GUERRE
Arrivano i nostri
DOMENICO STARNONE
Andiamoci cauti con l'aggettivo possessivo «nostro». Facciamone un uso parco e oculato, perché di là, per quella parolina, stanno passando e passeranno misfatti sempre più numerosi contro il genere umano. Troppe cose vengono spacciate per nostre: la nostra civiltà, la nostra religione, le nostre radici, il nostro paese, la nostra patria, il nostro stato, il nostro governo, i nostri soldati. Impariamo a rigettare l'aggettivo. Addestriamoci a chiederci: nostre di chi, di quale noi? Per allenarci cominciamo dalla pasqua. Questa è una pasqua di morte violenta, senza nemmeno l'ombra della resurrezione. La resurrezione anzi è così sbiadita che stenta a funzionare persino come metafora. L'Africa non accenna a risorgere, non risorge l'Iraq . Della pasqua perdura solo la sua premessa funerea: la vita aggredita, costretta nelle galere, umiliata, torturata, distrattamente o calcolatamente tolta. Perdura lo sterminio degli agnelli, il sangue a rivoli degli indifesi. Perdurano festevolmente i cesari d'ogni risma, le loro corti grasse, i loro centurioni, le soldatesche. Ma resurrezione niente, liberazione niente. Dai cieli chiusi e sorvegliati ci si aspetta al peggio un aereo kamikaze da turismo.

E' questa la nostra pasqua? Se la città santa è blindata, se persino la metafora della resurrezione è strozzata dalla militarizzazione, perché prenderci in giro? La festa del tempo nuovo, della forza vitale e primaverile, è ormai come intasata dalla morte. S'è persa la speranza di resurrezione, si macella e basta.

Ricordiamoci allora che non c'è pace pasquale se non nella finzione della tv, che il governo della macelleria non è nostro, che i soldati che macellano non sono i nostri, che non è nostro né il comando né l'obbedienza. Sscegliamoceli, i nostri, non li subiamo per pigrizia, per persuasione occulta, per autorità. Il comando è di Bush, di Berlusconi, di Blair, di tutti quelli che, assiepati dietro una potenza di fuoco capace di annientare il pianeta, per dare una lezione ai califfi in pectore hanno dissennatamente deciso di moltiplicarne il seguito invadendo paesi e massacrando gli inermi, i disperati mal nutriti, male armati. L'obbedienza è dei soldati che, partiti liberatori o pacificatori in divisa e armi e il miraggio di qualche soldo in più, si sono trovati inchiodati alla loro funzione primaria, buscarsi la paga uccidendo, versare sangue in modo che poi il sangue ricada su tutti noi e per reazione ci imbesti più di quanto non siamo già imbestiati, in un movimento all'infinito.

Altro che pasqua, dunque, altro che civiltà del Dio biblico, del Cristo. Il meglio di quella festa e di quella tradizione è disperso, ridotto a favola di gioia e di liberazione per i bambini e gli ingenui, i primi a essere massacrati. La pasqua non è più passaggio, ma permanenza nell'orrore. E' ridotta allo spettacolo adrenalinico e molto redditizio della carne martoriata, come in Passion di Mel Gibson, film che non poteva essere pensato che oggi: torture, sangue e, per finale, non il trionfo del buon pastore ma di un buon barbiere.

Il nostro tempo è questo? Noi apparteniamo a questa necessità di assassinio che dà allo stomaco, siamo i mandanti, siamo i complici, siamo i finanziatori?

No. Certamente questi aspiranti governatori mondiali, alleati o in rissa tra loro, non sono nostri. Sicuramente non sono nostri nemmeno questi soldati. Non è nostro un mondo permanentemente in emergenza, votatato all'apocalisse purificatrice. Ciò che è nostro, invece, non fa rumore e salva. Nostri sono quelli che attraversano le strade insanguinate di Falluja a rischio della vita per portare medicinali. Nostri sono quelli che ogni giorno subiscono o fronteggiano gli effetti della smania di distruzione. Nostri sono gli ingenui che credono alla confederazione di tutti gli esseri umani contro chi fa sonni satolli e tranquilli di strapotere sopra arsenali da non dormirci la notte. Quelli sono i nostri.



