere
l'arresto dell'istallazione di armi nucleari tanto da parte degli Stati
Uniti quanto da parte dell'Unione Sovietica.
7. Come si spiega – torniamo così alla domanda iniziale – che a solo
vent'anni da quel momento storico, quando sembrava davvero prender corpo
l'equazione fra scelta di sinistra e scelta per la pace e la solidarietà,
l'orientamento si sia radicalmente rovesciato portando la maggioranza dei
partiti dalla sinistra europea a un allineamento senza riserve con la
strategia d'intervento militare del governo americano?
È chiaro che nel determinare questo
rovesciamento molto hanno pesato e continuano a pesare i grandi mutamenti
che sono intervenuti in questo periodo così nell'assetto politico ed
economico mondiale come negli orientamenti culturali e nell'ideologia
diffusa: dal crollo dell'Urss e del blocco degli altri paesi dell'Est, che
ha significato il venir meno di ogni contrappeso alla supremazia degli
Stati Uniti, al processo di globalizzazione che ha inasprito le
disuguaglianze tanto all'interno dei paesi avanzati quanto fra questi e i
paesi del Terzo e del Quarto mondo; dalla crisi delle politiche di Welfare
alla grande controffensiva neoliberista che è prevalsa in Occidente negli
ultimi vent'anni. Questi fatti hanno favorito la diffusione, a sinistra,
di posizioni che confondono il necessario realismo politico con
l'accettazione acritica dello stato di cose esistente; e che, secondo
moduli che ammantano di storicismo le vecchie
radici positivistiche ed evoluzionistiche della sinistra, accettano
l'attuale modello di globalizzazione come la strada obbligata per
giungere, alla fine, a un miglioramento delle condizioni sociali ed
economiche per l'intera umanità.
Tutto questo non avrebbe però avuto effetti così devastanti se non vi
fosse, alle radici, una debolezza di fondo che – come abbiamo cercato di
mettere in luce – percorre tutta la storia della sinistra del secolo
scorso, così nella variante socialista come in quella comunista: ossia
l'incapacità di costruire, tanto sul terreno delle finalità e delle
scelte di valore come su quello delle esperienze pratiche, un'idea di
sviluppo della società (anzi della civiltà umana) che vada davvero oltre
la visione di un progresso essenzialmente produttivistico ed
economicistico e che superi i limiti di un'esperienza politica e civile
fortemente ancorata alla realtà dell'Occidente (che è – oltretutto –
la realtà di una minoranza privilegiata).
Certo, nella situazione così drammatica in cui oggi ci troviamo, è in
primo luogo necessaria una scelta politica netta e risoluta contro la
guerra. Con la guerra, infatti, non si combatte il terrorismo: se mai, si
aggravano le situazioni da cui esso trae alimento. La guerra, in realtà,
è solo una scelta a sostegno della supremazia dell'imperialismo e a
difesa dell'abisso sempre più profondo che separa i popoli ricchi
dai popoli poveri del Sud del mondo: e che perciò dimentica (o finge di
dimenticare) non solo le tragedie e le sofferenze che l'intervento armato
direttamente o indirettamente provoca, ma la drammatica condizione di
miseria, di ingiustizia, di oppressione in cui vivono miliardi di donne e
di uomini.
Ma proprio per la gravità del cedimento a questa scelta, da parte della
grande maggioranza dei gruppi dirigenti della sinistra europea, è dalle
radici di questo cedimento (qui sommariamente richiamate)
che, in un lavoro di più lunga lena, occorre ripartire: al fine di
ripensare e ricostruire, sul piano ideale e su quello politico, i
fondamenti di una posizione di sinistra che vada oltre l'orizzonte di
esperienze ormai esaurite |
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