Niente di nuovo sotto il sole ed.Pon Sin Mor - Torino 16 euro richiedere a http://ponsinmor.info/contatti.html ponsinmor@ponsinmor.info viene qui riprodotta l'introduzione di Diego Giachetti e quella dell'autore Piero Baral ------------- Prefazione
L’autore
di questo libro ha lavorato tre anni alla Fiat, nello stabilimento di Rivalta,
dal 1976 al 1979, anno in cui fu licenziato assieme ad altre sessanta persone.
Nel corso di una vita lavorativa come la sua, che lo ha portato a tanti altri
impieghi presso ditte e situazioni quei tre anni devono essere stati molto
intensi, vissuti, pieni, in grado ancora di offrire propellente e stimoli per
produrre un libro a più di vent’anni di distanza. Contribuisce a questa
callosità della memoria anche il finale traumatico del rapporto di lavoro: il
licenziamento, un evento periodizzante nella sua vita che ha lasciato una
cicatrice, ben rimarginata, ma pur sempre visibile, capace di far partire,
tutte le volte che si osserva, il motore della memoria. Tuttavia questo libro
non è mosso solo dall’intento del ricordare, del riproporre qualcosa del
passato, c’è in Baral un bisogno di capire che ancora oggi lo divora,
trovare cioè una contestualizzazione alla sua storia personale collocandola
in un quadro di spiegazione più ampio, di tipo storico-politico. Perché lui?
Perché i 61, non uno in più non uno in meno? Forse perché, come scrive
nella prima pagina mescolando pezzi della sua formazione chimico-scientifica e
classica, nella tavola di Mendelejev l’elemento con numero atomico 61 è il
promezio il cui nome deriva da Prometeo, quello che nella mitologia greca rubò
il fuoco agli dei per portarlo agli uomini e, per questo, fu punito
severamente.
Questa ipotesi, suggestiva, è però subito abbandonata, non c’era
nessun Prometeo fra noi, dice. E neanche quello che accadde loro servì ad
illuminare più di tanto il mondo degli uomini che operavano alla Fiat. Caso
mai, potremmo dire alla luce dei fatti dell’anno dopo, quando la Fiat si
liberò di migliaia e migliaia di operai, col ricorso alla cassa integrazione
a zero ore e alla mobilità, nei 61 licenziati si trova, tanto per rimanere
nel campo della mitologia greca, un gesto premonitore di sventure che
sarebbero seguite. Se nessuno era Prometeo, molti furono, volontariamente o
involontariamente, Cassandre. Non una Cassandra sola, unica e compatta, ma
tante, perché i 61, ci ricorda, erano “esemplari variegati di operaie e
operai”. Simili, se osservati con categorie sociologiche e politiche,
diversissimi se scomposti per età, provenienza, storie personali, culture,
mentalità, costumi.
Il punto d’inizio della narrazione è dato dal 9 ottobre del 1979,
quando le direzioni di stabilimento consegnarono a 61 dipendenti Fiat la
lettera di licenziamento. La motivazione era generica e uguale per tutti,
contestava “un comportamento consistente nell’aver fornito prestazioni di
lavoro non rispondenti ai principi della diligenza, correttezza e buona fede e
nell’aver costantemente manifestato comportamenti non consoni ai principi
della civile convivenza nei luoghi di lavoro”. Generica e quindi
giuridicamente inconsistente, come stabilì subito la magistratura del lavoro,
alla quale i 61 fecero ricorso, e che impose la riassunzione. Riassunzione che
non ci fu, perché questa volta, con una seconda lettera di licenziamento la
direzione Fiat entrava nello specifico delle accuse per ognuno dei licenziati,
attribuendo loro contestazioni circostanziate e particolari. A questo punto i
ricorsi divennero individuali. Il sindacato offrì, previa la sottoscrizione
di una dichiarazione contro la violenza, il servizio del collegio dei suoi
avvocati, la maggioranza dei 61 scelse questa via, altri, una decina,
contestarono il provvedimento ricorrendo senza il patrocinio sindacale, Baral,
invece, non fece ricorso.
Contestualmente ai licenziamenti la Fiat dichiarava il blocco delle
assunzioni in quanto, come diceva Cesare Annibaldi, direttore delle relazioni
industriali, “l’inserimento di nuovo personale in un clima come quello
attuale rischierebbe di compromettere l’indispensabile momento di
riflessione connesso all’esigenza di ripristinare in fabbrica un minimo di
governo [perché] il disordine all’interno delle officine è tale da
rasentare il collasso” («La Stampa», 11 ottobre 1979). La direzione Fiat
intendeva riportare l’ordine aziendale e produttivo in fabbrica e descriveva
i suoi reparti in preda ad un caos che durava da quando, con l’autunno caldo
del 1969, era iniziata la “grande sarabanda”, per dirla con le parole
dell’avvocato Agnelli intervistato da «La Stampa» il 1° luglio 1999.
Quella stagione di lotte aveva segnato la fine dei precedenti “anni duri
alla Fiat”, secondo la bella frase che dà il titolo ad un libro scritto da
Emilio Pugno e Sergio Garavini per i tipi dell’Einaudi nel 1974. Anni duri
per i lavoratori e i sindacalisti torinesi s’intende, perché, invece, per
l’azienda i decenni Cinquanta e Sessanta furono anni di espansione,
produttività, profitti e nuovi investimenti. Per l’azienda Fiat gli “anni
duri” vennero dopo le lotte del ’68-’69 che ridefinirono, modificandoli
a favore degli operai, i rapporti di forza all’interno delle officine,
destrutturando il vecchio organigramma di comando che governava la produzione
e inserendovi elementi di controllo operaio sulla produzione espressi dai
delegati e da quello che negli anni Settanta si chiamava il sindacato dei
consigli. Certo comandavano ancora i padroni, “ma in condizioni nuove, per
la nuova composizione della classe, per le conquiste consolidate di condizioni
di lavoro e di vita. E il padronato punta[va] con decisione a liquidare le
esperienze di controllo operaio, e i consigli come strumento di democrazia
operaia”[1].
