Questa è la storia di Giacomo Bernardi, uno che non credeva in
Dio ma che all'inferno fu costretto, suo malgrado, a credere. Perchè
ci finì dentro e lì vi trascorse anni terribili.
L'inferno aveva un nome: Cayenna. E quello divenne pure il suo
soprannome: Giacu Cayenna.
La sua storia comincia il 9 giugno 1908, ad Ostana, primogenito
di otto figli. Esattamente 15 anni più tardi, 9 giugno 1923, la
svolta: quella notte, col padre, il padrino di battesimo, "i più
piccini nelle gerle" e la compiacenza di un brigadiere della
Finanza, Giacomo varca il Colle delle Traversette e scende in
Francia, nel vallone del Queyras. «Avevo fatto pochi passi su
quella terra quando mio padre mi richiamò indietro… Non ero in
grado di capire, ma sebbene non ne avessi capito il significato,
conservai quelle parole nel cuore e nell'anima come una reliquia.
Così mi disse: "La necessità di vita… mi obbligano a
portarti in terra francese, ma non dimenticarti mai quel borgo che
vedi laggiù… quello dove sei nato. Qualunque cosa ti possa
accadere, non vendere mai la tua patria"».
E Giacomo, lassù sul Colle delle Traversette, comincia la sua
avventura. «Fu un triste giorno, fu l'inizio del più lungo
viaggio mai tentato da nessun esploratore e neppure immaginato da me
in cerca di fortuna». Un viaggio che lo portò lungo sentieri
lontani dalla sua Ostana e giù nelle profondità del suo animo, che
mai si stancò di scandagliare.
Così, Giacu Cayenna, uno che non credeva in Dio, cominciò a
vedere nella sua incredbile odissea il sottile disegno del Destino.
Una forza senza nome che possiamo chiamare istinto, fortuna o
scaltrezza: quella che gli consentì di uscire vittorioso dalla
lotta per la sopravvivenza e di tornare al suo paese natale.
"Dall'inferno al Monviso" è il titolo del diario
scritto da Bernardi nel 1934 e fortunosamente giunto tra le mani
della nipote, Livia, che a quel nonno «speciale, misterioso,
imprevedibile» dovette dire addio ad appena tre anni. «Ho
sentito parlare di lui con rispetto, con sospetto, con amicizia ed
affetto ed anche con silenzi non chiari o mezze frasi dal sigificato
oscuro, dovute principalmente a quella sua avventura in Francia, a
quella sua storia di cui tutti parlano, ma che forse nessuno conosce
realmente e nel suo significato più profondo, e che ha fatto di lui
il Giacu Cayenna la cui fama ha superato i confini del suo piccolo
paese», scrive Livia Bernardi nell'introduzione del volume
pubblicato in questi giorni dalla Lar Editore di Perosa. Un tributo
della nipote al mitico nonno che, ancora minorenne, fu condannato ai
lavori forzati.
Nel febbraio '26 a Martigues, durante una "stupida"
lite, uccide un altro giovane emigrato: Pes Pantaleoni, di origine
sarda. Da quel momento inizia la sua discesa agli inferi, ma anche
la sua faticosa resurrezione.
Arrestato, confessa l'omicidio e viene rinchiuso, in attesa di
giudizio definitivo, nel terribile penitenziario di Fontevrault:
un'abbazia costruita nel XII secolo vicino a Chinon (dove sono
custodite le tombe di Enrico II d'Inghilterra e del figlio Riccardo
Cuor di Leone), usata come carcere dal 1804 al 1963. "Regina
del silenzio", la chiamavano i prigionieri, perché qui, dove
si lavoravano canapa e lino e si producevano bottoni, reti da pesca,
guanti, coperte per l'esercito, vigeva la disciplina più ferrea ed
il rispetto del silenzio assoluto.
Il 17 gennaio '29 la Corte d'assise di Aix-en-Provence lo
condanna a dieci anni di lavori forzati e a vent'anni di
interdizione (nonostante fosse minorenne ed incensurato).
