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A Rosarno, storia di
Valerioti ucciso 30 anni fa
di Danilo Chirico e Alessio
Magro
su il manifesto del
07/02/2010
Il Pci vinse le elezioni e
le 'ndrine sconfitte si vendicarono uccidendo il segretario della
locale sezione, appena due giorni dopo il voto. Con lui, due passi
indietro, c'era Peppino Lavorato, ancora oggi memoria storica della
sinistra nella Piana di Gioia Tauro
Aveva trent'anni e trent'anni
fa è stato ammazzato. Due colpi di lupara per soffocare la speranza.
È stata la 'ndrangheta a uccidere Giuseppe Valarioti, l'11 giugno del
1980. La vittoria del Pci alle elezioni era la sconfitta delle 'ndrine.
Ecco che i capobastone della Piana hanno alzato il tiro sul segretario
della sezione comunista di Rosarno.
Se non siamo noi, chi lo fa?
Di famiglia contadina, Peppe Valarioti è cresciuto tra i libri e il
lavoro in campagna. Gli piaceva studiare, coltivare i suoi interessi
culturali. Laureato in Lettere classiche a Messina, è rimasto presto
folgorato dal fascino di Medma, l'antica Rosarno magnogreca. Gli
scavi, gli scritti, le ricerche, il confronto intellettuale. Una
grande passione, che presto passa in secondo piano. La Piana è terra
di disoccupazione giovanile, di grandi speculazioni, di emigrazione,
di 'ndrangheta e affari sporchi. «Questo schifo è anche colpa
nostra. E se non siamo noi a batterci chi lo fa?» diceva sempre agli
amici. Ecco che Valarioti decide di scendere in campo, con il Pci.
Peppe riesce a parlare ai giovani, in un paio di anni prenderà in
mano il partito e lo rinnoverà con grande energia.
La rivincita
La tornata elettorale dell'8 e 9 giugno 1980 è decisiva. Nel 79 il
Pci ha perso alle amministrative, a vantaggio del Psi, che governerà
con la Dc. «Estorsione mafiosa del voto» la chiama Peppino Lavorato,
padre politico di Valarioti e icona dell'antimafia sulla Piana. Le
cosche hanno imposto i loro candidati. La strategia del Pci muta:
attaccare i capi e parlare alle famiglie dei giovani. Perché per loro
una speranza c'è ancora. Sfondano i comunisti a quelle elezioni del
1980 per il rinnovo dei consigli regionale e provinciale. Sfondano
nonostante la 'ndrangheta metta in campo tutto quello che ha.
Addirittura, fuori dai seggi si vede don Peppe Pesce in persona, in
permesso dal soggiorno obbligato - prolungato ad arte per settimane -
per la morte della madre.
L'ultimo giorno
Nel primo pomeriggio del 10 giugno, Lavorato è ancora in pigiama
quando accoglie Valarioti. Un caffè, poi subito a lavoro. I primi
risultati si conoscono verso le 4. È un successo: Lavorato è
riconfermato consigliere provinciale, Fausto Bubba andrà in consiglio
regionale. In sezione l'euforia è alle stelle. Di fronte c'è la sede
del Psi, i volti sono scuri. Sembra restare fuori (ce la farà con i
resti) il candidato del Psi Mario Battaglini. Una soddisfazione in più.
Spontaneamente un gruppone di 40 comunisti parte per un corteo
spontaneo verso il quartiere Corea - un nomignolo dispregiativo - che
è riserva di voti del Pci ma anche il feudo della famiglia Pesce.
Urla, canti, pugni chiusi, poi a pochi passi dalla casa del don 'ndranghetista,
Lavorato e Bubba intimano l'alt, per evitare le provocazioni. Qualche
frizione è inevitabile, esplode un battibecco con una donna del
casato rosarnese: «Arrivano i porci». Nessuno ci fa caso, in quel
momento. La festa continua. E arriva l'idea della cena: «Compagni ce
la meritiamo» dice Valarioti. Qualcuno ascolta attento i discorsi dei
comunisti, appoggiato alle pareti del bar di fronte.
La cena
Al ristorante La Pergola, sulla strada per Nicotera, è tutto pronto
per accogliere i vincitori. Si mangia tanto e si innaffia tutto col
vino buono. Si sprecano gli evviva e le storie divertenti. «Compagni
abbiamo vinto», enfatizza Peppino Lavorato alzando il suo bicchiere.
Poco dopo la mezzanotte pagano il conto. Valarioti esce dal ristorante
per primo, due passi indietro c'è Lavorato. Peppe non fa in tempo ad
aprire lo sportello, due fucilate cariche di vendetta lo investono in
pieno. Sanguina e si lamenta la speranza della Piana. «Aiuto cumpagni,
mi spararu». Quel sangue caldo Lavorato ce l'ha ancora sulle mani,
sulla faccia, sui vestiti. Lo ha tenuto stretto durante il viaggio
disperato verso l'ospedale di Rosarno. Ma non c'era più nulla da
fare. Resta quell'ultimo sguardo che è una promessa, «non ci
fermeremo».
La campagna elettorale del 1980
In quel 1980 i manifesti del Pci non li strappavano né li coprivano.
