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http://www.radioradicale.it/scheda/32064/32094-il-gatto-droga-proibizionismo-e-antiproibizionismo
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Elvio Fachinelli (Luserna,
29 dicembre 1928 – Milano, 21 dicembre 1989) è stato uno
psicologo e psicoanalista italiano.
Laureatosi in medicina a Pavia nel 1952,dove fu alunno del
Collegio Cairoli, si specializzò in neuropsichiatria a Milano nel
1961 con una tesi sul test di Rorschach nei pazienti fobici ed
ossessivi. Entrato a far parte della Società Psicoanalitica
Italiana nel 1966, dopo un training analitico con Cesare Musatti,
collaborò per oltre vent'anni con importanti riviste del settore
come "Il corpo", "I Quaderni piacentini",
"Quindici".
Forse il suo più importante contributo alla psicologia, in
particolare infantile, è stata la promozione della cosiddetta
pedagogia non autoritaria, estrinsecatasi anche con la creazione
di progetti pratici, come un asilo autogestito nella zona di Porta
Ticinese a Milano.
Tra i promotori di un convegno sulle esperienze non autoritarie
nella scuola, da questo trasse lo spunto per la fondazione,
assieme a Lea Melandri, della rivista "L'erba voglio"
(1971-1977).
Nella sua carriera ha inoltre collaborato alla divulgazione
dell'opera di Sigmund Freud, curando la traduzione di alcune delle
sue opere più importanti.
Luserna, sua città natale, gli ha intitolato la biblioteca
locale.
Si prevede l'uscita del compendio delle sue opere nel Settembre
2008, la cui cura è stata affidata a Lea Melandri ed alla figlia
Giuditta Fachinelli.
Opere principali
Intorno al '68: un'antologia di testi, a cura di Marco Conci e
Francesco Marchioro, Bolsena: Massari, 1998
Frutti della claustrofilia: catalogo del fondo Elvio Fachinelli
della Biblioteca comunale di Luserna, Trento: Provincia autonoma
di Trento, 1996 (pubblicato in occasione del convegno
"L'inquietante sapere", tenuto a Luserna nei giorni 14 e
15 dicembre 1996)
La freccia ferma: tre tentativi di annullare il tempo, Milano:
Adelphi, 1992 (ristampa, già Milano: L'erba voglio, 1979). ISBN
8845908747
La mente estatica, Milano: Adelphi, 1989. ISBN 8845906787
Claustrofilia: saggio sull'orologio telepatico in psicanalisi,
Milano: Adelphi, 1983. ISBN 8845905268
Uma tentativa de amor: Portogallo, estate 1975, Roma: Cooperativa
scrittori, 1976
Il bambino dalle uova d'oro, Milano: Feltrinelli, 1974. ISBN
8807102706
L'Erba voglio: pratica non autoritaria nella scuola, a cura di
Elvio Fachinelli, Luisa Muraro Vaiani e Giuseppe Sartori, Torino:
Einaudi, 1971
Prefazione a Paul Leautaud, Settore privato: diario personale,
Milano: Feltrinelli, 1968
Prefazione a Edward Glover, Freud o Jung?, Milano: Sugarco, 1967
Nuovo significato del disegno e recupero magico del passato
nell'opera di un'artista psicotica, in Archivio di psicologia,
neurologia e psichiatria, n. 25, fascicolo 1, Milano: Vita e
pensiero, 1964, pp. 27-50
Traduzioni
Sigmund Freud, L'interpretazione dei sogni (con Herma Trettl),
Torino: Bollati Boringhieri, 1973. ISBN 8833900274
Sigmund Freud, Sogni e interpretazioni (con Herma Trettl e Maria
Anna Massimello), Torino: Bollati Boringhieri, 1997
Ernst Kris, Ricerche psicoanalitiche sull'arte, Torino: Einaudi,
1977. ISBN 8806113984 |
Liberazione
- inserto Anni '70: 1971 - 18 febbraio 2007
L'Erba
voglio
Lea Melandri
Il libro
L'erba voglio (a cura di Elvio Fachinelli, Luisa Muraro Vaiani,
Giuseppe Sartori) esce nei primi mesi del 1971 presso l'editore Einaudi.
Raccoglie relazioni e contributi di due convegni che si erano tenuti a
Milano in giugno e settembre 1970. Intervengono i promotori dell'asilo
autogestito di Porta Ticinese, maestre d'asilo, insegnati di scuole
elementari e medie, ma anche studenti, operai, psicologi, genitori. I
testi che figurano nel libro sono il documento delle loro esperienze di
"pratica non autoritaria nella scuola", come si legge nel
sottotitolo: difficoltà, perplessità personali, ostacoli, sforzo di
elaborazione politica, accompagnati spesso da "singolare allegria e
ironia". L'intento, come scrivono i curatori nella quarta di
copertina, non è di "escogitare nuove pedagogie o nuove
didattiche", ma "di stabilire rapporti liberanti, senza riguardo
per le funzioni e le competenze precostituite, di far uscire la scuola dai
suoi recinti e cancelli, di sottrarla ai suoi tutori, per farla con
altri". La sintesi più efficace è nella domanda che un alunno della
scuola media di Melegnano rivolge ai suoi compagni: "Vale di più un
ragazzo vivo o un ragazzo scolastico?"
La pubblicazione incontra un successo sorprendente: cinque edizioni in
pochi mesi, trentamila copie vendute, discussioni che sorgono un po'
dappertutto. Nel libro era stata inserita una cartolina che invitava, chi
fosse stato interessato alle tematiche in esso contenute, a rinviarla ai
curatori. Ne arrivano tremila. Per rispondere a una richiesta così
evidente di collaborazione, nasce nello stesso anno la rivista bimestrale
"L'erba voglio", di cui usciranno, tra il 1971 e il 1977,
vent'otto numeri.
A partire dal 1976, si affiancherà alla rivista una collana di libri, che
ne ampliano i temi e ne segnano la continuità, per "il gusto della
franchezza, della ricerca autonoma, dell'imprevisto", "del
sotterraneo e del rimosso". Alcuni titoli tra altri: Collettivo
A/Traverso, Alice è il diavolo, il testo di Radio Alice a Bologna
e dei "giovani del '77"; Lea Melandri, L'infamia originaria.
Facciamola finita col Cuore e la Politica; Enrico Palandri, Boccalone;
Elvio Fachinelli, La freccia ferma.Tre tentativi di annullare il tempo.
L'antecedente del convegno del 1970 è l'apertura, il 12 gennaio dello
stesso anno, dell'asilo autogestito di Porta Ticinese, nato a sua volta
dal controcorso di Pedagogia all'Università Statale di Milano
nell'inverno 1968-1969, a cui viene invitato lo psicanalista Elvio
Fachinelli, in veste di "esperto", o forse meglio, di
"inesperto" di pedagogia. Nel documento degli studenti, in cui
si parla della necessità di un' istituzione modello per l'educazione
collettiva, si respira ancora aria di '68, in polemica con i "falsi
rivoluzionari" che se ne erano rapidamente allontanati, creando coi
loro gruppi-partito "strutture umane paurose di vivere, incapaci di
libertà e avide di protezione, bisognose di capi e di miti". Il fine
dichiarato è di recuperare alla politica -come scrive Giuseppe Leonelli
nella sua relazione- "i rapporti con il corpo, con la dimensione
biologica degli individui", tenendo conto che "l'autoritarismo
comincia nell'infanzia, attraverso la famiglia", da cui escono
"caratteri adattati e sfiduciati". L'allargamento del gruppo a
insegnanti di vari ordini di scuola, a psicologi, genitori, operatori
sociali, che stavano tentando esperienze analoghe dentro l'istituzione,
viene naturale e immediato. Le riunioni, nel semestre che precede il
convegno, si tengono in via Ansperto a Milano. E' lì che avviene anche il
mio incontro con Elvio Fachinelli, Luisa Muraro, Giuseppe Sartori, e altri
che faranno poi parte con noi della redazione della rivista.