Da Fontevrault viene trasferito a La Rochelle e il 22 febbraio
1930, stivato nel tenebroso piroscafo La Martinière con altri 640
sciagurati, lascia l'Isola Re: «L'ultima banchina dove odio e
amore si contorcevano… trampolino d'addio al mondo». Tremila
spettatori in fermento, che facevano volare «qualche scatola di
Gauloises, ma pure uova marce e patate al grido di morte. Ebbi un
istante di smarrimento e di incertezza: assistevo io alla mia
eliminazione senza croce? Oppure ero un seguace di Cristo al
Calvario?».
IL 18 marzo del '30 sbarca a S. Lorenzo
del Maroni il tristemente famoso bagno penale della Guyana francese.
La Cayenna. 'Bernardi Giacomo? Presente. Da oggi risponderai
presente quando chiameremo all'appello 50576. Non potrete
dimenticarvene, è stampato sul petto con un nero indelebile'
Quel giorno lui cresciuto al cospetto del Monviso diventa numero.
Un destino che
sembra segnato, ma che il giovane montanaro riesce a ribaltare.
II 16 aprile `33,
con otto compagni, evade ed inizia un'epica peregrinazione tra i
mari dell'America latina. Tocca l'isola di Trinidad, poi approda in
Colombia e da qui, in settembre, viene rimpatriato. L' 11 ottobre
arriva a Genova e un mese più tardi, scortato dai Carabinieri,
risale la Valle Po e giunge a Crissolo, dove torna ad essere Giacomo
~ Bernardi. Uomo libero e non più matricola n. 50576.
Muore il 19 dicembre `74
con il desiderio, non realizzato, di veder pubblicate le
sue memorie. Quelle conte nute in un diario, scritto con penna di
cronista. Semplice, coinvolgente, pieno di cuore.
Un diario
che si rivolge ad un immaginario lettore, ma che soprattutto
aveva un obiettivo: far luce dentro se stesso. Con schietta
onestà, senza finzionio
tentativi di autoassoluzione. —I
mali non vengono da Dio o dai santi, vengono da ognuno. di
noi - scrive -.
Lasciamo
stare una cosa che non possiamo accettare che esista o non
esista, ma cerchiamo di identificare l'origine della nostra
esisten
za, il
perno della nostra rotta nell'infinito». Bernardi
l'ha fatto con la grandezza e la profondità, perfino irridente,
di chi ha
il coraggio di
guardare la propria vita con una punta di lucido distacco.
Lucia
Sorbino
Giacomo Bernardi, `Dall'inferno
al iYlonviso'; a cura di Livia Bernardi, Lar editore, 2009, pp.
208, 16 euro.

Un anarchico nell'inferno della Caienna
R. Brosio
A-rivista anarchica, n. 21, maggio 1973
Parigi, ottobre 1886. Celato nell'ombra di un portone, il
brigadiere Rossignol si tirava nervosamente i mustacchi. Se tutto
fosse andato per il verso giusto, stava per portare a termine
un'altra brillante operazione di polizia, un ennesimo successo da
aggiungere al suo già fornito curriculum. Non aveva motivo di
dubitare del buon esito della cosa. Era un uomo sicuro del fatto
suo, il brigadiere, una specie di Calabresi dell'epoca, famoso per
il coraggio e la efficienza con cui sapeva perseguitare la malavita
cittadina. Quella volta si trattava di arrestare un pericoloso
sovversivo, accusato di furto con scasso e incendio doloso, e
l'agguato era stato predisposto con tutta la cura necessaria, tale
da non destare preoccupazioni. Si era portato appresso una ventina
di agenti, li aveva dislocati strategicamente, lui stesso era lì,
pronto a dare il via alla manovra. Se era nervoso, era soltanto a
causa dell'attesa. Fu forse per quest'eccesso di fiducia, o per la
smania di fare bella figura, o per entrambi i motivi, che, appena il
personaggio in questione si decise a comparire, il brigadiere
Rossignol balzò senza esitare dal suo nascondiglio, precedendo i
colleghi. In un lampo fu addosso al ricercato, urlando come un pazzo
la frase di rito, quella certamente che preferiva fra i tanti
stereotipi del linguaggio poliziesco: "In nome della legge, ti
dichiaro in arresto!". Era la tecnica che usava in quei casi,