Alla fine di quel decennio la direzione aziendale si mosse per
riportare ordine nei reparti, il che, sostanzialmente, voleva dire spezzare la
forza di contrattazione e di controllo su ritmi, tempi e produzione messa in
campo dai lavoratori mediante i consigli di fabbrica. Perché voleva
modificare quei rapporti di forza? Forse perché essi erano d’impedimento
all’aumento della produzione e la Fiat voleva incrementare la costruzione di
automobili? Non era proprio così. Più che sfruttare la forza lavoro alle sue
dipendenze, la Fiat aveva bisogno di ridurre il loro numero, per adeguarlo al
calo della produzione causato dalla crisi del mercato automobilistico che
investiva l’Europa e il mondo. Alcuni
mesi dopo i 61 licenziamenti, quando la polemica era sfocata, e ancora non si
sentivano palesemente le avvisaglie della lotta dell’autunno 1980 contro la
richiesta di mettere 23 mila operai in cassa integrazione, Umberto Agnelli,
amministratore delegato della Fiat, in un’intervista comparsa su «La
Repubblica» del 21 giugno 1980, poneva due condizioni per la ripresa
produttiva: la riduzione del numero dei dipendenti e la svalutazione della
lira: “oggi la Fiat ha impianti e uomini per produrre 1.800.000, forse 2
milioni di vetture. Ne facciamo un milione e mezzo. E l’anno prossimo
riusciremo a collocarne sul mercato ancora meno. In tutta Europa le vendite
sono sotto il 10% rispetto a quelle del 1979. Se non potremo ridurre
l’occupazione in modo sostanziale non avremo mai i bilanci in pareggio”.
Il problema era quello e si trattava di gestirlo sapendo che la
riduzione del numero dei dipendenti avrebbe suscitato dure reazioni da parte
dei lavoratori, del sindacato dei consigli, della Federazione Lavoratori
Metalmeccanici (FLM), mentre con i Confederali, CGIL, CISL e UIL era possibile
trattare, concordare, cioè alla fine trovare un accordo. Si trattava di
cominciare a saggiare quelle forze, vederne la consistenza, possibilmente
indebolirle, dividerle, costringere la polemica contro l’estremismo della
FLM, il sindacato dei consigli, che serpeggiava ai vertici di CGIL, CISL, UIL
e di una parte consistente del PCI, a uscire allo scoperto, a dichiararsi.
La Fiat non voleva certo liquidare il sindacato, anzi affermava, per
bocca dei suoi dirigenti, di volerlo più forte, nel senso di un sindacato
capace di governare la forza lavoro, non quello dei consigli che riteneva
incompatibile con gli obiettivi che si poneva per gli anni ’80. La nuova
strategia legata all’introduzione di nuove tecnologie richiedeva massima
libertà di scelta e rapidità di trasformazione, secondo le nuove esigenze di
mercato: flessibilità si direbbe oggi. La
questione centrale diventava la rottura della rigidità del mercato del lavoro
a partire dalla possibilità di licenziare, senza altra motivazione se non
l’esigenza di ristrutturare; si voleva introdurre la mobilità ad uso
elastico, senza vincoli o controlli; si voleva aumentare la produttività
riducendo l’assenteismo, introducendo nuovi turni, intensificando i ritmi;
si cominciò a parlare di regolamentazione dello sciopero assieme alle
critiche allo Statuto dei lavoratori troppo garantista nei loro confronti; si
voleva la libertà di selezione nelle assunzioni con l’eliminazione del
controllo da parte del collocamento. Più in generale, la ristrutturazione era
una necessità del capitale e delle aziende, ricordava un esponente autorevole
del PCI, Giorgio Amendola: “non si può pensare alla meccanizzazione,
all’automazione senza accettare la riduzione del numero degli operai
occupati per giungere ad una determinata produzione – riduzione certo
concordata, non imposta dal padrone, ma non rifiutata a priori dal
sindacato”[2].
La crisi della maggiore industria automobilistica si manifestava in un
contesto in cui violentissima e cruenta era l’azione dei gruppi terroristi
contro i quadri aziendali: il 21 settembre 1979 uccidevano Carlo Ghiglieno,
responsabile dell’ufficio programmazione Fiat auto, il 4 ottobre ferivano
gravemente Cesare Varetto, responsabile delle relazioni sindacali delle
carrozzerie Mirafiori. I capi reparto, i capi officina e quadri intermedi,
quelli che al tempo di Valletta costituivano l’ossatura del comando della
fabbrica, alla fine degli anni Settanta si scoprivano demotivati, incerti
circa la loro funzione nell’azienda, abbandonati, sovente poco considerati
dai vertici dirigenziali. Effettivamente la struttura consiliare, basata sui
delegati eletti dagli operai, aveva via via sostituito molto delle funzioni e
dei poteri attribuiti in precedenza alla pletora dei quadri intermedi:
controllo dei tempi, dei ritmi, dell’impiego delle maestranze, dei permessi;
inoltre, la ristrutturazione del ciclo produttivo che la Fiat stava attuando
contribuiva a ridimensionare ulteriormente il loro ruolo e funzione. Montava
tra loro un malcontento e una protesta che l’azienda non intendeva certo
lasciare senza risposta, prima che essa trovasse magari
un riferimento tra i sindacati dei lavoratori, e che si manifesterà
l’anno dopo nella periodizzante “marcia dei 40 mila”. Il licenziamento
di 61 estremisti era, in quella situazione, un segnale forte indirizzato ai
quadri intermedi, quelli che più pativano l’ingovernabilità dei reparti,
come dicevano, causata dalla maggiore capacità contrattuale dei lavoratori e
degli strumenti sindacali che si erano dati.
L’equazione che fu tratteggiata, soprattutto dai maggiori quotidiani
nazionali, fu abbastanza semplice e giornalistica: il conflitto in fabbrica
– si scrisse – aveva raggiunto livelli tali da essere “oggettivamente”
in rapporto col terrorismo, di qui l’equazione conflitto = violenza =
terrorismo. Giorgio Amendola, nel già citato articolo, la sposò con
entusiasmo e durezza espositiva: “chi può negare che vi sia un rapporto
diretto tra la violenza in fabbrica e il terrore? E perché il sindacato, i
comunisti non hanno parlato, denunciato in tempo quello che oggi viene
rivelato?” Puntò poi il dito contro determinati metodi di lotta, giudicati
troppo violenti: “occupazioni stradali, cortei intimidatori, distruzioni
vandaliche di macchine e negozi, stazioni occupate, autostrade ostruite,
blocco degli aeroporti”.