Nel libro, sia pure attraverso voci, modi comunicativi diversi e insoliti
-dal racconto di esperienze fatte da singoli insegnanti, a discussioni di
alunni, interviste, circolari e sanzioni disciplinari di Presidi-, il tema
centrale è la scuola, in quanto "luogo separato",
"formalmente senza rapporto con la produzione", ma, di fatto,
strumento che "una minoranza utilizza per rafforzare ed estendere i
suoi privilegi", per istituzionalizzare rapporti di sfruttamento,
gerarchie, ruoli, differenze consacrate dal titolo di studio, per
organizzare il consenso intorno a una interpretazione della realtà
sottratta a ogni verifica. Non diversamente dalla fabbrica e dalla società
in genere, esiste nella scuola "una minoranza (insegnanti, presidi,
burocrazia) che stabilisce il da farsi dal punto di vista della qualità,
quantità, tempo, e la grande massa (studenti) che deve soltanto fare,
come, quanto e nel tempo richiesto", ragione per cui "i
comportamenti favoriti sono, da una parte, il potere accentrato,
dall'altra la subordinazione generalizzata" (Sandro Ricci). La
pratica non autoritaria, a detta dei suoi "pionieristici"
protagonisti, non propone una cultura alternativa, una Nuova scuola,
tanto meno metodologie didattiche democraticiste. Nasce come
"un'azione di tipo negativo": rifiuto di tutte le regole a cui
si conforma la prassi educativa vigente -voti, interrogazioni, note,
bocciature, orari, programmi-, presa di coscienza dei caratteri repressivi
della scuola, dei meccanismi di dipendenza con cui si educano gli studenti
alla passività e alla delega; una pratica, perciò, al medesimo tempo
"distruttiva e liberatrice". "A partire dalla famiglia, ma
anche negli asili nido e nelle scuole materne, chi comanda usa tutti i
sistemi per plasmare individui timorati e ossequienti, rispettosi
dell'autorità e dell'ordine costituito, in modo che accettino il destino
che è stato loro preparato: lavoro e famiglia, evasioni comandate e il
voto ogni cinque anni". (Maestre d'asilo)
Ma l'attacco all'istituzione che prima e più di ogni altra agisce come
"disciplina dei corpi", irregimentazione e addestramento
all'obbedienza, alienazione del sapere dalla vita reale, contenimento
delle capacità creative dell'individuo, non è senza ostacoli e difficoltà,
psicologiche, sociali e politiche. Nel momento in cui si elimina la figura
dell'adulto, investita di autorità e potere, "si vede sorgere -
scrive Fachinelli nelle sue Osservazioni sull'asilo di Porta Ticinese-
una gerarchia di ferro, basata sulla forza e sulla prepotenza, che
impronta di sé i rapporti dei bambini tra loro…sembra di trovarsi in
una società violenta, tra il fascista e il mafioso, in cui il più forte
e più prepotente protegge quelli della sua famiglia". E conclude:
"Qui, la sola politica che abbia un minimo senso liberatorio è una
politica radicale, nel senso marxiano di 'prendere l'uomo alla radice'".
L' "utopia realizzata", e proprio per questo "sommamente
realista", che viene portata avanti nella scuola, guarda
dichiaratamente a traguardi più ampi e più ambiziosi: un cambiamento che
investa la concezione e l'esercizio del potere, la separazione tra
decidere e eseguire, tra la minoranza che controlla la società per i suoi
fini e le masse che ne sono escluse. Non una scuola rinnovata dunque, o
un' "isola felice", ma un processo politico che si prefigge come
sua condizione essenziale l'uscita dalla passività e dalla paura, la
presenza e la partecipazione di coloro che sono esclusi dal potere,
l'abitudine alla pratica assembleare, alla decisone collettiva: esercizio
del potere tra individui uguali e sempre autonomi. Nel libro ci sono già,
evidenti, le premesse per l'estensione della pratica non autoritaria
"ad altre specifiche forme di oppressione".
Mentre il movimento rivoluzionario si andava frantumando in nuclei chiusi
e settari, in tutto simili per struttura gerarchica ai partiti
tradizionali, la rivista "L'erba voglio" comincia le sue
pubblicazioni, a pochi mesi dall'uscita del libro omonimo. A muovere il
gruppo promotore è la stessa "logica del desiderio" e dell'
"accomunamento", capacità di interessare e coinvolgere
"aree sociali diverse", che aveva caratterizzato la dissidenza
giovanile nel '68. Paradossalmente, per me e per molte donne che hanno
dato avvio negli stessi anni ai gruppi femministi, il '68 si può dire che
sia cominciato, e poi protratto lungo il decennio anni '70, a dispetto di
chi vorrebbe seppellirlo dietro l'ondata funesta del terrorismo.
Fin dai primi numeri, note redazionali definiscono quella che resterà nel
tempo la "lezione" dell'Erba voglio: "Autorità e potere
non sono temi in classe. Il rapporto pedagogico non nasce sui banchi e la
parola caserma non si applica soltanto alla scuola. Servitù e
liberazione, oggi, riguardano tutti, o nessuno" (n.1, luglio 1971).
"Noi non pretendiamo di essere il comitato centrale di nessun
partito, e proprio per questo pensiamo di poter svolgere un lavoro
politico serio…Purtroppo questa è stata la via percorsa da decine di 'avanguardie',
che si sono puntualmente ritrovate, alla fine, a dividere lo spazio del
ghetto -il ghetto della sinistra infelice, battuto dal vento della
rivoluzione lontana, e gelato nella propria impotenza."
Il rifiuto di chiudersi in una organizzazione, di sottomettersi a un
linguaggio unico, è alla base del tipo di collegamento che la rivista
stabilisce a partire dai lettori che avevano rispedito la cartolina
inserita nel libro: "Secondo noi si può cominciare da una
ricognizione delle forze disponibili città per città, regione per
regione. I nuclei formati su questa base potrebbero diventare centri di
discussione e di messa in comune delle esperienze…Ovviamente il rapporto
di questi nuclei con quello milanese è di totale parità. Ci sembra però
che in questa prima fase siamo per forza un punto di riferimento, per
coloro che hanno letto il libro: a noi quindi tocca il compito di
trasmettere e ritrasmettere informazioni e idee, di rispondere alle
richieste, e così via." La quantità di materiale ricevuto è stata
enorme, così come sorprendente è stata la diversità, molteplicità dei
linguaggi, dei modi di agire, delle esperienze, di cui veniva data
testimonianza. (Tutto è stato conservato, ed è oggi consultabile nel mio
archivio, depositato presso la Fondazione Badaracco, a Milano).
Alla "unitarietà complessiva" della proposta teorica e politica
della rivista un contributo fondamentale viene dato dagli scritti di Elvio
Fachinelli, di cui uscirà una raccolta nel libro Il bambino dalle uova
d'oro, edito da Feltrinelli nel 1974.
"Il deserto e le fortezze", pubblicato in tre parti, tra il 1971
e il 1973, e poi ripreso nel libro col titolo "Il paradosso della
ripetizione", è un saggio destinato a lasciare un segno duraturo e
originale sia nella storia della psicanalisi che del pensiero e della
pratica politica, e forse proprio per questa inusuale connessione
ingiustamente dimenticato. La rilettura della "coazione a
ripetere", così come era stata definita da Freud, come
"qualcosa di originario e elementare nella vita psichica, che
oltrepassa ogni istanza di piacere", prende le mosse dall'analisi
degli sviluppi del movimento rivoluzionario, e dalla considerazione dei
limiti entro cui la cultura di sinistra e il movimento operaio avevano
confinato il marxismo. Non era stato visto "ciò che Marx giovane
chiamava la passione dell'uomo, il suo bisogno di una totalità di
manifestazione di vita umana". Per una stagione "breve, intensa,
intransigente", l'agire politico era parso effettivamente capace di
interpretare l' "urgente 'bisogno di autorealizzarsi da parte
dell'uomo", ma l'esperienza successiva aveva visto di nuovo la
politica "separarsi" dalla vita nella sua interezza,
"mutilarsi" di alcune delle ragioni più elementari del
comportamento individuale e collettivo. Parlando della "zona
d'ombra" in cui sono lasciate le donne, sia dalla storia ufficiale
che dalle teorie rivoluzionarie, Luisa Muraro scriverà che questa
"dislocazione" non dimostra un loro limite, ma l'inadeguatezza
della politica rispetto alla complessità dell'esperienza.
"Facilmente riconosciamo il modo economicistico di rappresentare e
usare la vita umana…Non è sentimentalismo: la vita di un essere umano
è più che il suo posto nella produzione; lo sappiamo per l'esperienza
concreta iscritta in noi dalle ore passate a giocare, a fare l'amore, a
ricordare, a dimenticare. La separazione tra uomo e donna, il dominio di
quello su questa, hanno amputato l'essere umano della sua umanità…una
vera e propria disumanizzazione (essere donna, come essere bambino o
vecchio o malato è parte interna costitutiva della sua umanità) non
inferiore, anche se diversa, di quella che comporta il lavoro
sfruttato." (n.3/4, marzo 1973).