per spaventare il delinquente colto sul fatto e togliergli subito
ogni velleità di reazione. Ma non funzionò. Invece che con
tremebonda rassegnazione il suo exploit venne accolto da un ringhio
minaccioso: "E io ti ammazzo, in nome della libertà!". A
conferma delle sue intenzioni, l'uomo aveva estratto un coltello
lungo un palmo. La zuffa che seguì fu violentissima. Mentre gli
altri sbirri cercavano vanamente di bloccarlo, l'irriducibile
individuo inferse una mezza dozzina di coltellate al Rossignol e,
nel disperato tentativo di divincolarsi, gli schizzò addirittura un
occhio dall'orbita. Alla fine, il numero ebbe ragione della sua
resistenza. Venne ammanettato e portato in galera. Il brigadiere andò
all'ospedale, con un successo in più al suo attivo e un occhio di
meno. L'antagonista dell'incauto poliziotto era Clement Duval,
anarchico espropriatore, che quel giorno suggellava sanguinosamente
la propria esistenza di militante rivoluzionario per iniziarne, di lì
a poco, un'altra, quella di galeotto deportato alla Guyana. Una
conseguenza fatale, tutto sommato, così come la ribellione violenta
era la conseguenza fatale di una esistenza senza gioia, sofferta,
come vedremo, sotto il giogo dello sfruttamento e della
sopraffazione. Da questo punto di vista, la vicenda di Duval ha un
significato che trascende il caso umano, perché è lo specchio di
un'epoca, in cui si riflette il volto reazionario della Francia
neo-industriale imperialista, sfruttatrice, repressiva. A quel
tempo, poteva essere la storia di tutti, e in effetti lo fu di
molti. Proprio in questa mancanza di eccezionalità risiede, oggi,
il suo valore esemplare.
proletario
Duval era di famiglia proletaria, e imparò ben presto cosa questo
significasse. Ebbe il primo, brusco, contatto con la realtà in
occasione del conflitto franco-prussiano, nel 1870 quand'era appena
ventenne. Arruolato nel 5° battaglione Cacciatori a piedi, fu
spedito al fronte, a sperimentare di persona quanto costava la
gloria della nazione e chi doveva pagarne il prezzo. Grazie alle
perfette condizioni igieniche in cui l'esercito francese veniva
tenuto, si prese il vaiolo, scampando per miracolo. A Villorau fu
ferito dallo scoppio di un obice, tanto gravemente da restare
inchiodato per sei mesi in un miserabile ospedale di guerra. Tornò
a Parigi nel 1873, in quanto, dopo la morte del padre, era l'unico
sostegno della famiglia: tutto intero ma rovinato per sempre
dall'artrite e dai reumatismi, postumi delle lesioni e della lunga
degenza. Ironia della sorte, a casa trovò che la famiglia di cui
doveva essere il sostegno non esisteva più. La giovane moglie (che
aveva sposato poco prima di partire per il fronte) incapace a
reggere da sola sia le sorti del menage che il peso della
solitudine, si era messa con un altro, e il povero Duval, dopo le
gioie della vita militare, ebbe modo di conoscere la condizione di
reduce cornuto. La mentalità dell'epoca non era delle più aperte,
in fatto di costumi sessuali e rapporti extramatrimoniali, e Duval,
benché progressista, non era nelle condizioni di spirito migliori
per guardare alle cose con quella serenità che le sue idee
avrebbero richiesto. Ci vollero così ben 14 mesi di rancore e
gelosia retrospettiva perché i due coniugi riuscissero a
dimenticare l'incidente e tornassero a vivere insieme. Fu l'inizio
di un periodo di relativa tranquillità. Lui lavorava come meccanico
in un'officina di Parigi, la moglie badava alle faccende domestiche,
e la vita benché dura, poteva sembrare quasi felice, a paragone di
quella del fronte. Non che fossero rose e fiori, intendiamoci. In
fabbrica, 14 ore di lavoro al giorno, disciplina ferrea, lo spettro
del licenziamento ad ogni minima mancanza. A casa, vitto povero,
sporcizia, squallore, i lunghi silenzi della fatica e della miseria.