Così il discorso si spostò dalla crisi Fiat e dalla ristrutturazione
che stava mettendo in atto, al dibattito sulle forme di lotta, lecite,
illecite, violente, e al legame tra lotta contrattuale e terrorismo. Scrisse
all’epoca Loris Campetti sul «Manifesto» del 16 ottobre 1979: “tra le
forze di sinistra e dentro il sindacato, si fa più attenzione a come
denunciare le forme di violenza in fabbrica che non a respingere i
licenziamenti. Troppi hanno paura di sporcarsi le mani con i licenziati: si
fanno i distinguo, si parla solo di difesa legale da parte di un collegio di
avvocati del sindacato. Il PCI accusa il sindacato di porre resistenze nelle
iniziative contro il terrorismo e richiama i suoi quadri che troppo si sono
impegnati nelle strutture della FLM e troppo poco come militanti comunisti, a
rientrare nei ranghi”.
Effettivamente, di fronte al licenziamento dei 61 il sindacato e la
sinistra manifestarono esplicitamente divisioni e polemiche che già
serpeggiavano da alcuni anni: l’FLM e i sindacati torinesi, organizzarono
scioperi e manifestazioni pubbliche, mentre le confederazioni e il PCI –
avvisati personalmente da Cesare Romiti[3]
prima dell’avvio dei provvedimenti e invitati dalla Fiat a tenere “un
atteggiamento responsabile” –, preferirono defilarsi, accusando i
sindacalisti torinesi e la FLM di essere “renitenti” nella lotta contro il
terrorismo e la violenza[4].
Negli anni successivi, a seguito delle indagini della magistratura, si scoprì
che dei 61 licenziati solo quattro erano in collegamento, o lo erano stati,
con gruppi terroristi[5].
Che i vertici dei sindacati confederali e dei maggiori partiti politici
fossero stati preavvertiti dalla direzione Fiat, circa l’intenzione di
procedere con decine e decine di licenziamenti, era una voce diffusasi
immediatamente nei giorni seguenti le lettere di licenziamento, lo scriveva ad
esempio Loris Campetti sul «Manifesto» del 16 ottobre. Più tardi si sarebbe
saputo, per ammissione dei protagonisti, che la direzione Fiat aveva preparato
da tempo la sua mossa e aveva avvisato i sindacati: “prima di dare il via a
quel provvedimento avvertimmo i capi dei sindacati”, ricorda Cesare Romiti,
e le segreterie dei principali partiti. Durante quella riunione Umberto
Agnelli avvertì “che le condizioni dell’azienda [rendevano] imperativa
una risposta energica”, gli interlocutori ne presero atto, non opposero
alcuna obiezione se non la “preoccupazione per la reazione che un
provvedimento sensazionale” poteva provocare e consigliarono la “Fiat di
presentare circostanziate denunce alla magistratura”. Prima della consegna
delle lettere di licenziamento, in tutti gli stabilimenti i responsabili del
personale convocarono membri degli esecutivi dei consigli di fabbrica. “Tra
gli altri vennero convocati d’urgenza alle Presse di Mirafiori, Felice
Celestini e Gino Giulio, ai quali la direzione di stabilimento chiese di
tenere rispetto ai licenziamenti una posizione “responsabile” anche perché,
fece loro capire, l’operazione era stata concordata con importanti dirigenti
nazionali e locali sia del sindacato che del PCI”
[6].
L’ FLM, invece, reagì, “siamo al 7 aprile della classe operaia –
dichiarava a «La Stampa», il 12 ottobre 1979, Veronese, segretario nazionale
–. La Fiat coglie l’occasione del riferimento alla battaglia contro il
terrorismo per colpire i lavoratori e recuperare spazi di libertà e arbitrio
che aveva perso, strumentalizza il discorso sul terrorismo per colpire un
altro bersaglio, le lotte, il sindacato, l’organizzazione operaia in
fabbrica”.
Contro i licenziamenti la FML organizzò il 16 ottobre del 1979 al
Palazzetto dello Sport un’assemblea di tremila delegati con la presenza dei
segretari nazionali delle confederazioni, Lama, Carniti e Benvenuto, nella
quale venne dichiarato per il 23 ottobre uno sciopero nazionale dei
metalmeccanici e a Torino di tutta l’industria. In quell’occasione, a nome
dei 61 prese la parola Angelo Caforio: “Dieci anni fa, proprio in questa
stagione, in questo palazzetto c’era un’assemblea simile a questa,
era intitolata però ‘Processo alla Fiat’, il processo alla
direzione che aveva sospeso novanta operai. Era l’autunno caldo”, ricordò,
e proseguì: “tra i 61 licenziati
molti rappresentano anche personalmente, fisicamente, la continuità con
quell’autunno caldo, hanno più di dieci anni di anzianità Fiat, altri sono
entrati invece negli ultimi due anni […]. Crede davvero la Fiat di aver
colpito il terrorismo? – si chiese avviandosi alla conclusione – No, non
lo crede, non ci pensa neppure. Sa però che la posta in gioco sono gli anni
’80, in fabbrica, a Torino, in Italia”[7].