Il ripensamento della politica, nel pensiero di Elvio Fachinelli, si
allarga fino a includere la vicenda originaria: il passaggio del bambino
"da essere biologico a essere inserito nell'universo simbolico
proprio dell'uomo"; l'intensità e significatività delle esperienze
fatte nel periodo di maggiore dipendenza e la tendenza alla loro
ripetizione; quella sorta di nostalgia che paradossalmente spinge
all'agire, sia nel senso di una replica cieca, sia nel senso di un
tentativo di uscirne; l'intreccio tra il tempo-tartaruga del supporto
biologico,e il tempo-freccia della società storica. La radicale,
esplicita messa in questione di ogni dualismo -biologia/storia,
corpo/mente, ecc.-, che attraversa tutti gli scritti pubblicati su
"L'erba voglio", si esprime, nel suo aspetto più immediato,
nella "scandalosa inversione tra il racconto di esperienze
particolari e il linguaggio codificato della politica", dall'altro in
quello che ne è il presupposto di fondo, la presa di distanza dai saperi
istituiti, dell'individuo e del sociale, cioè la psicanalisi e il
marxismo. La ricerca di nessi, tra vita e politica, natura e cultura,
corrispondeva d'altra parte ai cambiamenti in atto in una società di
massa: si modificano i limiti tra individuo e collettivo -un individuo
sempre più funzionale e integrato "in un sistema la cui regolazione
è già prevista in anticipo"-; cambia il rapporto tra realtà e
sogno, il sogno si fa più vicino e può essere afferrato: attraverso i
mezzi di comunicazione, voci e immagini percorrono il mondo "come un
inconscio diffuso a tutta la ionosfera". "Per poter lavorare con
la gente -si legge in una nota redazionale del primo numero- per poterla
concretamente toccare, bisogna passare, e non è ironia, attraverso i suoi
sogni."
La critica all' economicismo e alla politica separata diventa ancora più
radicale nel momento in cui la rivista comincia a pubblicare scritti
legati alla elaborazione teorica e pratica del femminismo: Madre
mortifera di Lillith e Fachinelli, La nudità (di Antonella
Nappi), Dora, Freud e la violenza (di Lea Melandri), Le donne
invisibili (di Luisa Muraro), Pratica dell'inconscio e movimento
delle donne (di Alcune femministe milanesi), L'infamia originaria
(di Lea Melandri), Diario di militante (di Luisa Passerini). Un
femminismo attento all'esperienza personale e ai risvolti profondi del
rapporto uomo-donna "entrava di diritto" nella tematica della
rivista, ma avrebbe anche aperto, verso la metà degli anni '70, difficoltà,
divergenze, all'interno del gruppo che aveva sostenuto fino allora la
rivista, la messa in crisi di rapporti che erano stati "personali e
politici", e infine l'uscita dalla redazione di Luisa Muraro e mia,
tra il 1975-1976.
Versione rivista dall'Autore dell'intervista apparsa nel
libro di S. Benvenuto & O. Nicolaus, La bottega dell'anima, F. Angeli,
Milano. Uno stralcio di questa conversazione, registrata, era stato
pubblicato da L'Espresso, il 9 aprile 1989.
Nel maggio del 1987 Elvio Fachinelli accettò di avere con me una
conversazione sui temi della formazione degli psicanalisti. Da anni egli
era stimolato da questo problema, e aveva partecipato attivamente, assieme
all'intervistatore, a un comitato ristretto di un partito politico che si
proponeva di studiare modifiche alla proposta di legge Ossicini (allora
non ancora approvata) sulla regolamentazione della professione di
psicologo.
Egli sperava così di innescare un dibattito tra psicoanalisti, di
smuovere le acque su una questione che egli considerava della massima
importanza per la stessa sopravvivenza della psicoanalisi come attività
creativa.
Nel dicembre dei 1989 Fachinelli si è spento. Oltre al rammarico di aver
perso un caro amico, l’intervistatore fu rattristato dal fatto che
Fachinelli non fosse riuscito a vedere la pubblicazione integrale di
un'intervista alla quale teneva in modo particolare.
È un intervento in linea con lo stile di pensiero e di vita cui
Fachinelli è rimasto sempre fedele: il non esitare a lavare i panni
sporchi della famiglia in pubblico, la tendenza a non accettare tabù e
luoghi comuni anche tra gli analisti, il dovere di dire pane al pane e
vino al vino, l'ardore polemico non sostenuto mai da acrimonia personale,
ma sempre da una forte tensione etica.
S.B.
S. Benvenuto - Tu sei analista della Spi (Società psicoanalitica
italiana), nella quale esiste una gerarchia - in ordine crescente - tra
candidati, associati e ordinari.
E. Fachinelli - lo sono nella Spi, ma solo come associato. In effetti la
metà circa degli ordinari è costituita da didatti, vale a dire da
analisti che hanno la licenza di svolgere analisi cosiddette didattiche.
S.B. - Quanti sono gli ordinari didatti?
E.F. - Saranno una sessantina. Vari anni fa, a un'assemblea della Spi,
presentai una proposta per abolire la qualifica di didatta. Anche perché
i didatti non sono o non erano neanche un'istituzione universale in tutte
le società aderenti all'Associazione internazionale di psicoanalisi (Ipa).
Allora fu nominata una commissione di studio su questo problema, che vegliò
per due o tre anni, dopo di che si sciolse senza aver fatto nulla. E da
allora le cose si sono ulteriormente appesantite! In questa situazione di
gerarchizzazione spinta, da un lato non ho voluto uscire dalla Spi, perché
la mia matrice è lì, ho fatto l'analisi con Musatti, e forse un residuo
transferale, diciamo un affetto, mi ha trattenuto lì e il voler evitare
l’ostracismo... dall'altra ho deciso risolutamente di non far carriera,
di rimanere nella posizione laterale di associato. Una provocazione, se
vuoi, qualcosa che molti imbecilli che mi sono passati davanti non
capiscono neppure. Ma mi è sembrato coerente con ciò che ho sempre
sostenuto nei confronti della società.
S.B. - Come si esce dalla Spi? E come ci si entra?
E.F. - Ogni anno si paga una quota, come per l'iscrizione a qualsiasi
club. Se uno non paga, dopo qualche anno è considerato dimissionario. Ma
credo che siano pochissimi i dimissionari. Per passare da un livello
all'altro occorre presentare delle osservazioni di casi e così si sale
via via la scala: da candidato ad associato, a ordinario e finalmente si
arriva alla posizione di didatta. Per tutti, ma soprattutto per gli ultimi
gradini, vale in fin dei conti un criterio di cooptazione. Quanto a me,
non ho mai fatto nessuno dei passi necessari per passare oltre la semplice
associatura. Ho continuato a scrivere e a pubblicare per mio conto.
Proprio per rifiuto di queste corse a tappe, di queste procedure nelle
quali si coniugano burocrazia e infantilismo.
S.B. - Se è la struttura che non ti va, perché hai proposto l'abolizione
del didatta, piuttosto che proporre l’intera ristrutturazione dell'iter?
E.F. - Perché non mi sembra insensata una differenziazione tra chi fa
l'analista da un anno o due e chi lo fa da cinque, sette o più anni. Ora,
l'analisi che per abitudine si continua a chiamare didattica dovrebbe
esser condotta da un analista esperto, senza che entri in campo
l'appartenenza a una specie di corporazione di «didatti». Fatta
l'analisi, chi desidera entrare nella società di psicanalisi fa la sua
domanda e la società è li-bera di accettarlo o rifiutarlo. E chi entra,
entra a parte intera, senza riduzione di diritti che poi deve conquistarsi
gradino per gradino. La sua analisi entrerebbe il meno possibile
nell'ordine di passaggi controllati dall'organizzazione.
C'è spesso, anche se non sempre in modi evidenti, il desiderio di entrare
a far parte dell'ordine costituito. Ma questo desiderio di una
destinazione societaria per la propria analisi didattica dovrebbe essere
ridotto al minimo, e posto nella condizione di poter essere analizzato.
