(estratto da file
) 1958 …
La Beloit, multinazionale americana,
entra in Italia nel 1958 acquistando dalla Cartiera Burgo prima metà
e poi tutto il pacchetto azionario delle officine Poccardi di
Pinerolo (OMPP).
La Beloit Italia costruisce macchine
continue per cartiera. Altri stabilimenti Beloit sono in Canada,
Spagna, Gran Bretagna ecc.. Nel ’58 l’officina Poccardi conta
400 dipendenti con una forte tradizione sindacale e di lotta. La
nuova direzione non intende assorbire il personale del reparto
Riparazione Carri Ferroviari (65 operai) ma con la lotta vengono
fermati i licenziamenti. In tre anni si passa a 1200 dipendenti, la
Beloit assorbe personale specializzato mettendo in crisi la piccola
industria locale – arrivano poi maestranze specializzate da tutta
Italia. A quel tempo si diceva che si volesse giungere fino a 2500
dipendenti. Le alte paghe, specialmente nel settore impiegatizio
spiegano il calo di conflittualità nella vertenza nazionale del
1959. Nel ’60 dopo una riduzione di orario da 45 a 40 ore per
riduzione delle commesse, l’azienda licenzia 2 membri di
commissione interna. Sciopero dal 10 al 13 giugno. Ritiro dei
licenziamenti. Nel 1961 sorge l’ALABI (Associazione Lavoratori
Apolitici Beloit Italia) con lo scopo di rompere l’unità dei
lavoratori. Nasce anche il foglio aziendale "la voce della
Beloit Italia" e l’azienda assume in proprio attività
culturali, ricreative ed assistenziali con lo scopo di operare un
efficace controllo sulla manodopera. L’ALABI si impone
rapidamente: 4 seggi su 12 nella Commissione Interna nel ’61, 6
nel ’62, e poi la maggioranza assoluta. Nell’ottobre del ’62
cominciano i licenziamenti collettivi e in un clima deteriorato
dall’azione dell’Alabi vengono colpiti in particolare alcuni
attivisti sindacali (fra cui Bosio della Fiom). Nel marzo’63 viene
licenziato Orsi e alla fine dell’anno si chiedono 90
licenziamenti, poi ridotti a 45.
Né allora né a febbraio ’64
quando vengono licenziati 75 impiegati le maestranze si muovono –
per il controllo dell’Alabi e per la paura di perdere il posto di
lavoro in un momento di recessione economica.
Il 29/12/64 vengono richiesti altri
300 licenziamenti e parte lo sciopero. Il 7 gennaio ’65 c’è
l’occupazione della Beloit ( all’inizio è presente anche l’Alabi).
Il 16 gennaio la fabbrica viene sgomberata dalla polizia.
I licenziamenti vengono ridotti a
123, più alcune dimissioni volontarie e varie sospensioni a 0 ore.
Nel luglio ’66 160 sospensioni a 0 ore verranno poi trasformate in
licenziamento, alcuni lavoratori sospesi verranno reintegrati. Dopo
l’occupazione torna apparentemente la calma, non si aderisce agli
scioperi nazionali metalmeccanici del ’66. Ma sta crescendo lo
scontento verso l’Alabi, con astensione e schede bianche alle
elezioni interne.
1bis.
Intervista a Franco
Castagno e Giuseppe Civallero (Cronache del Pinerolese
–18/1/1985)
** Con voi vorrei parlare in
particolare di come venne decisa l’occupazione e come viveste quei
10 giorni dentro gli stabilimenti.
(Castagno). Era da diversi giorni che
si facevano gli scioperi interni, quando ci giunse nella mattinata
del 7 gennaio la notizia dei licenziamenti. La discussione, come
puoi ben immaginare quando ci si trova di fronte ad un attacco così
brutale al posto di lavoro, si fece subito alquanto animata. Nel
giro di poche ore si decise di passare dagli scioperi interni
all’occupazione dello stabilimento. Ricordo che quelli più
politicizzati,come me ed altri, eravamo contrari a tale drastica
forma di lotta poiché ci rendevamo conto a cosa andavamo incontro;
quali enormi sacrifici avremmo dovuto affrontare per riuscire a
durare più a lungo possibile nel tempo. Mentre invece i più accesi
sostenitori dell’occupazione erano i meno politicizzati. Ritengo
che questo loro atteggiamento fosse determinato da due ragioni
fondamentali, una relativa all’illusione nata in un momento di
euforia di poter giungere così in tempi brevi ad una soluzione
positiva della vertenza in atto, l’altra alla voglia di ricrearsi
una certa verginità dopo aver per molti anni accettato supinamente
la politica paternalistica e discriminatoria dell’azienda ed il
ruolo filopadronale dell’ALABI.