Il parallelismo tra l’autunno caldo del 1969 e, dieci anni dopo,
“l’autunno freddo” dei 61 licenziati, del terrorismo, della crisi, del
compromesso storico, dell’EUR era facile e utile da farsi, anche per
segnalare la nuova composizione di classe. I giovani che erano entrati alla
Fiat in quegli anni, con la riapertura delle assunzioni, – scrisse Pino
Ferraris sul «Manifesto» del 16 novembre 1979 – “esprimevano
soggettività, culture, bisogni, comportamenti che si erano strutturati
nella lunga adolescenza e giovinezza “irregolari” dentro le scuole di
massa e nelle periferie urbane, tra gli stimoli dei mass media e il nomadismo
delle esperienze e che non conoscevano quasi altra trama di socializzazione
che non sia quella degli affetti e della vita emotiva dentro la nuova famiglia
estesa, i piccoli gruppi, le amicizie. Irrompe l’irregolarità del bisogno
di vita”. La grande fabbrica diventava un laboratorio di conflitti e di
mediazioni “tra generazioni operaie, tra uomo e donna, tra cultura del
lavoro e cultura dei bisogni”. Erano quelli che Adalberto Minucci, della
segreteria del PCI, con un’espressione infelice, ma destinata a diventare
categoria storica e sociologica, definì “il fondo del barile” in
un’intervista rilasciata a Lietta Tornabuoni a «La Stampa» del 13 ottobre
1979 nella quale diceva: “dal 1973 la Fiat non sostituiva più gli operai
che andavano in pensione o si licenziavano. Negli ultimi due anni il turnover
è stato riaperto e mi risulta che a Mirafiori siano entrati negli ultimi
dodici mesi 12 mila nuovi assunti. Questo ha riportato la fabbrica ad una
realtà magmatica, un porto di mare con gente che entra senza avere
dimestichezza né a volte attitudine al lavoro e presto se ne va perché non
regge. Credo che in quest’ultima ondata a Mirafiori sia entrato un po’ di
tutto, dallo studente al disadattato, s’è proprio raschiato il fondo del
barile”. Un giudizio netto, intransigente che non lasciava molti spazi
d’interpretazione e che, certo, coglieva un aspetto importante della
questione: il mutamento della composizione della forza lavoro alla Fiat e
della sua coscienza di classe, come si diceva allora. Che qualcosa nella
coscienza dei lavoratori fosse cambiato lo avevano già intravisto due
ricercatori e militanti torinesi, Brunello Mantelli e Marco Revelli, che
avevano intervistato centinaia di operai nel corso dei 55 giorni del rapimento
di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse nel 1978. Successivamente, sulla
composizione della classe operaia Fiat e sugli atteggiamenti verso il lavoro e
l’azienda, era stata pubblicata un’inchiesta dal titolo Coscienza
operaia oggi. I nuovi comportamenti operai in una ricerca gestita dai
lavoratori e, nello specifico, sulle caratteristiche dei nuovi assunti, la
ricerca di Silvia Belforte, Il fondo
del barile: riorganizzazione del ciclo produttivo e composizione operaia alla
Fiat dopo le nuove assunzioni[8].
Anche il PCI, nel 1979, aveva preso l’iniziativa di un sondaggio di massa
tra i dipendenti del gruppo i cui risultati furono pubblicati
l’anno dopo[9].
Da quel sondaggio emergevano dati importanti, ne segnaliamo due che riguardano
il tema che trattiamo. Alla domanda: “perché la Fiat ha licenziato i
61?”, il 28,9% rispondeva “per liberarsi dei violenti”, il 22,8% “non
sono affari miei”, il 20,9% “per sfidare il sindacato”, il 12,6% “per
colpire i più combattivi”. Alla domanda: “che cosa pensi della
collaborazione tra lavoratori e padroni?”, la distribuzione delle risposte
era la seguente: “è necessaria perché va a vantaggio di tutti” (44,4%),
“è possibile ma va contrattata” (29,4%), mentre il rimanente 29,4%
respingeva ogni forma di collaborazione.
Soprattutto i dati relativi alle risposte alla seconda domanda, con
quel 44,4% che propendeva per la collaborazione con l’azienda furono presi
ad esempio per cominciare a dire che l’intera strategia sindacale andava
rivista, corretta, reimpostata. I 61 licenziati fecero divampare la
discussione, il tema sindacato o sindacato dei consigli si ripresentò tale e
quale, ma con maggiore intensità e drammaticità nel corso della lotta dei
trentacinque giorno del 1980. La sconfitta subita dai lavoratori con la firma
dell’accordo, dopo la fatidica “marcia dei quarantamila”, rappresentò,
per dirla con Piero Fassino la fine di “un’epoca della storia del
sindacato”, quello conflittuale e antagonista degli anni settanta. L’anima
antagonista andava sostituita, dice il segretario dei DS, con quella
contrattualista, questo esigeva una revisione profonda degli obiettivi, alcuni
andavano abbandonati, altri introdotti: “competitività, produttività”,
“adeguamento di diritti e condizioni di lavoro all’evoluzione della
struttura produttiva e dei mercati”, “part-time, mobilità interna e
esterna”. Superato ancora il difficile scoglio rappresentato dallo scontro
sulla scala mobile del 1984, per fortuna, nel 1993, – conclude Fassino –
finalmente il travaglio sindacale, apertosi sulla fine degli anni Settanta,
giungeva positivamente a termine con la concertazione e l’accordo del 23
luglio 1993[10].