Invece l'esistenza di un circolo di didatti conferisce all'analisi una
sorta di imprimatur preliminare, di garanzia, al diritto di ingresso nella
società, che ostacola l'analisi stessa. E questo sia che il didatta sia
poi impegnato direttamente nella procedura di ammissione, sia che non lo
sia, come succede nella società italiana. Il di-datta stesso, proprio
perché si considera didatta, è interessato a che i suoi didattizzati
siano ammessi. C'è qui qualcosa che falsa radicalmente il processo
analitico. Forse al posto di “analisi didattica” si dovrebbe
sistematicamente dire “pseudo-analisi”. Uno dei vari tipi di
pseudo-analisi esistenti oggi.
S.B. - Attraverso la richiesta di eliminare i didatti, mettevi in
discussione il concetto di analisi didattica. Per esempio, nell’Aipa,
una delle associazioni junghiane, prevalgono posizioni -così mi pare -
simili alle tue: per loro non c'è analisi didattica distinta dall'analisi
comune. Aldo Carotenuto ha anzi dichiarato che «l'analisi didattica» per
lui è una truffa.
E.F. - lo sostengo questo paradosso: ogni analisi personale è un'analisi
didattica nel senso che, inevitabilmente, se l'analisi procede, c'è
l'assunzione della posizione di analista. Impari un pezzo di arte,
insomma, e ne farai ciò che vorrai, che tu divenga analista oppure no.
Con un'eccezione, che è proprio quella dell'analisi didattica di oggi.
Perché questa è condizionata pesantemente da una meta esterna,
l'iscrizione al club Spi o altra società simile, e quindi falsata.
S.B. - Un analista della Spi, D'Errico, disse in un congresso - citando il
suo barbiere, il quale parlava del suo apprendista - che «il mestiere si
deve rubare». Però nella Spi occorre avere dei colloqui con tre analisti
didatti prima di essere presi in analisi e quindi in formazione.
E.F. - Nel momento stesso in cui uno va a farsi ascoltare da un analista
didatta - che sia uno, due, o siano tre o quattro - si propone dì farsi
cooptare nella società. Quanto ai criteri con cui si viene ammessi o non
ammessi, sono sempre, e per forza maggiore, dei criteri extra-analitici,
basati su impressioni, colpi d'occhio, idiosincrasie... o su quello che il
didatta considera il suo fiuto, come quello di un cane da tartufi... È
evidente che di fronte a questo primo passaggio nell'areopago
psicoanalitico il candidato si muoverà in modo prudentissimo, in ogni
caso in modo artificioso, s'informerà sui gusti di ogni esaminatore, così
da presentare sempre a ciascuno di loro la faccia più bella, più
seducente o semplicemente una faccia «media», che non evidenzi
peculiarità pericolose… Questo è uno dei passaggi in cui la
psicoanalisi è già commedia, pronta a diventare spunto teatrale o
cinematografico, se qualcuno ne avesse voglia.
Dopo quest'esame, se il candidato è accettato, si considererà destinato
a entrare in questa società che gli promette sicurezza, riconoscimento e
- last but not least - clienti. Egli si sente promosso analista della
società sin dall'inizio e baderà bene a non far nulla che possa
minimamente ostacolare o rinviare questa sua destinazione.
S.B. - Nemmeno il tuo iter personale è sfuggito a questa carenza? E che
esperienza hai del fatto che le analisi didattiche nella Spi sono
paradossalmente analisi poco didattiche, anzi le meno didattiche di tutte?
E.F. - Ho fatto un'analisi con Cesare Musatti che probabilmente, con i
criteri attuali, sarebbe giudicata un'analisi «selvaggia» - come del
resto le analisi fatte dalle prime generazioni di psicoanalisti. Eppure
secondo me è stata una buona analisi: ho ricevuto sorprese, e questo per
me è fondamentale in ogni analisi. Ho imparato e mi sono anche divertito.
Merito certo della personalità di Musatti, che nei suoi momenti migliori
è un clown di genio, un folletto, e non corrisponde certo alla figura
neutra o addirittura assente predicata, ma non praticata, da Freud. Si era
nel periodo in cui la Spi non aveva assolutamente la posizione centrale
che ha attualmente: era il centro di se stessa, non il centro della vasta
nebulosa psicoterapeutica che si è formata negli ultimi anni. La società
somigliava più alle prime baracchette freudiane che alla fortezza
burocratica che è diventata in seguito. Del resto Musatti personalmente
era molto incerto sull'avvenire della psicoanalisi, non escludeva per i
suoi allievi prospettive di naufragio professionale, se non di miseria.
L'appartenenza era molto meno una garanzia di quanto non sia adesso. In un
certo senso, era molto più significativa; si apparteneva a un gruppo di
lavoro, di ricerca, c'erano direzioni diverse e ciascuno era libero di
pensare con la sua testa; ne venivano fuori contrasti personali molto
forti, non diplomatizzati. Non voglio idealizzare: il fatto che
l'appartenenza alla Spi di allora fosse diversa da quella odierna non
significa che non contenesse anche, in nuce, seppure non in modo fatale,
l'evoluzione che c'è stata. Anche la mia analisi è stata incrinata dal
problema dell'appartenenza al gruppo. Non esistono analisi assolutamente
«pure». Ma il livello d'impurezza raggiunto dalle attuali analisi
didattiche mi sembra ormai eccessivo. E i risultati, in termini di
grigiore e di mediocrità o di livellamento a uno standard uniforme, mi
sembrano palpabili.
S.B. - Che cosa ti fa pensare che oggi questa situazione sia catastrofica?
E.F. - Catastrofica! È un termine un po' drastico, per una situazione in
cui la Spi si vive come una società potente, prospera... Eppure lo stato
delle cose mi sembra profondamente distorto e non analizzato. Prendi un
dato macroscopico: tra quelli che vengono in analisi, l’idea di fare in
seguito l’analista è oggi molto più diffusa rispetto a quindici anni
fa. Il numero crescente di laureati in psicologia, effetto a sua volta di
una crescente psicologizzazione della società, e poi l’interesse a
farsi una formazione psicoanalitica da parte non solo di psichiatri, ma
anche di medici non psichiatri, insomma l’enorme aumento di una domanda
professionale - tutto questo ha rafforzato l'importanza della Spi come
centro di formazione e appartenenza.
Nello stesso tempo, il rapporto personale con l’analisi tende a passare
in secondo piano rispetto alla prospettiva d’inquadramento professionale
garantito. Di conseguenza, la Spi tende a diventare per forza di cose una
specie di ordine professionale, come quello dei medici, degli avvocati, un
ordine che conferisce legittimità a chi ne fa parte e la toglie - o si
sforza di toglierla - a chi ne è fuori. Vedi la questione
dell’appellativo psicoanalista, da riservare secondo alcuni esponenti
della Spi a quelli che appunto fanno parte della Spi, mentre gli altri
sarebbero psicanalisti: distinzione ridicola, grottesca; nessuno in Italia
dice psicoanalista, e perciò è la spia di un'aspirazione legittimante.
Resta vero d'altra parte che la domanda di formazione professionale si fa
prevalente, in tutto il mondo. Io stesso ho oggi molte più richieste di
questo tipo di una volta. È una situazione inquietante: spariscono i
pazienti veri e propri, aumentano i futuri colleghi.
S.B. - Vengono in tanti da te, anche se non sei un didatta. Non mi sembra
questo, per loro, il modo migliore per garantirsi una carriera.
E.F. - La mia posizione è nello stesso tempo di forza e di debolezza. Se
nei primi colloqui con chi mi chiede un'analisi viene fuori che la persona
ha l'intenzione di fare l'analista, dico subito che non sono didatta e non
ho nessuna intenzione di diventarlo e che quindi, se pensano di entrare
nella Spi, dovranno fare un iter burocratico da cui io sono completamente
fuori. In genere però quelli che vengono da me e hanno in mente di
diventare analisti conoscono già questa mia posizione. Vogliono fare
un'analisi con me. Alcuni dicono di non avere alcuna intenzione di entrare
nella Spi. Altri invece dichiarano che decideranno in seguito per una
tranche, come si dice in gergo, con un didatta della Spi. Si profila un
regime di doppio gioco: l'analisi personale con me, quella professionale
con un abilitatore della Spi.
S.B. - Si rivolgono a te per imparare l'arte, piuttosto che per fare una
carriera.