Era la vita che conducevano allora i proletari dei paesi
neo-industriali. In quest'epoca, Duval maturò le sue convinzioni
libertarie, le affinò con letture e con l'esperienza diretta,
rendendosi conto della natura dello sfruttamento e convincendosi che
l'unica prospettiva di emancipazione per le classi inferiori stava
nella rivoluzione. Ma, più che per le idee e le intenzioni
sovversive, si faceva allora conoscere per la fermezza orgogliosa
del carattere, per l'onestà, per la passione che nonostante tutto,
metteva nel suo mestiere. Ma era segnato. Non da un soprannaturale
destino avverso e nemmeno tanto dalle idee che professava, piuttosto
dalla sua condizione di sfruttato, di reietto cui la società
chiedeva tutto, dolore, sacrificio, rassegnazione, e non dava nulla
in cambio. Dopo appena tre anni di vita normale, un terribile
attacco di reumatismi venne a ricordargli di aver combattuto per la
patria, inchiodandolo in letto, quasi senza interruzione, fino al
1878. Perse il lavoro, e se prima era stata la povertà, ora fu la
miseria. E, con la miseria, le liti in famiglia, le recriminazioni,
il disprezzo degli altri, l'angoscia di un'esistenza senza
prospettive senza pietà. La disperazione. L'odio.
espropriatore
E Duval rubò. Per vivere, per mangiare, senza porsi problemi di
alcun genere, con l'unica consapevolezza di non avere alternative.
Rubò una prima volta, in una biglietteria ferroviaria, pochi
franchi sottratti dal cassetto mentre l'impiegato era assente, e gli
andò bene. Rubò una seconda volta, di lì a poco e nello stesso
luogo, ma venne sorpreso e acciuffato. Il risultato immediato fu la
prigione (un anno a Mazas) e l'abbandono, ormai definitivo, da parte
della moglie. Ma non fu l'unico né il più importante. Quel primo
contatto con l'illegalità lo fece meditare e lo convinse non solo
della sostanziale legittimità del furto (o "riappropriazione
individuale", come si diceva allora) ma della possibilità che
esso divenisse un mezzo di lotta. Un mezzo, si badi, non un fine a sé
stante. Ché proprio in questa concezione, accettabile o no che
fosse sul piano della strategia rivoluzionaria, sta la grandezza
d'animo di Clement Duval. Altri sarebbero venuti, dopo di lui, a
rubare, a rapinare, solo per sé e per la propria vita, scambiando
per rivoluzione quella che era invece rivolta individuale (pur
comprensibile), convinti che bastasse sottrarre al ricco i suoi
averi, senza domandarsi cosa bisognasse farne dopo. Duval, al
contrario, vedeva nel furto solo uno strumento per finanziare
l'attività politica, per stampare la propaganda sovversiva, per
agitare le masse, per preparare le armi necessarie allo scontro con
la borghesia sfruttatrice, per fare la rivoluzione anarchica. La
sua, fu una lotta solitaria, a causa delle condizioni in cui fu
costretto ad agire, ma non egoistica. Dopo i primi tentativi
inconsapevoli, egli seppe oltrepassare la propria tragedia
personale, trovando in essa il punto di partenza per una visione più
ampia, la ragione di una lotta fatta né per se stesso né per gli
altri, ma per tutti. Quando Duval uscì di galera, cominciò
attivamente a fare propaganda libertaria nelle fabbriche, intorno a
Parigi, e si rese conto di essere come in guerra. Una guerra
condotta senza esclusione di colpi, senza convenzioni internazionali
che ne regolassero i meccanismi, senza aristocratico fair-play. Ogni
rivendicazione finiva con licenziamenti massicci, ogni sciopero si
trovava di fronte i fucili dell'esercito ed erano morti e feriti,
ogni pubblica manifestazione di dissenso era l'occasione per arresti
di massa (ed era la galera, la deportazione, la ghigliottina). Duval
pensò (chi può dargli torto?) che non si potesse fare altro che
rispondere alla violenza con la violenza. E, perdio, rispose. Una
fabbrica di pianoforti, gli edifici della compagnia degli Omnibus,
una ebanisteria, una fabbrica di carrozze, le officine Choubersky
dove egli stesso lavorava, la ditta Belvallette di Passy: i luoghi
dove lo sfruttamento più disumano veniva consumato, dove gli operai
sputavano la salute 14 ore al giorno in cambio di quattro miserabili
franchi, dove il privilegio più indegno si formava e si
consolidava, caddero in rovina, distrutti dal fuoco, sventrati
dall'esplosivo. È in questo periodo che nasce nell'iconografia del
regime, la figura dell'anarchico dinamitardo, tenebroso vendicatore
dei torti proletari, incubo del borghese e del benestante. Duval,
ormai, era uno di questi. La notte del 5 ottobre 1886 accadde
l'episodio che doveva determinare la sua rovina. Duval si introdusse
nell'appartamento di Madame Lemaire, una ricca signora che abitava
al n. 31 di Rue de Monceau. Gli inquilini erano in villeggiatura ed
egli potè agire indisturbato: razziò accuratamente tutti gli
oggetti preziosi che riuscì a trovare e devastò quanto fu
costretto, per il peso o l'ingombro, a lasciare sul luogo.