E' il continente nero la «nuova frontiera» della guerra per le fonti energetiche
Africa, Usa pronti al safari del petrolio
Truppe speciali nei paesi del Sahel, accordi militari con Marocco, Algeria, Tunisia, aiuti a Ciad e Niger contro i gruppi islamici. E un vecchio rapporto di intelligence: nel 2015, un quarto del petrolio americano verrà dall'Africa- il manifesto –13-04-04


Sao Tome, il caso Aiuti Usa per costruire una base navale. A uno stato che non ha una marina da guerra, ma ha petrolio per 11 miliardi di barili

RITT GOLDSTEIN
Il sospetto che gli attentatori di Madrid fossero legati a gruppi vicini a al-Qaeda del Maghreb e del Sahel ha imposto queste regioni africane all'attenzione del mondo. E mentre gli Stati uniti hanno espresso preoccupazioni crescenti sul terrorismo nella regione, alcuni hanno criticato l'amministrazione del presidente George W. Bush facendo notare che dietro le preoccupazioni c'è in gioco la ricerca da parte degli Usa di nuove risorse energetiche. Già nell'autunno del 2002, la rivista inglese Economist aveva scritto che il petrolio «è l'unico interesse americano in Africa». In un'intervista dell'autunno 2003 con Asia Times Online, l'esperto di sicurezza americano Michael Klare, autore di Resource Wars, aveva lanciato l'allarme sul potenziale coinvolgimento dell'America in Africa. Quando gli è stato chiesto quale potrebbe essere il prossimo punto nevralgico per quanto riguarda il petrolio dopo l'Iraq, Klare ha risposto: «Sto tenendo d'occhio l'Africa, che si sta surriscaldando».

Nel 2001 il rapporto del vicepresidente Dick Cheney sulla politica energetica nazionale sosteneva che l'Africa è «una delle fonti di petrolio e gas che stanno crescendo più in fretta». Il 1. febbraio 2002, il vice-segretario di stato per gli affari africani, Walter Kansteiner, dichiarava: «Questo [il petrolio africano] è diventato per noi di interesse strategico». E un rapporto del dicembre 2001 dello US national intelligence council, Global Trends 2015, prevede che entro il 2015 proverrà dall'Africa un quarto delle importazioni petrolifere americane.

Lo scorso febbraio alcuni alti generali americani hanno visitato l'Africa in missioni separate e tutt'altro che usuali. Tra di essi vi sono il generale dei marines James L. Jones, comandante delle truppe americane in Europa, e il generale dell'aeronautica militare Charles Wald, vice-comandante delle truppe americane in Europa. E, con l'eccezione del Corno d'Africa, il comando delle forze armate Usa di stanza in Europa sovrintende alle azioni americane in Africa. Le missioni sono state precedute dalle crescenti pressioni dell'industria americana e dei gruppi politici conservatori affinché siano assicurate fonti energetiche fuori del Medio Oriente.

Nei mesi scorsi gli Usa hanno mandato le loro truppe speciali nei paesi del Sahel africano: Mauritania, Chad, Mali, Niger. L'operazione rientra in un programma chiamato «Pan Sahel Initiative», che si prefigge lo scopo di fornire addestramento anti-terrorismo agli eserciti della regione. Altri lo hanno definito un programma per addestrare eserciti regionali. Le forze speciali americane che partecipano all'operazione sono di stanza in Germania, e anche in questo paese è in corso un'indagine sugli attentati di Madrid.

Anche la cooperazione militare con il Marocco, l'Algeria e la Tunisia sarebbe cresciuta, ma sono le scoperte di giacimenti petroliferi, piuttosto recenti e importanti, ad alimentare queste operazioni. Come titolava il conservatore (e ben introdotto con l'esercito e i servizi segreti) Washington Times il 26 febbraio: «Gli Usa guardano con attenzione alle reti terroristiche e al petrolio in Africa». Operazioni simili di addestramento delle forze locali sono state organizzate già in precedenza in Colombia allo scopo di proteggere l'infrastruttura petrolifera di questo paese, in particolare i suoi oleodotti. Lì, le Farc hanno lungamente portato avanti una campagna di guerriglia, e i sabotaggi agli oleodotti sono una delle loro tattiche preferite. Altrettanto pericolosi sono gli attuali sabotaggi agli oleodotti iracheni.

Al Qaeda? Una sigla per tanti

Alcuni analisti osservano che i gruppi che oggi sono chiamati «al-Qaeda», pur avendo una serie di cose in comune, sono spesso molto diversi tra loro. Gruppi del genere hanno impegnato le forze armate di alcuni paesi a cui gli Usa sono vicini. A metà marzo, ad esempio, il Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento (Gspc), una formazione algerina su cui si indaga in Europa anche in relazione agli attentati di Madrid, secondo quanto riportato dai media avrebbe combattuto contro le truppe del Niger e poi del Ciad. Per aiutare le forze del Ciad, gli Usa avrebbero lanciato viveri, coperte e medicine provenienti dalla Germania. E il fatto che gli Usa facciano base in Germania dal punto di vista militare spiega le indagini sul terrorismo svolte attualmente da Berlino. Successivamente alle battaglie del Niger e del Ciad, sono state riferite le preoccupazioni Usa circa il tentativo da parte del Gspc di far cadere i governi della Mauritania e dell'Algeria. Ma, nel recente dibattito sui cosiddetti «errori di intelligence», emerge anche un modello consistente nell'esagerare le minacce conosciute. Ed è oggi ampiamente riconosciuto che tali esagerazioni sono servite a giustificare l'azione militare degli Usa in Iraq. Nel giugno 2003 il governo filo-americano della Mauritania di Maaouyah Ould Sid Ahmed Taya ha respinto un tentativo di golpe. Di tale tentativo sarebbe responsabile l'esercito del paese, e non il Gspc come invece hanno ampiamente riferito i media.