Simili affermazioni ci fanno ulteriormente capire che l’argomento
sollevato dal libro di Baral è “storico” nel senso pieno del termine,
rappresenta uno snodo di una vicenda ricca e intensa del movimento operaio
italiano che si è conclusa. Oggi gli interlocutori del segretario del maggior
partito della sinistra non sono i Baral e questi “tipi umani” non
affollavano certo la sala dell’Auditorium del Lingotto di Torino la sera del
7 ottobre 2003 per la presentazione del libro di memorie di Piero Fassino. Al
suo fianco c’era l’attuale presidente della Fiat Umberto Agnelli e in
platea tanti uomini politici, sindacalisti, amministratori locali. Il presente
ha dato ragione (ma a quale prezzo?) a Piero Fassino e torto ai Baral, questo
almeno ci consiglia di credere il senso comune, l’apparenza. Un merito
grande, filosofico, critico hanno però le vicende raccontate da Baral e le
testimonianze di altri protagonisti da lui raccolte e assemblate nel libro,
quello di ricordarci, per dirla con Max Horkheimer, che “la denuncia di ciò
che al presente viene chiamato ragione è il più grande servizio che la
ragione possa prestare”. Diego
Giachetti [1] Franco Calamida, La borghesia fa cadere grosse pietre sui piedi della sinistra, «Quotidiano dei lavoratori», settimanale, n. o, 23 dicembre 1979. [2]Giorgio Amendola, Interrogativi sul “caso” Fiat, «Rinascita», 9 novembre 1979 [3] Gabriele Polo, Claudio Sabattini, Restaurazione italiana, Roma, Manifestolibri, 2000, p. 34. [4] “La FLM e il sindacato torinese si mostrano renitenti”, scrive a proposito Lorenzo Gianotti in Gli operai della Fiat hanno cento anni, Roma, Editori Riuniti, 1999, p. 238. [5] Vedi Raffaele Renzacci, in Cento… e uno anni di Fiat, a cura di Antonio Moscato, Bolsena (VT), Massari Editore, 2000, p. 85, e Gabriele Polo, Claudio Sabattini, Restaurazione italiana, Roma, Manifestolibri, 2000, p.34 [6]Cfr. nell’ordine Pansa-Romiti, Questi anni alla Fiat, Milano, Rizzoli, 1988, p. 56; Lorenzo Gianotti, Gli operai della Fiat hanno cento anni, cit., p. 236; la testimonianza dei due operai Fiat è stata resa a Raffaele Renzacci che l’ha riportata nel libro Cento… e uno anni di Fiat, cit., p. 83. [7] L’intervento fu pubblicato sul «Manifesto» del 17 ottobre 1979. [8] Cfr.: Operai senza politica, a cura di Brunello Mantelli e Marco Revelli, Roma, Savelli, 1979, Coscienza operaia oggi. I nuovi comportamenti operai in una ricerca gestita dai lavoratori, a cura di Giulio Girardi, Bari, De Donato, 1980, Silvia Belforte, Il fondo del barile: riorganizzazione del ciclo produttivo e composizione operaia alla Fiat dopo le nuove assunzioni, Milano, La salamandra, 1980. [9] Cfr. Aris Accornero; Alberto Baldissera, Sergio Scamuzzi, Ricerca di massa sulla condizione operaia alla Fiat: i primi risultati, «Bollettino Cespe», Roma, 2 febbraio 1980. Vedi anche l’articolo pubblicato in seguito di A. Accornero, F. Carmignani, N. Magna, I tre “tipi” di operai della Fiat, «Politica ed economia», n. 5, maggio 1985 con la quale si classificano tre tipologie di comportamento operaio: conflittuale (chi riconosce l’esistenza e l’inevitabilità del conflitto tra azienda e lavoratori ma ritiene si debba cercare una mediazione attraverso la contrattazione), antagonista (chi è per la lotta intransigente e dura, senza mediazioni e accordi), collaborativo (chi è per la collaborazione con l’azienda). I dati ripetevano il peso statistico del sondaggio riportato nel testo. [10] Piero Fassino, Per passione, Milano, Rizzoli, 2003, pp. 129-134.
Una premessa Intrigato dalla scelta padronale di espellere "61" cattivi, ho cercato - per un certo periodo di ripiegamento nellirrazionale seguito al licenziamento - vari riferimenti storici o casuali. Il più interessante è nella tavola di Mendelejeff nel vecchio libro di chimica. Lelemento con numero atomico 61 è il Promezio (Pm) della serie dei Lantanidi, definiti "sconosciuti" e "radioattivi". Promezio deriva il suo nome da Prometeo. Nella mitologia greca punito dagli dei perchè rubò il fuoco per restituirlo agli uomini. Non cera Prometeo fra i 61, semmai esemplari variegati di operaie e operai che non potevano più essere tollerati nella nuova organizzazione che si era data la la Fiat. Come negli anni 50 si partiva dagli "estremisti" per arrivare poi ai grandi numeri. Giorgio Bocca su Repubblica rispondeva a una lettera di un licenziato, uscita su Lotta Continua, - che invitava la Fiat a prendersi la responsabilità dei 15000 e più morti annui sulle strade e criticava le logiche industriali- dicendo che questi apparteneva alla "generazione che è cresciuta nel mito idealista e parafascista che limmaginazione supera la realtà"... Il testo che segue ricostruisce questa vicenda e risale a metà degli anni ottanta, con alcuni ritocchi posteriori. (p.b.) ****** autunno 1979: i fatti
Si era a sei anni di distanza dalla crisi del petrolio del 73 che aveva avviato una decisa fase di ristrutturazione mondiale. La lotta per il contratto nazionale dei metalmeccanici del 1979 era stata particolarmente accesa, a Torino si era ricorso a blocchi stradali e forme di lotta urbana che avevano accentuato il carattere di ingovernabilità apparente del proletariato di fabbrica. Tutto ciò in presenza di una piattaforma poco convincente, infatti qualcuno dichiarava di forzare le lotte per chiudere presto e pagare poco il contratto... Da parte della Fiat era in corso di avanzata realizzazione lintroduzione negli stabilimenti di tecnologie che davano vincente il padrone sul breve e "lungo" periodo... coi suoi operai, non certo con la crisi di sovrapproduzione su scala mondiale. La sinistra di fabbrica legge questa fase in modo frammentato: chi continua a sottolineare la crisi di direzione aziendale e appoggia criticamente la ristrutturazione (Fiom); chi rivendica aumenti salariali e migliori condizioni di lavoro; chi sbandiera i robot come larma definitiva del padrone e propone lotte altrettanto radicali (lautonomia); chi, marginale, dichiara in modo dimesso di trovare difficoltà a produrre merci inutili e dannose e confluisce nella pratica della autoriduzione della produzione. Queste diverse linee raccolgono poi motivazioni le più varie del resto degli operai. Tutto questo nella stagione in cui BR & C. con le raffiche delle mitragliette uccidono o feriscono personaggi scelti secondo un loro criterio come importanti per destabilizzare il potere; in realtà riescono a far ricompattare a destra tutto il