Andandosene, senza volerlo (ché non aveva interesse alcuno ad
attirare l'attenzione mentre era all'opera), appiccò il fuoco alla
casa. Il danno, tra furto e incendio, fu di oltre diecimila franchi,
una bella somma che contribuì a dare una certa risonanza
all'avvenimento. La polizia non tardò a scoprire il responsabile. I
gioielli espropriati, messi in vendita troppo presto, lasciavano
dietro di sé una traccia evidente, che in qualche giorno permise di
risalire ai ricettatori e quindi a Duval. Sorpreso davanti
all'abitazione di un compagno, questi venne arrestato, e non senza
fatica, come abbiamo già raccontato.
il processo
Anche il processo, che si tenne l'11 e il 12 febbraio 1887 dinnanzi
alla Corte d'Assise della Senna, fu ben lontano da svolgersi in modo
tranquillo. L'imputato rimbeccò i giudici con fermezza rifiutando
il ruolo di delinquente comune in cui lo si voleva costringere,
reclamando a gran voce la natura politica del suo movente,
contestando la pretesa degli uomini di toga in "fare
giustizia". Da accusato si fece accusatore, delle
malversazioni, dell'ingiustizia dello sfruttamento, delle
mistificazioni, dei torti subiti, da lui e da quelli come lui. Il
pubblico, che stipava fitto il tribunale, fu trascinato da quella
veemenza e fece eco. L'ultima udienza terminò in una baraonda
gigantesca. Duval espulso dall'aula, la gente che gridava "Viva
l'anarchia!", la polizia quasi sopraffatta dalla folla, i
giudici in fuga verso la Camera di Consiglio, e poi insulti e zuffe,
botte e arresti. Un'ora dopo, sedato il tumulto, la Corte comunicò
il verdetto: la morte. Una pena dettata dalla paura, certo
sproporzionata alla gravità dei reati in discussione. Il 29
febbraio, forse rendendosi conto di questa sproporzione, il
Presidente della Repubblica commutò la sentenza in quella, solo
apparentemente più mite, della deportazione a vita. Il consesso
civile chiudeva i battenti alle sue spalle e gli spalancava quelli
dell'inferno. Per sempre. Il 25 marzo, alle quattro del pomeriggio,
Duval partiva con la nave "Orne" dalla fortezza militare
Lamalgue, di Tolone, alla volta della Guyana. Di quale vita
l'attendesse aveva avuto una raccapricciante anticipazione fin dal
primo giorno che era giunto al forte. Le sue stesse parole (1),
pur nella loro ridondanza fin de siecle, sono di una eloquenza cui
non servono commenti: "(...) non oserò mai ridire la
corruzione putrida di quella borgia in cui ogni affetto e sentimento
umano fermentava all'ultimo stadio purulento della decomposizione.
Lungo i muri, sdraiati sul tritume miasmatico dei sacconi, erano gli
esausti, la povera gente che a tutte le speranze aveva dato l'addio
(...). Negli angoli discreti a cui non giungevano né il guizzo
scialbo dei lumi ad olio, né lo sguardo dei curiosi, erano fremiti
e singulti, la foia, il delirio bestiale della fornicazione. Un
trivio di Sodoma eretto all'ombra della terza repubblica della
borghesia benpensante, ad onore e gloria della morale vereconda e
della scienza penale positiva".