E.F. - In fondo, è in qualche misura l'esatto rovescio di ciò che accade
nell'analisi con un didatta. Da me vengono per quello che sono o che si
immaginano che io sia. Dal didatta vanno per quello che rappresenta
rispetto alla Spi. E così molte analisi cosiddette didattiche sono
condotte da persone inesistenti sul piano culturale e scientifico o anche
semplicemente «umano», quando non si tratti di autentici imbecilli. Ma
imbecilli patentati...
Sì, da me vengono per imparare l'arte. E qui vale in primo luogo, per
paradosso, il fatto che con me si tratta di analisi personali, nelle quali
il modo, il perché, del desiderio di diventare analista è indagato come
il resto. E si analizza anche perché hanno scelto me, che non sono nella
posizione più favorevole per garantire una carriera. Con tutte le
ambivalenze che questo comporta, come la nostalgia per una figura
genitoriale piena, senza buchi, e così via.
S.B. - Allora non metti su bottega, come nelle arti medievali?
E.F. - È vero che la bottega, come tu dici, significa mettersi in un
gruppo e che un gruppo tende subito a promuovere pratiche e ideologie che,
guarda caso, in quest'ambito somigliano molto a quelle della Spi. Insomma,
diffido dei gruppi psicanalitici, come forse di ogni gruppo organizzato,
sulla base un'esperienza storica risultata senza dubbio negativa. Freud
volle fare un gruppo organizzato rigidamente e meglio avrebbe fatto a
indagare in profondità questa suo desiderio gruppo... E indagare il
gruppo stesso, una volta costituito, come ha fatto per l’esercito e la
chiesa, anziché criticarlo privatamente. Anche Lacan volle fare un
gruppo, sia pure su basi diverse e gli esiti non sono stati certo
incoraggianti.
In fondo, l'analisi è per me un'avventura, un viaggio privato compiuto
dentro una figura storica di rapporto tra uno che parla il più
liberamente possibile e uno che sta a sentire, essenzialmente. Freud ha
inventato qualcosa che ha una fisionomia peculiare, irriducibile a quelle
preesistenti. Qualcosa che rimane, come rimane, per esempio, il dialogo
platonico. È una configurazione su cui a ciascuno è consentito di
esercitarsi, che non esaurisce certo l'ambito delle relazioni umane e che
ha ben poco a che fare con le Società che si richiamano ad essa. Per
queste, valgono altre regole e sono necessari altri tipi di osservazione.
Per tornare alla mia attività, vengono da me anche persone che, dopo aver
fatto un'analisi «regolare», oppure no, mi chiedono una supervisione
clinica.
S.B. - Anche a livello della supervisione la Spi prevede delle regole
precise?
E.F. - No, sarebbe il massimo del ridicolo se esistesse il titolo «supervisore»,
qualcosa di gogoliano... Ma non si può escludere che con lo sviluppo
attuale, venga creato: un titolo intermedio tra analista ordinario e
didatta. Oggi, i didatti sono supervisori, ma ci sono probabilmente
supervisori non didatti. È invece rigidamente organizzato lo svolgimento
delle supervisioni. Vale a dire, il candidato deve farne un paio, così mi
pare, con casi clinici selezionati, andando regolarmente dal suo
supervisore per un paio di anni. Il criterio è essenzialmente quello
dell'impegno quantitativo nell'analisi. Mi è capitato talvolta di
sentirmi chiedere da un candidato: «Non avresti per caso da mandarmi un
paziente da quattro ore a settimana? Mi è stato posto come condizione per
la supervisione». Ogni commento mi pare superfluo.
Chi mi chiede una supervisione sa, se fa parte della Spi, che la mia
supervisione non gli serve per la carriera nella Spi. Viene da me per
vedere concretamente come lavoro, per sentire cosa ho da dire di fronte
alla situazione che mi presenta (se ho poi qualcosa da dire ... ). Ritengo
essenziale fare supervisioni brevi, perché nel giro di sei mesi uno
capisce abbastanza come lavoro, e voglio evitare il pericolo di diventare
un modello impositivo, uno che mette il timbro, il placet... così può
andare da altri.
S.B. - Comunque, sono persone interessate più al «caso Fachinelli» che
a farsi controllare i loro casi…
E.F. - Precisamente. Poi faccio anche un gruppo di discussione, insieme ad
analisti, psicoterapeuti e persone comunque interessate ai discorsi che si
fanno lì. Partecipo molto volentieri a questo gruppo, come del resto ad
altri analoghi cui mi è capitato di partecipare in passato, perché non
c'è nessuna prospettiva di carriera, ma soltanto il gusto della
discussione.
Suppongo che questa attività sia vista negativamente dalla Spi -
formalmente, gli psicoanalisti parlano tra di loro solo all'interno della
Spi. E così per esempio Johannes Cremerius che viene dalla Germania a
Milano a fare corsi e conferenze in un gruppo, senza minimamente
interpellare quelli della Spi, fa certamente una cosa sbagliata, secondo
gli ortodossi. Si ripropone insomma la divisione tra «selvaggi» o «cani
sciolti», e psicoanalisti, che non ha più molto senso secondo me. Anzi,
all'esterno della Spi c'è spesso più spirito di ricerca che non
all'interno. Naturalmente, fuori della Spi ci sono anche ciarlatani e
spiriti vaghi! Ciò che però mi sembra significativo dell'attuale fase è
il proporsi, da parte di alcuni analisti, della figura del «libero
maestro», scelto dai suoi allievi e liberamente parlante a chi lo vuol
ascoltare, fuori degli steccati di scuola. Ed è verosimilmente una
reazione al senso di chiuso che si respira nelle società psicoanalitiche
in genere.
S.B. - «Liberi maestri» come nelle università medievali, insomma «Liberi
docenti», come si diceva anche di recente.
E.F. - Proprio così. Con gli allievi che portano la legna per scaldare il
locale e il pane e salame per nutrirlo, il maestro.
S.B. - Queste persone che vengono a chiedere supervisioni, sono per lo più
persone già analizzate, bene o male, sono psichiatri, sono medici che
lavorano nelle istituzioni?
E.F. - Sono persone piuttosto diverse. Medici, psichiatri e
antipsichiatri, per usare la terminologia di anni fa. Persone che a un
certo punto si chiedono: «Cosa posso fare con questa persona in difficoltà?».
Me lo chiedono, ne parliamo insieme e loro lavorano sulla base di ciò che
riescono a dare nel loro ambito specifico, non sulla base di ciò che
dovrebbero fare dal punto di vista psicoanalitico.
S.B. - Queste supervisioni sono brevi perché a un certo punto dici loro
«adesso basta!»?
E.F. - No, lo dico già in partenza. Le supervisioni che si trascinano per
anni presentano lo stesso rischio delle analisi didattiche - il
supervisore tende fatalmente, ne sia consapevole o meno, a imprimere sul
supervisionato il suo marchio. Alcuni sono proprio dei marchiatori
deliberati. E va detto che sono molti gli allievi che desiderano avere la
punzonatura. Con l'analisi didattica e la supervisione tende facilmente a
istituirsi un rapporto di tipo pedagogico, spesso anche autoritario. Il
transfert viene inflesso in questo senso.
S.B. - A me sembra davvero arduo, per un candidato Spi, o per un allievo
in analisi didattica, sapere che il proprio analista è contemporaneamente
il proprio giudice. Ciò provocherà dei dilemmi angosciosi; il fatto di
mettere nell'analisi in ballo delle questioni molto profonde - considerate
dall'analizzante, a torto o a ragione, psicotiche - entrerà continuamente
in conflitto con la necessità di dare la migliore immagine di sé
all'analista-giudice. Egli penserà: «Se faccio vedere che sono anche
pazzo, non verrò più cooptato». Insomma, mi sembra una cosa del tutto
ovvia che il ruolo di analista e quello di giudice siano in rotta di
collisione.
E.F. – Sì, anche quando analista e giudice non coincidono nella stessa
persona, ma si ripartiscono in figure diverse. In ogni analisi, oltre alla
rimozione e altri procedimenti difensivi inconsci, si aggiungono reticenze
e menzogne. Questa quota di dissimulazione tende ovviamente a essere
maggiore nell'analisi istituzionalizzata.
S.B. - Com'è possibile che i dirigenti della Spi, che sono persone
cariche di esperienza, non si rendano conto di queste cose che a noi due
sembrano ovvie?