Lo steso Taya, nel 1984, andò al potere in un golpe e le elezioni in quel paese sono molto «sospette».

Paradossalmente, se la cosiddetta «ondata democratica» di Condoleezza Rice, consigliera per la sicurezza nazionale Usa, dovesse veramente invadere la regione, è chiaro che i più colpiti sarebbero proprio quasi tutti gli alleati dell'America. Ma sia la Mauritania che l'Algeria hanno il petrolio.

In un'intervista rilasciata a Asia Times Online a gennaio, Jim Paul, direttore esecutivo di Global Policy Forum con sede a New York, ha osservato: «L'industria petrolifera riguarda i super-profitti. Dato che tutti hanno questo obiettivo, e il mercato non offre una regolazione efficace, praticamente ovunque vada l'industria petrolifera si sono verificate guerre e corruzione». Questo giudizio è condiviso da molti nella comunità delle organizzazioni non governative.

Nel 2002 la società in cui ha lavorato Condoleezza Rice, la Chevron Texaco (di cui è stata una dirigente), ha annunciato la sua intenzione di investire venti miliardi di dollari nei successivi cinque anni, a fronte dei cinque miliardi di dollari investiti in Africa nel quinquennio precedente. Dato un investimento degli americani così massiccio in campo energetico, non sorprende che un'edizione del 2002 di Alexander's Gas & Oil Connections, una newsletter dell'industria, titolasse: «Gli Usa si muovono per proteggere i loro interessi sul petrolio africano». Nell'articolo, varie autorità enfatizzavano il fatto che gli approvvigionamenti petroliferi dall'Africa erano liberi da minacce gravi. Esso inoltre aggiungeva che l'amministrazione Bush era determinata a «fare in modo che rimanessero tali».

Ma i rappresentanti del governo Usa hanno denunciato un deterioramento costante delle condizioni di sicurezza in Africa. Mentre nel 2002 il continente era ritenuto sicuro per quanto riguarda i giacimenti, questa valutazione è cambiata quasi contemporaneamente all'aumento delle pressioni interne americane finalizzate ad acquisire il petrolio africano; la grave minaccia rappresentata da al-Qaeda si è così materializzata in modo proporzionale al fabbisogno di petrolio. E alcuni credono che, la scorsa estate, il segretario di stato Colin Powell abbia illustrato al meglio una metodologia che spiegava tali circostanze. Il 10 luglio, in una conferenza stampa in Sudafrica, è stato chiesto a Powell come rispondesse alle accuse che il nuovo interesse manifestato dagli Usa per l'Africa fosse dettato in realtà dal petrolio africano. Powell ha replicato: «Non siamo qui per alcun altro scopo, che per dimostrare la nostra amicizia, il nostro impegno, e per capire se possiamo aiutare chi ha bisogno di noi».

Come aiuto, navi da guerra

Recentemente, nel Congresso Usa, sono stati sollevati interrogativi sull'apparente ricorso, da parte dell'amministrazione, a espedienti cinici e discorsi poco chiari. Per quanto riguarda l'aiuto ai bisognosi, sin dal 2002 si parla del minuscolo stato di São Tomé, un'isola dell'Africa occidentale, come sede di una potenziale base navale americana. La posizione strategica di São Tomé nel Golfo di Guinea, dove recentemente sono stati scoperti giacimenti petroliferi sottomarini, aveva condotto nel 2002 a un incontro tra Bush e l'allora presidente di São Tomé, Fradique de Menezes. Gli alleati degli Usa nella regione non hanno praticamente una marina militare che possa controllare il mare antistante, e São Tomé possiede insieme alla Nigeria un potenziale di 11 miliardi di barili di petrolio. Molte delle riserve africane scoperte recentemente sono situate anch'esse al largo dalla costa. Nel luglio 2003, un colpo di stato militare - di poco successivo alla visita in Africa di Powell - ha defenestrato il presidente de Menezes, rimesso successivamente in sella da un intervento della Nigeria. E nelle ultime settimane (questo marzo) «esperti statunitensi» hanno cominciato ad addestrare l'apparato di sicurezza dell'isola, esprimendo preoccupazioni sul fatto che al-Qaeda sarebbe attiva in Africa occidentale.

Come recitava quest'inverno un documento del dottor Jeffrey Record, del dipartimento della difesa Usa: «Il linguaggio contemporaneo sul terrorismo è, per dirla come Conor Gearty, `al servizio retorico dell'ordine consolidato'». Il documento enfatizzava che quasi nulla conta «un'acca, contro il potere contemporaneo dell'etichetta di terrorista».

copyright ritt goldstein/il manifestotraduzione marina impallomeni