l'inferno
Dopo questo, a togliere definitivamente ogni illusione, vennero i
trenta giorni di mare, sulla nave-galera che lo portava al bagno
della Guyana. Suoi compagni di sventura erano ladri, assassini,
bruti senz'anima figli dell'abiezione, della miseria,
dell'ignoranza: Lebou, condannato a vita per avere bruciato sua
madre; Faure, che per questioni di interesse squartò il fratello e
lo diede in pasto ai maiali; Menetier, che aveva ucciso due vecchie
per violentarne i cadaveri; ed altri tutti degni prodotti della
società che li aveva generati. Questa umanità spaventosa veniva
schierata tutte le mattine sul ponte per l'ispezione, fra il
ludibrio, le volgarità, i commenti idioti della ciurma, dei
secondini, dei passeggeri civili. Duval non era uomo da sopportare
tale trattamento. Alla prima occasione si ribellò, rispondendo per
le rime alle provocazioni, ed ebbe così un altro assaggio della
sorte che lo attendeva al penitenziario: nudo come un verme, fu
sbattuto per due giorni, in una cella piena d'acqua, in cui non
poteva star ritto perché troppo bassa, né si poteva allungare
perché troppo stretta. La repressione nella repressione. La Guyana
era veramente un inferno, un abisso immondo di violenza e
depravazione, reso ancora più intollerabile dal clima tropicale
umido e caldissimo. Laggiù, l'idea ipocrita che la galera possa
servire all'espiazione e al ravvedimento, trovava a quei tempi la più
tragica delle smentite. La Guyana era sinonimo di lavoro forzato, di
ferri alle caviglie, di cibo putrescente, di celle di punizione, di
insetti brulicanti, di scorbuto, amebiasi, dissenteria. Redenzione?
Al bagno, gli uomini perdevano la salute, la dignità, morivano di
stenti e di malattie, marci nel corpo e nel cuore, avviliti,
spezzati, violentati, ridotti loro malgrado allo stato di animali. I
delinquenti più feroci ottenevano qualche squallido privilegio con
la prepotenza, a spese dei propri stessi compagni. I più cinici
barattavano la simpatia dei guardiani con il servilismo, la
delazione. I più deboli subivano. Il penitenziario era l'immagine,
peggiorata e pervertita, di tutti i vizi, di tutte le miserie, di
tutte le sopraffazioni proprie della società che l'aveva prodotto.
Proprio per quello, quelli che non erano piegati prima, quand'erano
in libertà, non accettarono di piegarsi adesso che si trovavano in
una società più feroce, ma non dissimile dall'altra. Duval (e in
genere tutti gli anarchici che finirono al bagno) non fece
eccezione. La storia della sua permanenza nell'isola maledetta è la
storia della sua fierezza, della sua irriducibile volontà di lotta,
del tentativo costante di non perdere la sua misura d'uomo, di non
precipitare anche lui nel baratro di turpitudine che aveva di
fronte. E ci riuscì. Si opponeva ai taglieggiamenti dei guardiani,
insorgeva contro le ingiustizie, aiutava i compagni più sfortunati,
smascherava le spie e i provocatori. I secondi più crudeli, i
direttori inebetiti dall'assenzio, le canaglie, gli assassini, i
bruti senz'anima che popolavano il penitenziario, impararono a
tributargli una sorta di rispetto, certo degno di un ambiente
migliore, in cui l'ammirazione per la rettitudine si mescolava al
timore per la durezza della sua scorza. Un rispetto meritato, se si
pensa al prezzo che dovette pagare per ottenerlo.
la rivolta
La notte fra il 21 e il 22 ottobre 1895 scoppiò una rivolta
sull'isola, organizzata dal gruppo, abbastanza numeroso, di
anarchici che si trovavano allora al bagno. Fu una impresa senza
speranze, compiuta più per vendicarsi delle continue vessazioni cui
erano sottoposti i compagni, che per le vere possibilità di
successo che presentava. Duval partecipò attivamente alla sua
preparazione, che fu lunga, controversa e laboriosa, ma al dunque
dovette rinunciare a dare il suo apporto attivo perché mandato in
un altro luogo per punizione. Fu, tutto sommato, una fortuna.