possibile. Lo spazio politico si restringe ed è facile essere accusati di fiancheggiamento: basta dissentire dalla linea dominante nel sindacato e nella sinistra. In questa situazione la scia sanguinosa incide particolarmente alla Fiat che ha una cinquantina di quadri e dirigenti presi nel mirino. La Fiat, nella lentezza di risultati della magistratura . in quel periodo - decide di fare un colpo di mano direttamente sugli operai, una rappresaglia concordata dai vertici e di cui viene dato preavviso al sindacato (vedi intervista di Pansa a Romiti -1989). A ottobre sessantun nomi vengono messi sul tappeto, sotto laccusa generica di non prestarsi diligentemente alla politica produttiva aziendale. In realtà i giornali sparano titoli di fuoco sul terrorismo in fabbrica, riportano interviste ai capi; lo stesso sindacato torinese esce con un volantino che condanna il terrorismo e poi sotto sotto cerca di mettere le mani avanti per salvare qualcosa. I 61 da parte loro sentono puzza di bruciato in tutte le direzioni e cercano inizialmente di conoscersi tra loro; escono poi vari volantini di controinformazione e si susseguono assemblee in varie sedi della sinistra e della FLM. Si fa largo una opinione di sinistra che chiede le prove, condizionando ad una verifica di merito il giudizio di solidarietà coi 61. A questo punto si precisa una spaccatura fra chi accetta di firmare una dichiarazione contro la violenza ( richiesta dal sindacato per impugnare i licenziamenti in base allart.28 dello Statuto dei lavoratori) ed una decina di dissidenti che formeranno un collegio alternativo di difesa. Il pretore del lavoro convalida la richiesta sindacale e obbliga la Fiat a riassumere i licenziati senza motivo... La Fiat si adegua, ritira i licenziamenti e immediatamente li riconferma motivandoli questa volta in modo approfondito ed individuale. Intanto scioperi, collette, manifestazioni di solidarietà, con esito vario ed adesioni limitate, non permettono comunque di invertire la tendenza alla frammentazione. Dopo unulteriore causa di alcune decine per diffamazione ( si era parlato di terrorismo) che viene concordata e dà un indennizzo di due milioni, ci saranno solo più cause individuali. La maggior parte concorderà varie decine di milioni di risarcimento, pochissimi vincono ma non rientrano in Fiat, altri nemmeno ricorrono ( come nel mio caso). alcune riflessioni * Fatto interessante è intanto larresto delle azioni armate contro la Fiat entro lanno 1979, segno, comunque, di un cambiamento di strategia e sintomo della crisi incalzante della lotta armata. Se esisteva una volontà di questa di sbloccare verso destra la situazione politica nel paese ( in modo da chiarire al proletariato limpraticabilità della via legale ad una modifica del sistema) il risultato era ancora lontano dallessere raggiunto. Il padrone in fabbrica comunque utilizza tutto nel suo interesse. Infatti lazione della Fiat prosegue minacciando lanno successivo 14.000 licenziamenti. 35 giorni di blocco dei cancelli ottengono un mediocre risultato di compromesso: 24.000 in cassa integrazione (gli ultimi superstiti rientreranno nell87). Qualcuno aggiunge che quella lotta non poteva servire perché gestita da un sindacato saldamente controllato dai padroni - e almeno nella meccanica della votazione finale è dimostrabile la volontà dei vertici di chiudere comunque. Quella che viene definita la tappa decisiva nella grande fabbrica della "sconfitta operaia" era stata sancita a livello di massa con il referendum della marcia dei 20.000 capi, quadri, impiegati... (definiti i 40mila). * Chi mette in evidenza questo passaggio sovente non ammette quanto a lungo fosse stato preparato nellopinione pubblica, nei quadri e con adeguati investimenti che cambiavano progressivamente faccia allofficina. Questi cambiamenti erano stati sovente sollecitati dalla sinistra riformista che aspettava di poter accedere al comando tecnico della fabbrica, dopo aver ricevuto la delega nelle amministrazioni locali. * Il nuovo operaio che sarebbe venuto fuori dalla ristrutturazione, sedato, ricattato e in parte rimotivato coi circoli di qualità e nuove mansioni, stava meglio dentro la visione parziale del sindacato che da anni si batteva sul recupero e la valorizzazione della professionalità. * Intanto ora per i frammenti delloperaio massa cerano gli abissi della cassa integrazione. Qui sindacato e sinistra hanno di nuovo marcato il passo non riuscendo a contrattare ed imporre nemmeno nella pubblica opinione una versione diversa da quella dellassistenza. Centinaia di migliaia i cassaintegrati, delle più varie aziende sono stati abbandonati alle sorti più strane e drammatiche. Una propria autonomia di iniziativa sulloccupazione sinistra e sindacato non riuscivano ad averla. * Altra battaglia persa per strada fu quella sul collocamento: dopo le assunzioni degli ultimi anni Settanta che avevano portato in fabbrica strati giovanili non selezionati come nel passato, si fece come rappresaglia il blocco delle assunzioni. Revocato, fu poi trasformato nel ripristino legale delle assunzioni nominative ( utilizzando il seguito il contratto formazione lavoro e simili). Nel 79 un dirigente torinese del PCI parlò di raschiatura del fondo del barile, come se il lavoro nella grande fabbrica non fosse nemmeno più per la sinistra un diritto bensì un premio da dare ai migliori. In questo modo il barile della forza lavoro era meglio fosse tenuto sempre mezzo pieno di disoccupati. * La preoccupazione sul carattere più o meno dannoso e sullo spreco legato al modo di produzione capitalista ( prima che dei verdi argomento storico comunista) non ha fatto molta strada fra i produttori, al massimo era opera di qualche osservatore esterno. Tocca infatti ai verdi nel 90 infastidire gli azionisti... Intanto si parla di qualità totale... per rendere più micidiale e redditizia la merce Fiat. Produrre e consumare auto, nel nostro caso, è ancora un affare e una moda (imposta), anche per loperaio medio che paga una tangente del 20% del salario allindustria automobilistica/petrolifera che gli fornisce quella che più che un mezzo di trasporto individuale si rivela unarma più potente della droga. vedi morti suklle strade Da quando la CGIL appoggiò il piano per lautomobile popolare - anni 50- la Fiat è diventata multinazionale e il sindacato ... è sceso al 20% nelle adesioni operaie. E non si parli di politica energetica e prezzi del petrolio che