E.F. - Credo che molti ne abbiano la percezione, ma lo considerano un
problema irrisolvibile. Riconoscono l'esistenza di queste distorsioni, se
vengono loro indicate e se non sono persone già deformate dalla loro
immedesimazione nel ruolo societario. Ma pensano sia inevitabile. Non
riescono a pensare fuori della prospettiva istituzionale. Dicono: «Comunque
abbiamo un cursus di studi, analisi e supervisioni tali che formiamo
persone mediamente preparate».
S.B. - Qualcuno però obietta che, è vero, per ora la Spi forma in media
i migliori psicoanalisti classici, ma non forma psicoterapeuti capaci di
confrontarsi con situazioni al di fuori del setting analitico (psicotici,
caratteriali, psicopatici, gruppi ecc ... )
E.F. - Questo è un problema collegato, e di grande interesse Ma per
rimanere nell'ambito della psicanalisi classica, il processo di formazione
e cooptazione seleziona in fin dei conti personalità smussate,
arrotondate, senza spigoli. Senza aspetti abnormi evidenti ma anche senza
personalità. È la folla di candidati «grigi», di analisti senz'anima,
di spiriti ritualisti dell'analisi. Questo per i più lucidi è il
problema fondamentale.
S.B. - Lo è anche per te?
E.F. - Non esattamente. L'analista grigio è solo il risultato di
un'istituzione, e questa è il problema fondamentale. In ogni caso si
tratta di un'obiezione diffusa: selezioniamo dei personaggi un po' spenti,
si sente dire spesso, e così la nostra società è una società di
mediocri.
S.B. - Sono spenti in partenza, o è il training che li spegne?
E.F. - Viene effettivamente da chiedersi: questi «giovani», che spesso
hanno i capelli bianchi e due tre figli, erano cosi già prima
dell'analisi o sono diventati così con l'analisi? Una domanda da far
tremare i polsi... Ci sono dei candidati di trentacinque-quaranta anni che
alle riunioni se ne stanno assolutamente e sempre zitti. lo li chiamo «le
lingue tagliate». Certo, l'analisi provoca situazioni di regressione, ma
dovrebbe anche risolverle! A queste riunioni (per inciso, quasi nessuno
dei didatti è presente ad esse, come se per loro non fossero di alcun
interesse), chi presenta un lavoro è quasi sempre un associato, o un
ordinario. Su una cinquantina di presenti, poniamo, ci sono trenta
trentacinque candidati e pochissimi aprono bocca. Una cosa molto
inquietante.
S.B. - Forse questo è un problema non solo della Spi. Anni fa, in una
scuola di ispirazione lacaniana di cui facevo parte, accadeva lo stesso
fenomeno dei neofiti con la bocca chiusa in una misura tale da farmi
ridere. È come se ogni «giovane» si dicesse dentro di sé.- «Anziché
parlare e rischiare di fare una figuraccia, meglio tenere la bocca cucita».
È come se nel seminario teorico loro fossero gli analisti, quelli che
devono ascoltare.. Nemmeno per fare domande, per chiedere chiarimenti. Si
tratta quindi di un'infantilizzazione scolastica, oppure di un rapporto
reverenziale di sacro timore?
E.F. - Non vorrei dare una risposta semplificata e generica. C'è una
situazione di attesa, si aspetta un completamento, un perfezionamento che
è sempre al di là dei cerchi da superare... È qualcosa che oltrepassa
di gran lunga il disagio e l'esitazione di chi è all'inizio di
un'esperienza. Ed è notevole che i due livelli estremi della società -
candidati e didatti - siano in maggioranza e stabilmente a bocca chiusa: i
primi anche se presenti; i secondi proprio perché per lo più assenti.
S.B. - Ma al di fuori della Spi, in Italia, c'è una vivacità media degli
analisti superiore al «grigiore», come lo chiami tu, e ai silenzi degli
Spi?
E.F. - Mi è difficile dire. Però, almeno in Italia, l'appartenere o meno
a una società «seria» è un punto molto discriminante. Questa
appartenenza agisce su quelli che ne fanno parte, nel senso: «Noi
attraversiamo tutte queste forche caudine, però alla fine abbiamo una
preparazione molto seria». Ma agisce anche su quelli che non ne fanno
parte. I primi ricavano dalla società senso di sicurezza, i secondi,
direi insicurezza correlata a una tendenza a idealizzare la società da
cui sono esclusi. Ho anche l'impressione che - tranne i gruppi lacaniani,
che hanno un riferimento piuttosto forte, preciso - le altre
organizzazioni critichino e/o imitino la Spi.
S.B. - Mi chiedo se questo valga anche per gruppi folti come, a Roma,
quello che fa capo a Massimo Fagioli, o quello che fa capo a Sandro Gindro.
Sono gruppi piccoli rispetto alla Spi, ma indubbiamente hanno un capo
carismatico, da cui gli allievi sono letteralmente affascinati. Sono
andato a qualche seminario di Gindro a «Psicoanalisi contro»: c'era una
calca di circa 100 persone, per lo più ex sessantottini convertiti alla
psicoanalisi..
E.F. - Ma queste sono vere e proprie masse, non gruppi! A ogni modo se
fossero mille, sono sicuro che una certa parte di quei mille pensa: «Sono
qui, mi fa piacere; ma sono veramente preparato, posso domani cominciare a
fare l'analista?» E la stessa cosa sarà anche per il gruppo di Fagioli e
qui a Milano con il gruppo di Verdiglione.
S.B. - Come fai a essere così sicuro dell'insicurezza delle persone
formate nell’Associazione di Verdiglione?
E.F. - Mi baso su alcuni contatti personali con allievi di Verdiglione.
Sempre ho notato in loro una particolare esitazione e insicurezza sulla
figura del maestro - che viene fuori talvolta dopo un'esaltazione estrema.
S.B. - Perché la Spi è così forte in Italia e il suo prestigio è in
crescita? Essa pare più forte che le società ufficiali in altri paesi di
lunga tradizione psicoanalitica, e questo anche se in verità dalla Spi
solo di rado sono usciti maestri di fama internazionale. Dopo Edoardo
Weiss, il fondatore, l'unico che godeva di una fama internazionale (anche
perché se ne andò negli Stati Uniti), nessun analista italiano ha mai
avuto un credito internazionale - dall’Italia non sono mai usciti fuori
delle M. Klein, dei Winnicot, dei Lacan, dei Bion, dei Balint, dei Kohut
ecc. Tranne forse Matte Blanco, che scrive però in inglese. E magari
Franco Fornari.
E.F. - Ma il localismo, per così dire, è un problema della cultura
italiana in genere che, per dirla in breve, importa molto ed esporta poco.
Le ragioni sono molte. In ogni caso, non mi sembra opportuno né
giustificato dedurne, come sembri fare tu, un giudizio di valore.
Altrimenti si cade nel tipico atteggiamento italiano di autodenigrazione,
che per parte mia preferisco di gran lunga all'atteggiamento di arroganza
nazionalista dei francesi, tanto per fare un esempio, ma che alla fine può
risultare dannoso. Può essere valutato un tratto peculiare della
psicoanalisi italiana: quello di adottare un maestro lontano. È il caso
di Bion, che oggi è il maestro indiscusso nella Spi.
S.B. - Come spieghi la grande fortuna di Bion, superiore a quella di cui
Bion gode in Gran Bretagna? Lì Bion, certo, è considerato un analista
importante, ma non quel faro indiscusso, come è qui in Italia. La
Tavistock Clinic ha aperto da anni una succursale a Roma che tende ormai a
essere quasi più importante della centrale londinese. E poi la Spi non
avrebbe mai espulso R. Meltzer, come hanno fatto in Inghilterra...
E.F. - Il faro indiscusso, come dici tu, è frutto appunto di
un'insicurezza provinciale, idealizzante, che rischia di non comprendere
il modello stesso che adotta e di cui alla fine sminuisce la vera
grandezza. Quanto all'espulsione di Meltzer, quando me l'hai detto non ci
volevo credere. Per ciò che riguarda il kleinismo, esso è entrato in
Italia attraverso Franco Fornari che ne ha divulgato alcuni temi e altri
ne ha elaborato in modo originale. Ci si potrebbe chiedere se la fortuna
della Klein in Italia non sia stata anche legata a una generica consonanza
tra cattolicesimo e tematica della colpa-depressione tipica della Klein.