Infatti, l'Amministrazione penitenziaria messa sull'avviso dalle
delazioni di un paio di traditori, aveva deciso di cogliere
l'occasione per sterminare l'intera colonia anarchica, fonte
continua di preoccupazioni per il carattere indocile dei suoi
componenti. E così fu. Appena i rivoltosi uscirono dalle camerate,
trovarono ad attenderli i fucili delle guardie. "Sangue freddo
e senza quartiere" aveva raccomandato il comandante Bonafai,
capo del servizio di Sicurezza Interno, ai suoi uomini, che per
l'occasione erano stati ubriacati come maiali. Con un massacro
allucinante, gli anarchici Garnier, Simon, Leauthier, Lebault,
Masservin, Dervaux, Chevenet, Boesie, Mesueis, Kesvau, Marpeaux,
furono sorpresi, inseguiti, uccisi uno per uno senza pietà.
L'indomani, i loro corpi crivellati di colpi vennero gettati in
mare, in pasto ai pescicani, mentre la Commissione d'inchiesta,
subito nominata, continuava la repressione, arrestando e mettendo ai
ferri tutti quelli su cui aleggiava anche il semplice sospetto di
aver aiutato i ribelli. Duval restò alla Guyana 14 anni. In questo
tempo, tentò l'evasione più di venti volte, cogliendo ogni
occasione, con ogni mezzo: su zattere di fortuna, su barche rubate o
pazientemente costruite, clandestino sulle navi in transito. Ogni
volta qualcosa andava per traverso. Veniva preso, scontava
l'inevitabile punizione, e ricominciava. Se avesse rinunciato, dopo
i primi fallimenti, sarebbe morto in galera come tanti altri, roso
dalla febbre o ucciso da un guardiano. Invece, per la sua incapacità
a rassegnarsi, si salvò. Tenta e ritenta, un insuccesso dopo
l'altro, finalmente venne la volta in cui la fortuna girò per il
verso giusto.
l'evasione
Il 13 aprile 1901, Duval, con otto compagni di pena, metteva in mare
un fragile canotto e si dirigeva silenziosamente verso il mare
aperto. Era notte fonda, e nessuna guardia si accorse dell'evasione
fino al giorno dopo. I deportati ebbero modo, così, remando di
buona lena, di allontanarsi indisturbati. Al mattino, issata la
vela, fecero rotta verso nord-est, per uscire dalla giurisdizione
francese. Una nave da guerra li incrociò, senza mostrare il minimo
interessamento, continuando per la sua strada. Un buon inizio.
Veleggiarono tranquilli per tutto il giorno sospinti da una brezza
leggera. Al timone stava un mozzo, ottimo marinaio, la cui
esperienza nautica contribuiva a tenere alto il morale degli evasi.
Ma alla sera, il tempo si guastò. La brezza divenne ben presto un
uragano capace di sollevare ondate gigantesche, che riempivano di
acqua la barchetta, costringendo gli uomini ad un continuo
angoscioso lavoro di svuotamento. Per di più, il mozzo a causa
della mancanza di vitamine (retaggio del regime alimentare del
penitenziario), di notte perdeva completamente la vista e la sua
abilità diventava ben poca cosa senza l'aiuto degli occhi. Fu una
notte d'inferno, in cui più volte corsero il rischio di finire ai
pescecani. Il mattino dopo, le condizioni atmosferiche migliorarono,
quelle del mozzo anche, e in breve tempo Duval e i suoi compagni
giunsero in vista della terra. Era la zona di Paramaraibo, nella
Guyana Olandese. Cioè fuori dalle grinfie dell'Amministrazione
penitenziaria. Il più era fatto. Anche così, però, gli evasi
erano in pericolo. Come galeotti fuggitivi, potevano essere
incarcerati dalla polizia olandese. Se la Francia l'avesse saputo,
potevano venire estradati e internati nuovamente nell'isola
maledetta. L'Odissea non era ancora finita. Sarebbe durata due anni.
Sempre sotto falso nome, sempre allerta per non venire scoperto,
sempre in lotta con la fame e con le autorità, costretto ai lavori
più umili e miserabili, Duval passò nella Guyana inglese, poi, da
lì nella Martinica, giungendo infine a Porto Rico. Qui si fermò un
poco, rimettendo in sesto la salute malandata e ricostruendosi un
embrione di vita normale. Il 16 giugno 1903 si imbarcò per gli
Stati Uniti, con la prospettiva di un'esistenza perlomeno libera. La
deportazione era ormai solo un ricordo, anche se incancellabile.
(1) Clement Duval, Memorie autobiografiche, 1929,
pag. 86.
http://www.ecn.org/filiarmonici/duval.html

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