** Cosa successe dopo che fu presa
tale decisione?
(Castagno-Civallero). Ci recammo
dall’allora capo del personale Manganaro comunicandogli la
decisione presa dalla maggioranza dei lavoratori e lo invitammo
quindi ad abbandonare lo stabilimento. Dopodichè nessuno più uscì
dalla fabbrica e qualcuno che se n’era andato a casa ritornò. Fu
quindi formato un comitato d’occupazione che ebbe il compito di
gestire i vari aspetti organizzativi della lotta quali i
collegamenti con l’esterno, la pulizia dei locali dove si mangiava
e si dormiva e cosa molto importante da ricordare, la sorveglianza
24 ore su 24 degli impianti produttivi e dello stabilimento nel suo
insieme onde evitare qualsiasi atto provocatorio di sabotaggio.
** Per dormire e mangiare quali
locali, visto che era inverno e faceva freddo, usavate?
(Civallero). Per mangiare si andava
nei locali della mensa, per quanto riguarda il dormire ricordo che
le prime notti le passammo nell’ufficio tecnico perché lì vi era
il pavimento di legno e nel dormire per terra si sentiva di meno il
freddo.
** I viveri, le coperte ed eventuali
brandine e materassini chi ve li fornì?
(Castagno). I viveri e le coperte ce
le portarono da casa le nostre famiglie, non ricordo se vi erano
delle brandine oppure qualche materassino sì ed anche quelli penso
provenissero dalle proprie famiglie. I cittadini normalmente ci
portavano altri generi di confort, tipo le sigarette.
** Prima Civallero ricordava il fatto
di dormire in un determinato ufficio perché così si pativa di meno
il freddo, vi ricordate se a causa di tale fattore climatico
qualcuno degli occupanti ebbe delle conseguenze negative per la
propria salute?
(Castagno): Altrochè, l’infermeria
funzionava a pieno ritmo, raffreddori ed influenze erano
all’ordine del giorno. Va ricordato che l’infermiera dello
stabilimento accettò di rimanere per darci la propria assistenza,
in più ogni tanto veniva il dottore di S.Secondo a visitare quelli
che si ammalavano e ci forniva dei medicinali necessari.
** Ad occupare la fabbrica eravate
tutti i dipendenti o qualcuno venne esonerato?
(Civallero- Castagno). No, non tutti,
esentammo dall’occupazione tutte le donne, gran parte degli
anziani e gli invalidi.
** Com’era lo stato d’animo tra
gli occupanti?
(Castagno-Civallero). Eravamo certamente molto preoccupati per come
poteva andare a finire la cosa, ma nonostante tutto eravamo
soddisfatti per la grande solidarietà che ci veniva mostrata dalla
popolazione locale. Inoltre fino alla fine, nonostante le
inevitabili discussioni soprattutto sulle proposte di soluzione da
dare alla vertenza, la solidarietà tra gli occupanti non venne mai
meno.
** Come viveste l’ultima fase
dell’occupazione, cioè quella dello sgombero dello stabilimento?
(Castagno). Io personalmente ero uno
di quelli contrari ad abbandonare la fabbrica, perché
sostanzialmente nulla era mutato dal momento in cui la maggioranza
dei dipendenti Beloit aveva deciso di occupare lo stabilimento.
Ricordo anche però di essere rimasto abbastanza isolato su tale
posizione, poiché la gran parte degli altri lavoratori non vedeva
l’ora di tornare alle proprie case.
(Castagno-Civallero). Presa la
decisione di uscire dalla fabbrica e di continuare la lotta
esternamente, consegnammo le chiavi del cancello principale nelle
mani del capitano dei carabinieri ed assieme a lui, al capo del
personale Manganaro ed altri dirigenti della Beloit, facemmo un giro
dello stabilimento a riprova che nulla era stato manomesso. Dopodichè
uscimmo e la lotta durò solo più pochi giorni con conseguente
esito finale assai negativo.
vedi inoltre La
Beloit italia - Lorenzo Tibaldo
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