Ma la Klein è stata negli anni '50 un'autentica ventata d'aria fresca
nell'ambito della Spi, soprattutto nell'ambito della conduzione
dell'analisi; per me personalmente, i seminari di Marcelle Spira e Salomon
Resnik sono stati molto significativi. Melanie Klein funzionava in quegli
anni, per la Spi, come un'eterodossa consentita, in quanto tutti i
tentativi di espellerla erano falliti. E così divenne addirittura una
moda per alcuni anni l'andare frequentemente a Londra a seguire corsi e
seminari, e anche fare un’analisi personale con un analista di scuola
kleiniana. Credo che ben pochi si siano mossi per seguire Anne Freud…
S.B. - Volevo tornare su queste persone che ti chiedono un’analisi, se
non didattica, certo per imparare il mestiere. È possibile che portino
questo come loro desiderio principale?
E.F. - No, questo no, evidentemente. Però per alcune persone questo
desiderio è a prima vista prevalente, e questo dato è in buona
consonanza con la tendenza magistrale-professionale della psicanalisi
attuale. Poi in effetti vengono fuori sempre anche altre motivazioni, che
investono per esempio la stessa scelta di fare lo psichiatra o lo
psicologo o il medico. È essenziale poter analizzare a fondo questo
desiderio di fare l'analista - può rivelarsi un desiderio che ne copre
altri più personali. Va pur detto che il desiderio di fare l'analisi
perdura, di solito. Intervengono molte ragioni sussidiarie: interesse,
prestigio, prospettiva di denaro... Insomma ho l'impressione che più
volte il fare l'analista corrisponda a una mezza vocazione, che mette in
ombra altri interessi.
S.B. - Alcuni analisti ammettono di considerare la richiesta reiterata di
essere formati come analisti come un sintomo nevrotico, da analizzare. Del
resto, per affrontare questo groviglio Lacan aveva proposto la formula
della «passe». Per te è un fatto negativo che l'analista, proprio perché
tale, sia ancora alle prese con certi problemi che lo portarono
all'analisi?
E.F. - Nessuno evidentemente ha mai finito la propria analisi. Il supporlo
vorrebbe dire ammettere una sorta dì totale trasparenza e
addomesticabilità dell'inconscio. Una fine dell'inconscio, certo non
augurabile! D'altra parte, bisogna dire che la persona in analisi arriva
fin dove può arrivare il suo analista: le impossibilità di costui sono
il limite dell'analisi che conduce. Dico: dove può arrivare il suo
analista, non dove è arrivato, personalmente. Ammetto cioè una
trascendenza dell'analista a se stesso (come in fondo in ogni umano...),
altrimenti dovrei accettare quello che si sente spesso dire nei circoli
analitici, che un omosessuale o una lesbica non possono fare gli analisti.
Nello stesso tempo, questo problema del limite dell'analista è un fatto
serio. Nel momento poi del passaggio alla posizione di analista - la passe
di Lacan - c'è una dinamica personale e a questa si sovrappone il
passaggio istituzionale, come nella Spi. Sono due situazioni diverse, ma
che nella pratica vengono assimilate - o ingarbugliate...
S.B. - È come se l’istituzione facesse la «passe» al posto del
candidato, perpetuandone la dipendenza e quasi l’irresponsabilità…
E.F. - Si può dire così, anche se il momento del riconoscimento non può
essere teoricamente soltanto autoriconoscimento, implica sempre
necessariamente l'altro... sono i modi di questo riconoscimento che sono
in discussione. In ogni caso, per me è sempre stata più interessante la
persona che non desidera fare l'analista. Almeno nel primo colloquio.
Quando viene uno psicologo e mi dice che vuol fare l'analista, provo un
senso di peso... mi sembra uno che vuol stare sempre dentro la stessa
macina e che trascina anche me dentro questa macina...
S.B. - Eppure la percentuale delle persone che chiedono di fare l'analisi
per ragioni di formazione professionale tende ad aumentare.
E.F. - È un fatto generale, e si è accentuato fortemente negli ultimi
anni. L'analista, come hai detto, diventa poco a poco una macchina che
riproduce se stessa. E le persone che non hanno intenzione di diventare
analisti si tolgono in qualche modo dal circuito, lo avvertono come troppo
lungo e oneroso e in fin dei conti non adatto. È un percorso storico che
porta a una situazione paradossale: sempre meno pazienti nel senso
classico, e sempre più futuri colleghi.
S.B. - Allora la Psicoanalisi cessa di essere poco a poco una care/cure,
come dicono gli anglofoni, e diventa una corporazione intenta alla propria
autoriproduzione, come quella dei monaci. 0 meglio, definisce una nuova
aristocrazia, che attraversa trasversalmente le attività sociali: quella
degli analizzati/analisti. Un tempo fu la nevrosi a generare come sua
risposta la Psicoanalisi, ma adesso sembra quasi che la nevrosi sia una
funzione dell'essere Psicoanalisti - è come se la nevrosi si perpetuasse
generando Psicoanalisi.
E.F. - È ciò che aveva visto Karl Kraus, quando diceva che la
psicoanalisi è il sintomo della malattia che dovrebbe guarire.
S.B. - Eppure questa tendenza è solo uno dei lati della medaglia.
Sopravvive la tendenza inversa, che chiamerei del «colonialismo
psicoanalitico»: portare la psicoanalisi fuori dalla sua clientela
abituale. Portare la Buona Novella psicoanalitica nel «territorio», nei
servizi, nelle UssI; dal paziente si passa all’utente. Penso al vero e
proprio boom della psicoanalisi dell’infanzia: l'analisi infantile che
funziona è tutto l'inverso dell'autoriproduzione. L’autoriproduzione
sembra raccogliere piuttosto lo scacco della care/cure.
E.F. - Quello che tu chiami il colonialismo psicanalitico è anche il suo
pionierismo, la sua capacità di fornire un ascolto, preliminare a tutto
il resto, a tutto ciò che si può tentare in altre direzioni. Non parlo
di un bagaglio teorico, che del resto è ampiamente disperso in numerose
valigie che vanno di qua e di là. Parlo di una disponibilità alla
ricezione dell'altro, che parte storicamente da Freud e su cui si misura
effettivamente la capacità di un analista, di uno psichiatra, di chiunque
si muova con qualche curiosità sul «territorio». È questa ambiguità
della psicoanalisi, il suo essere una specie di nuovo passaggio, nato in
questo secolo, che non può essere ignorato neppure da chi si muove in
tutt’altro modo. Quando parli di autoriproduzione e di colonialismo,
fenomeni certo reali, tu sembri concludere: questa è la psicoanalisi. Se
fosse così, tutto sarebbe già concluso e sistemato. La situazione mi
sembra invece più complicata. Mi sembra importante che di fronte a un
bambino che ha dei problemi, come si dice in gergo, anziché ricorrere a
tranquillanti e sedativi per tacitarlo, oppure a manovre pedagogiche, ci
sia qualcuno che dica a se stesso: un momento, lasciamolo parlare, quale
che sia il suo modo di parlare - o di non parlare. Questo momento di
sospensione, di vuoto, è il momento sorgivo della psicanalisi come
possibile coscienza. E certo questo è un modello molto diverso da quello
in cui è in questione il desiderio di diventare analista e di entrare
nella Spi.
S.B. - Comunque, il lavoro che tu chiami «conoscitivo» - e cioè
l’essere in grado di aiutare un’altra persona cogliendo qualcosa di
lei - non avviene malgrado ciò che si pensa di conoscere, piuttosto che
applicando le cosiddette conoscenze «scientifiche» del proprio training.
Tu parlavi di bambini difficili, di pazienti enigmatici: è noto che
questi casi rognosi vengono sempre più lasciati ai giovani, ai
principianti. Gli anziani, i capi, preferiscono fare comode analisi
didattiche.
E.F. - Verissimo. Sono del parere che se nell’analisi non c’è
sorpresa, e in ciascuno dei suoi interlocutori, non c’è analisi
affatto. C’è soltanto il ritrovamento di qualcosa che è già stato
trovato, niente di nuovo. La scolastica non funziona neanche nel setting
più rigoroso, e non è un caso che nell’analisi istituita si insista
fin quasi all’ossessione sul rigore del setting, sulla sua purezza - e
ben poco sul tipo di atteggiamento interno che dovrebbe avere sempre
l’analista, sulla sua necessità, in primo luogo, di lasciarsi cogliere
anche alla sprovvista. È l’ovvia conseguenza del posto normativo
occupato dall’analisi didattica come analisi conforme a certe regole
date, come analisi modello e da ripetere. E ciò che tu dici sui «casi
rognosi» corrisponde appunto all’abbandono delle zone di frontiera da
parte della maggioranza dei didatti incalzati dalle richieste di coloro
che vogliono ricevere l'ammaestramento vero. Ma poi non hanno niente da
dire sui «casi rognosi», sulle novità talvolta angosciose che
riferiscono i più giovani. I didatti, i supervisori emettono in questi
casi sentenze o giudizi che sembrano consigli da vecchie zie.