nel polverone la linea vincente è sempre quella di pagare poco le materie prime e fregarsene dei consumi energetici (e delle guerre del petrolio). per concludere = Nella luce di questi problemi molti comportamenti operai ribelli possono essere ridimensionati (e a maggior ragione tanti comportamenti rivoluzionari che giustificavano espropri sulla base di bisogni crescenti, scaricando su terzi il compito di produrre e subire il torchio padronale).Tante cose han pesato nellaccelerare i tempi della ristrutturazione , oltre la lotta interna agli stabilimenti, la svolta della crisi del 73, le innovazioni tecnologiche della concorrenza estera, lattività prolungata della lotta armata e le nuove ideologie produttive (poi sarebbero arrivata la saturazione dei mercati e nuove strategie aziendali su scala mondiale). = Gli operai della grande fabbrica, che pur si continuava a dire fossero alla guida del proletariato italiano, avevano comunque molti retaggi, illusioni e ritardi che li frenavano. Nel monte merci illusoriamente aumentato - mentre i salari stagnavano -e nella insufficiente alleanza coi lavoratori della piccola industria e con i disoccupati in continua crescita ( per guardare a una parte di chi sta peggio) ci sono pezzi della catena materiale che li (ci) lega alla borghesia. La catena ideologica era ed è ancor più forte per i tanti vicoli ciechi in cui la carente - o complice, dice qualcuno - politica della sinistra ha condotto e abbandonato tante volte la classe operaia. Piero Baral ------------------------------- ALCUNI COMMENTI su giornali e libri 1. " (...)A fianco di una linea restauratrice avanza un preciso attacco alle forme di lotta praticate in questi anni. La svolta del padronato è netta: si intende recuperare attraverso lincremento della produttività (straordinari, turni, organici, tempo di pausa, saturazioni, tempo risparmiato autonomamente). Tutto ciò risulta più chiaro quando la Fiat comunica ai giornalisti (e non già alle organizzazioni sindacali) la chiusura delle assunzioni dimostrando con quali intenzioni intende applicare la prima parte del contratto. Con questa grave decisione la Fiat non solo ricatta gli occupati, ma attacca lattuale legislazione sul collocamento, accusando che questo non seleziona tra i disoccupati quelli ritenuti politicamente e socialmente pericolosi.(...)" DallIntroduzione di Adriano Serafino allassemblea al Palasport Segretario CISL) in Sindacato Unitario FLM, 22 ottobre 1979 2. "Colpirne 61 per educare chi?" -"Cronache di un attacco alla continuità delle lotte degli anni 70 e dei nuovi assunti. In nome della diligenza, correttezza, buona fede, civile convivenza la Fiat licenzia. In tutto questo il terrorismo non centra, è un attacco alle forme di lotta. al sindacato. ad ogni forma di controllo operaio. Produttività e disciplina sono le parole dordine di Agnelli preoccupato di fronteggiare lidea che si lavora per vivere portata dentro la Fiat dai nuovi assunti. Quelli stessi che il Pci chiama disadattati.(...)" Prima pagina del settimanale "Quotidiano dei lavoratori" n° 0 - 23 ottobre 1979 3. "(...) I più sono preoccupati per nostra sorte e per il clima di repressione che si sta instaurando dentro la fabbrica. La paura cè ed è diffusa, diffusissima è anche la situazione di impotenza dal momento che ogni singolo operaio si sente solo contro il padrone, solo contro la mostruosa macchina repressiva, messa in moto dal padrone attraverso la stampa, la televisione, la gerarchia di fabbrica, a cui non fa più da contraltare altro tipo di informazione, di propaganda, di iniziativa. Si aspetta il processo, si aspetta la sentenza, mentre la gente che ha praticato la lotta su cui la magistratura dovrebbe pronunciarsi viene fatta estraniare, viene espropriata di dieci anni di storia, della sua storia. (...)" Licio Rossi, uno dei 61, durante il digiuno in un furgone a Rivalta davanti alla porta 12, scrive al quotidiano Lotta Continua, 6 novembre 1979 4. "(...) In realtà la Fiat sa benissimo che questa manovra non servirà a colpire il terrorismo. Al contrario, caso mai, è un invito a nozze rivolto a BR e soci concorrenti per inaugurare una nuova campagna di fuoco e di sangue. Un invito al crimine che regala alle formazioni armate una patente di giustizieri e difensori del proletariato che nessuno gli aveva rilasciato. Un incentivo al reclutamento e allespansione dellarea della clandestinità e della lotta armata. Da sempre la Fiat ha fondato il suo potere e i suoi profitti sulla pelle di operai morti ammazzati dalla fatalità del lavoro salariato: morti mai degne di conquistare le prime pagine dei giornali. Oggi è chiaro come il sole: sulla vita e sul sangue di capi e dirigenti assassinati dal Piombo BR la Fiat vuole spregiudicatamente speculare per imporre di brutto il ritorno ai più tranquilli tempi di Valletta. Se ne rendono conto i capi che vanno a la Stampa a fare dichiarazioni come questa? Cerchiamo di fare il nostro dovere; siamo lavoratori come tutti gli altri- 13 ottobre 1979 In compenso i 61 licenziati si trovano indicati come i rappresentanti semiclandestini del terrorismo in fabbrica. Colpendo i 61 la Fiat non vuol liberarsi degli "ultimi comunisti" rimasti, ma vuol dare una lezione a tutti gli altri. Vuole liquidare i poteri del movimento sindacale. Con la repressione in doppiopetto vuole sopprimere poco per volta il diritto alla lotta e allopposizione operaia nei reparti. Vuole distruggere quanto resta di un sindacato dei consigli già guastato da anni di politica dellausterità e dei sacrifici a senso unico; impegnato più che a organizzare le lotte e i bisogni della gente a seminare sfiducia nelle proprie forze e a convincere i lavoratori a trangugiare la minestra che passa il convento". (...)dallopuscolo "il fondo del barile" del Collettivo di informazione Indesit e Fiat-Rivalta /Lasinistra." 1979 5. I licenziati degli anni 50 prendono le distanze dai 61: "(...) La vicenda dei 61 licenziamenti alla Fiat, con la motivazione che li definisce fomentatori delle violenze subite dai capi in fabbrica e "picchiatori", non può non suscitare risonanze in questi anziani militanti: tutta la loro storia è in gioco. Quando si condanna il terrorismo non si condanna il patrimonio di lotta della classe operaia, perchè la classe operaia torinese ha conosciuto sempre il terrorismo padronale, manifestatosi con particolare virulenza negli anni 50 contro i lavoratori, gli aderenti alla Cgil e al Pci fino al licenziamento per rappresaglia. Il nostro patrimonio di lotta è nella storia del movimento operaio, ma esso non è mai stato, in questi anni durissimi, terroristico. Di lotte durissime e anche accese, sì! Ma non un bullone né altra arma impropria o propria è mai apparsa nelle nostre mani" E più avanti si ribadisce: "Non abbiamo mai sparato a un capo, o picchiato" E ancora : "e quando il padronato e il governo ci attaccarono con la politica della riconversione industriale attuando licenziamenti in massa noi rispondemmo con la lotta ma anche con le conferenze di produzione ..." Tanto "la Stampa" che "lUnità" danno grande rilievo a questa "lettera aperta" di una ventina di licenziati per rappresaglia degli anni 50, di tre pagine fitte di memoria ed analisi. (...) - novembre 1979 - pg.6 di Uomini fabbrica e potere di Adriano Bellone, Storia dellAssociazione nazionale perseguitati e licenziati per rappresaglia politica e sindacale. -1987