Li capovolgevano. Non è la stessa cosa, affatto. Vuol dire: ti
colpisco quando voglio. Ma i comunisti quella campagna la vivono da
protagonisti. Due, tre, quattro, cinque comizi volanti ogni sera. Fa
nomi e cognomi Peppino Lavorato. La tensione sale, la situazione
precipita. I mafiosi non stanno a guardare. E in una notte di fuoco
mandano in fumo l'auto di Lavorato e provano a incendiare la sezione
comunista. «Se qualcuno pensa di intimidirci si sbaglia di grosso, i
comunisti non si piegheranno mai». Peppe Valarioti lo dice con aria
seria, aprendo quel 25 maggio il comizio in piazza dopo
quell'affronto. Quello stesso giorno arriva in paese tutta la
'ndrangheta della Piana: è morta la madre di don Peppe Pesce.
Il Pci sotto tiro
La forza morale del Pci è immensa. E risiede in un semplice
principio: mai cedere alla 'ndrangheta, mai tollerare la corruzione.
Un principio praticato con determinazione, in quegli anni. Come tutte
le grandi organizzazioni, spesso qualcosa sfugge. Ma l'intransigenza
si manifesta nel colpire le mele marce: chi sbaglia non ha una seconda
possibilità. Un'intransigenza che costa cara: come in Sicilia, anche
in Calabria è il Pci a pagare un tributo di sangue nella lotta alla
mafia. A Cittanova i giovani del Pci s'erano fatti carico del
rinnovamento dopo l'omicidio del loro compagno Ciccio Vinci nel '76, a
Gioiosa il sindaco Ciccio Modafferi insieme a tanti altri aveva difeso
il paese e la memoria di Rocco Gatto, mugnaio assassinato per le sue
denunce nel '77. Poi una nuova offensiva: l'omicidio di Valarioti e
quello dell'assessore di Cetraro, in provincia di Cosenza, Giannino
Losardo appena 10 giorni dopo. C'è un vero e proprio accerchiamento,
partono anche le campagne di denigrazione («La morte di Valarioti?
Questione di donne»). I funerali di Valarioti e Losardo sono grandi
momenti di democrazia. A Cetraro arriva anche Enrico Berlinguer e
annuncia che il partito non si sottrae alla battaglia.
Il comizio di Ingrao
È passato un mese dalla morte di Peppe. A Rosarno gli hanno già
dedicato una piazza. È la sua piazza ed è già stracolma di gente
quando arriva Pietro Ingrao. Sul palco un vecchio stanco aspetta il
partigiano dei comunisti. È Pasquale Gatto, il padre di Rocco, giunto
da Gioiosa per onorare la memoria di quell'altra vittima dell'anti-'ndrangheta.
Tra la folla ci sono anche gli amici di Ciccio Vinci. L'emozione è
alle stelle. Le storie della meglio gioventù calabrese si incrociano.
E incrociano le delegazioni del Pci giunte da tutt'Italia. Sullo
sfondo del palco giganteggia una litografia che raffigura Valarioti e
riporta la sua frase epitaffio: «I comunisti non si piegheranno mai».
Il concetto di Ingrao è semplice: se hanno colpito noi possono
colpire chiunque. La campana suona per tutti. Ma con una certezza: «Ci
hanno ammazzato anche Antonio Gramsci! Ma noi siamo rispuntati più
forti». Un lungo, commosso applauso. Il cammino dei rosarnesi
riprende lungo le strade d'Italia, attraverso le feste dell'Unità che
accolgono le parole commosse di Peppino Lavorato e sostengono una
campagna di raccolta fondi. Rosarno deve avere una nuova Casa del
popolo, e l'avrà. Intitolata a Valarioti.
Il presidio della libertà
Quando cala la tensione, i comunisti restano pochi, ma tengono aperta
la sezione. Ogni giorno, per anni. Per dire che il Pci non è morto.
Peppino, Rafele Cunsolo che è il nuovo segretario, Ninì, Peppe, gli
altri sono lì a fare quadrato mentre in paese la gente ha paura e li
evita come appestati. Da Roma arriva la chiamata: Peppino Lavorato
diventa deputato. Gli anni volano e, dopo un mandato passato a
battagliare a Montecitorio per la sua terra, torna a Rosarno. La nuova
legge per l'elezione diretta dei sindaci è l'occasione giusta. Si
candida, i rosarnesi lo premiamo per due volte consecutive. È una
stagione di cambiamenti, in un contesto maledettamente difficile. E'
tempo di beni confiscati e manifestazioni, di minacce e proiettili
contro il Comune, della costituzione di parte civile di un comune
contro le cosche in un processo civile (primo caso in Italia). È la
stagione dell'accoglienza dei migranti, che ormai arrivano a centinaia
sulla Piana. Una stagione troppo breve. Ma un seme, quello della
"Calabria contro", che viene da lontano e che bisogna
coltivare con passione e grande attenzione.
Il processo
Due sono le piste battute al processo Valarioti, in parte sovrapposte:
quella della Cooperativa Rinascita (il consorzio di agrumicoltori
guidato dal Pci) e quella della campagna elettorale dell'80. Nel
mirino la cosca Pesce, a partire dal patriarca don Peppino. Valarioti,
già nel gennaio dell'80, aveva contestato la gestione della coop
(guidata dal cugino Antonio), imponendo una verifica sul meccanismo
dei contributi pubblici. Secondo l'accusa (il pm Giuseppe Tuccio), la
cosca Pesce imponeva bollette di pesatura gonfiate ed era riuscita a
infiltrare la Rinascita. Ma è la tesissima campagna elettorale
dell'80 a creare le premesse del primo omicidio politico-mafioso in
Calabria. Valarioti continuava a sfidare le cosche. E la sua linea
aveva vinto, e convinto. Serviva un segnale forte. Eclatante. Lo
aspettano all'uscita dal ristorante quella notte dell'11 giugno, dopo
la cena di festeggiamento per la vittoria alle elezioni, quando era
insieme agli altri dirigenti del Pci. Colpirne uno per educarli tutti.
Pesce è stato assolto per insufficienza di prove dalla Corte d'assise
di Palmi il 17 luglio 1982. Poi il silenzio. Fino al colpo di scena
del dicembre del 1983, quando a parlare è Pino Scriva. Il "re
delle evasioni", famigerato 'ndranghetista di San Ferdinando, è
il primo grande (e non unico) pentito della 'ndrangheta. Secondo
Scriva, dietro l'omicidio Valarioti ci sarebbe la decisione della
cupola della Piana. Le rivelazioni di Scriva hanno portato ad
ergastoli e centinaia di anni di carcere. Eppure l'inchiesta-bis
sull'omicidio Valarioti nel 1987 si è conclusa con un buco
nell'acqua. Nel 1990, la Corte d'assise d'appello lascia il delitto
avvolto nel mistero.
Un paese imploso
Come nella Tebe di Laio, Giocasta ed Edipo, il sangue versato è una
maledizione che si abbatte sull'intera comunità. L'unica soluzione è
esiliare i colpevoli. Ma ciò a Rosarno non è avvenuto, non ancora.
È una metafora che spiega l'origine di quella Rosarno che tutti
abbiamo visto nelle immagini della "caccia al negro". Il
paese del grande movimento contadino del dopoguerra ridotto al
silenzio, nelle mani della 'ndrangheta. Che il delitto del dirigente
comunista, ancora impunito, sia all'origine di questa implosione? Quel
che è certo è che questo Paese non ha saputo garantire giustizia
neppure a un giovane e trasparente eroe dell'anti-ndrangheta come
Peppe Valarioti. È da qui che bisogna ripartire. Con la memoria e
l'impegno.
Un altro Sud nel segno di Valarioti
di Pier
Luigi Bersani-
l'unità
La storia di Giuseppe Valarioti merita più che un semplice
ricordo, merita una riflessione. È una storia emblematica perché
dimostra come un altro Sud non solo è possibile ma un altro Sud
c’è sempre stato. Lo studio, il lavoro, l’impegno politico
per emancipare non solo se stesso ma anche la propria terra, la
propria gente. Questa è stata la vita di Giuseppe fino a quando
non è caduto per mano della ‘ndrangheta.
Tante volte ci siamo detti che senza memoria non c’è futuro, la
memoria di Giuseppe Valarioti fa parte del nostro futuro. Come
capiremmo la Rosarno di oggi, la Calabria di oggi, senza ricordare
chi veniva ucciso trent’anni fa perché lottava per la dignità
del lavoro e per la legalità. Viene da pensare che in fondo i
braccianti di ieri non sono diversi da quelli di oggi, al di là
del colore della loro pelle, e la vita di una comunità è più
ricca se è rispettosa della storia di tutti. I fatti accaduti a
Rosarno nel gennaio di quest’anno ci dicono che la battaglia per
la legalità cammina insieme a quella per il lavoro, per un buon
lavoro e per uno stato sociale che possa sostenere le persone nei
momenti di difficoltà. Chi divide, invece, le persone non solo
non costruirà una società migliore ma non riuscirà nemmeno più
a pensarla diversa da come è.
Giuseppe Valarioti nel suo lavoro di insegnante, nella sua
passione per l’archeologia, nelle battaglie per liberare il
lavoro e per la legalità, una società diversa la pensava, la
voleva e si è battuto con tutte le sue forze per realizzarla
arrivando a sfidare la ‘ndrangheta in piazza. Parlando di Sud
dovremmo tenere a mente con più chiarezza di cosa ci stiamo
occupando, di quali sono i problemi. Quello che è accaduto a
Rosarno ha suscitato giustamente grandi emozioni, ma per capire e
per affrontare i problemi dobbiamo andare oltre le passioni e
ricostruire più che difendere un sentimento di unità fra tutti
gli italiani, quella stessa unità, quello stesso civismo popolare
che portò a costruire a Rosarno con i soldi raccolti in tutta
Italia una Casa del popolo. C’è anche un monumento in piazza a
Rosarno dedicato a Giuseppe Valarioti e contro la ‘ndrangheta.
L’unico che ci sia in tutta la Calabria. Un monito per noi a non
dimenticare.
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