6. "(...) Chi sono questi sessantuno? In maggioranza operai che hanno fatto parte di gruppi dellestrema sinistra, Potere Operaio o Lotta Continua, leader delle lotte degli anni70, qualcuno già entrato nel terrorismo, altri ai suoi margini. Per la sinistra estrema del Movimento i sessantuno non sono dei terroristi né suoi complici: sono dei coraggiosi militanti comunisti che rifiutano il lavoro capitalistico. Per il sindacato sono i grandi rompiscatole e provocatori che da anni mettono il bastone tra le ruote in fabbrica e fuori. Il sindacato li ha denunciati segretamente, ma non può accogliere con approvazione esplicita il loro licenziamento. Chi la fa laspetti, è il caso di dire. La Fiat ha preso il sindacato in contropiede: se lascia passare i licenziamenti perde credibilità, se difende i licenziati si contraddice, ammette che hanno in parte ragione. Per la direzione Fiat quei sessantuno sono soprattutto un segnale di svolta: la grande ristrutturazione della fabbrica è in notevole parte compiuta. Se si continua con una produttività bassissima lavvenire dellazienda è compromesso; bisogna cambiare registro, tornare alla disciplina delletà vallettiana, togliere al sindacato gli spazi troppo grandi che si è conquistato e schiacciare la contestazione violenta. (...)" Giorgio Bocca ,pg 209, "Gli anni del terrorismo" capitolo Terrorismo e fabbriche -1988 7. "(...)La Fiat , la più grande azienda privata italiana, rischiava desser condotta al disastro, nonostante tutti i nostri sforzi per razionalizzarla, per ammodernarla, per tagliare i rami deboli. Sforzi inutili, se prima non si metteva un alt alla disgregazione interna e non si affrontava il problema della scarsa produttività e dellenorme peso della manodopera. (...) "Ma poteva mollare anche la linea più alta, non soltanto quella dei capisquadra o dei capiofficina. E sa perché non ha mollato? Perché dopo lomicidio di Ghiglieno abbiamo preso quel provvedimento che sera già stabilito di prendere.(...) Allinizio , avevamo individuato circa duecento violenti da allontanare (...) Alla fine risultarono sessantuno, ma potevano anche essere sessanta o settanta. (...) La prova che avevamo colpito giusto e che gli operai erano stanchi di questo clima in fabbrica, la si ebbe subito: lo sciopero indetto dalla FLM per protestare contro i licenziamenti fu un fallimento. (...) Di lì a poco prese il via una serie di provvedimenti poco conosciuti: il licenziamento sistematico di centinaia e centinai di assenteisti. Parlo di licenziamenti individuali, a norma di contratto. Questoperazione durò mesi, sino allautunno dell80, al momento della grande crisi.(...) Cera chi sosteneva di abbassare il tiro. Io sostenevo: no, bisogna andare avanti, siamo appena agli inizi, bisogna arrivare a qualche decisione sui grandi numeri, altrimenti lazienda non ce la farà a tirarsi su dal pozzo." Cosi Cesare Romiti nel libro intervista di Giampaolo Pansa Questi anni alla Fiat- 1989 Così Marco Revelli in LAVORARE IN FIAT-1990 <<Tra il 1975 e il 1980 sono 16 i dipendenti Fiat feriti in azioni terroristiche rivendicate, per la maggior parte (14), dalle Brigate Rosse: 5 dirigenti, 3 funzionari, 6 capi-reparto, 2 sorveglianti, 1 medico di fabbrica. Un'azione dotata di una relativa continuità, che culmina, in crescendo, nel settembre del 1979, con l'uccisione di Carlo Ghiglieno da parte di un gruppo di fuoco di Prima linea. E che se determina, certo, uno sbandamento nel quadro di comando aziendale, finisce, con uno straordinario effetto boomerang, per accrescere oltre misura il disorientamento operaio, accelerando i processi - già in corso - di disgregazione e di privatizzazione. Non furono molti gli operai Fiat a compiere la scelta della lotta armata: 62 in tutto ne segnala il Ministero dell'Interno, di cui 2 membri della direzione strategica - entrambi delegati sindacali - e molti militanti con ruoli minori, concentrati con maggior intensità alle Presse di Mirafiori. Ma l'effetto sulla comunità di fabbrica fu devastante, paragonabile a quello dell' "avvelenamento dei pozzi" nelle comunità rurali. I delicati canali della comunicazione informale e della fiducia, costruiti pazientemente in anni di conflitto, furono d'improvviso disseccati. Il meccanismo della diffidenza e della paura ritornò a isolare e dividere. Il mito della piena trasparenza dei rapporti interpersonali - l'idea antica che in fabbrica si conoscono gli uomini nella loro piena autenticità - fu infranto. L'ombra della clandestinità di alcuni finì per rendere ognuno clandestino a ogni altro; per inibire la comunicazione e la solidarietà con chi non si sapeva più quale identità celasse. Divenne impossibile denunciare pubblicamente un capo, quando si rischiava che questo pochi giorni dopo venisse "gambizzato". Divenne difficile continuare a usare lo stesso linguaggio del conflitto, il lessico che per quasi un decennio aveva strutturato un modo d'essere e di comunicare collettivo, una volta fatto proprio dai messaggi di morte dell'area armata. Gli spari delle BR non ruppero il silenzio operaio. Contribuirono a renderlo più avaro, e pesante.>>
vedi anche: Bianca Guidetti Serra "Le schedature Fiat " , Rosemberg & Sellier, 1984 Giorgio Ghezzi "Processo al sindacato", De Donato, 1981 "Quale giustizia " n°51, 1979 "Laltra faccia della Fiat", Coordinamento cassintegrati, Erre Emme, 1990 Fiat : i 35 giorni che sconvolsero il futuro l ventennale della marcia dei"40mila"
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