S.B. - Mi chiedevo anche se questo atteggiamento, di silenzio o ciarliero,
dell'analista nei seminari, non abbia un rapporto, magari anche di
scotomizzazione, con la sua pratica come analista… Un analista che aveva
avuto una doppia formazione, kleíniana e lacaniana, osservava questo: gli
analisti kleiniani teorizzano sempre in termini di pre-verbale, di
feelings, di sentimenti grezzi ed elementari, mentre poi nelle sedute sono
molto chiacchieroni, spesso parlano più loro dei pazienti. E’ come se
nella teoria rimuovessero quel che secondo loro è il loro vero «mestiere»,
quello di parlare… Invece molti lacaniani ci tengono ad esibire ai loro
analizzanti un muro di silenzio, spesso davvero eccessivo: eppure sono
veramente logorroici nei congressi e seminari loro... È come se tra loro
si rifacessero di un ascolto eccessivo, per cui si parlano addosso...
E.F. - È un'osservazione interessante: vari sistemi di compensazione al
training, al lavoro analitico stesso... Ci sarebbe da andare avanti in
questa direzione.
Ma per tornare alla Spi, una delle cose valide è costituita dai convegni
interni ai seminari multipli, che avvengono ogni due anni circa. Chi lo
desidera propone un tema di ricerca e le persone interessate a questo tema
si iscrivono. Ne viene fuori una discussione che dura un paio di giorni.
Ogni volta ci sono in totale venti o trenta argomenti, seguiti ovviamente
da un numero variabile di analisti, secondo l'interesse dell'argomento
stesso. Queste riunioni sono la cosa scientificamente più seria che si fa
nella Spi. Ancor più dei seminari clinici serali, nei quali la
discussione è piuttosto ristretta o cerimoniale, con tanti salamelecchi
reciproci; e soprattutto più dei congressi veri e propri nazionali e
internazionali (organizzati questi ultimi dall'Ipa), nei quali prevalgono
in modo assoluto temi di scuola, predisposti dall'alto, inanimati,
inanimabili, nei quali i singoli espositori sono scelti dall'alto sulla
base di opzioni di potere, come nella peggior tradizione dei congressi
accademici. Lo stesso Freud smise rapidamente di andare ai congressi della
sua società, che erano di certo più liberi e interessanti di quelli
attuali. Qui si affaccerebbe il tema dei rapporti tra la burocrazia
nazionale e quella della società internazionale, ricca di spunti comici o
grotteschi, perché gli analisti a capo dell'associazione internazionale,
perlopiù americani, sono dei tipi piuttosto bruschi, che vanno per le
spicce, in netto contrasto con lo stile soft dei dirigenti italiani. Perché,
va detto, nella Spi non c'è una direzione autoritaria del sapere, una
direzione monolitica intollerante. Nell'insieme vige un andamento
ecumenico. Per variare il vecchio detto di Croce: come e perché non
possiamo non dirci cattolici... Ma cattolici all'italiana, è chiaro!
S.B. - Quindi non ci sono prevenzioni contro le opzioni teoriche dei
singoli. Ad un verticismo della formazione nella clinica corrisponde un
ampio liberalismo teorico... Ma questa disponibilità si estende anche a
Jung, a Lacan, a Reich, ecc.?
E.F. - Ma non mi sembra ci sia contrasto. L'ecumenismo, l'eclettismo
teorico nasce anche all'assenza di un reale interesse critico per il
proprio lavoro. Ecco quell'insistenza sul setting di cui ti dicevo, anziché
sulla ricerca, sull'esplorazione di novità cliniche e teoriche. Ne segue
che gli autori da te citati potrebbero benissimo convivere con altri
ortodossi e se non convivono è perché è intervenuta una loro messa
fuori del gruppo, pecore allontanate dal gregge. Qui interviene un altro
fattore: la forza del gruppo e non soltanto del gruppo psicanalitico,
anche se proprio il gruppo psicanalitico sembrerebbe in grado di criticare
e modificare i feroci procedimenti di esclusione di ogni gruppo. Pensa a
ciò che significa il semplice latinetto: Nulla salus extra ecclesiam…
In ogni caso, nessuno si scandalizza di una citazione extra ecclesiam, o
se qualcuno basa un suo lavoro su un reprobo. In Italia c'è più
tolleranza, o indulgenza, rispetto ad altre società...
Nel 1953, Lacan tenne a Roma, accolto dalla società italiana, il suo
celebre «Discorso di Roma», proprio in un periodo in cui infuriava la
guerra tra lui e la società francese. È difficile immaginare in Italia
un'esclusione come quella praticata nei confronti di Lacan - anche se
Lacan era in grado di far saltare i nervi a qualunque società. In Italia
i casi di esclusione sono rarissimi. Quando nel 1969 io organizzai con
Bertrand Rotschild, a Roma, addirittura un convengo contro il congresso
internazionale, che si teneva a pochi passi, ci furono vivaci discussioni
interne, ma non si giunse mai a votare una mia esclusione.
S.B. - Eppure Massimo Fagioli e Antonello Armando sono stati espulsi.
E.F. - È vero, e anni prima era stato espulso Modigliani, pare per motivi
di scorrettezza professionale. Nel caso di Fagioli, era riuscito a
irritare in modo davvero formidabile il gruppo romano. E forse aveva già
cominciato a dare del cretino a Freud. In ogni caso, io votai contro
l'esclusione sua e di Armando.
S.B. - Fagioli si compiace molto nel dare, ancora oggi, del cretino a
Freud. Ma Armando, fu espulso in quanto allievo di Fagiolì?
E.F. - Forse lo si considerò «traviato» da Fagioli, di cui però era
anche l'editore. Le accuse erano basate su questioni formali e che mi
sembrano poco significative. Ebbi allora l'impressione di un processo
intentato da didatti ai loro allievi ribelli. Di Fagioli, che non
conoscevo, ricordo soprattutto gli occhiali neri, inquietanti, un po' alla
Jaruzelski. Di Armando avevo stima.
S.B. - A proposito della legge Ossicini sul riconoscimento degli
psicoterapeuti non medici, tu avanzasti una proposta di training
particolarmente «pluralistica».
E.F. - In effetti, sarebbe semplicemente sensato avere un curriculum
formativo con una piena libertà di opzioni, perlomeno a livello di
conoscenze. La tendenza è invece quella di costituire dei training
separati, per cui chi ha fatto un'analisi junghiana viene a conoscere
soltanto l'impostazione junghiana, chi ha fatto l'analisi con un freudiano
conosce solo Freud eccetera. È importante invece acquisire esperienze
diversificate. Come si può pensare oggi di formare come psicoterapeuta
uno che non sappia nulla della scuola di Palo Alto?
Quindi ci vorrebbe nel training anche qualcuno che parlasse di Bateson, di
terapie di tipo sistemico e così via. Invece oggi con il patriottismo
delle singole scuole questo rischia di non esserci.
S.B. - Che tipo di reazione susciti tra i tuoi colleghi Spi con queste tue
affermazioni, anche pubbliche, sulla stampa?
E.F. - Dipende. Per alcuni probabilmente sono, o ero, come il fumo negli
occhi. Per altri no: questi si rendono conto dei problemi e delle
situazioni di cui ho parlato e nutrono stima, anche amicizia, per me. Non
mi sembra che ci sia ostilità diffusa nella Spi nei miei confronti. Certo
c'è una differenza «istituzionale». lo provoco l'istituzione e quindi
è legittimo che ci siano reazioni da parte dell'istituzione. Ma non mi
interessa il «lungo viaggio» attraverso le istituzioni, di cui parlava
Rudi Dutschke nel '68, per mutarle; e neppure mi ha mai convinto l'idea,
peraltro appassionante, di una nuova istituzione, radicalmente diversa, da
fondare. Ogni gruppo rivela, presto o tardi, problemi difficili e
soprattutto invischianti. In fondo, credo soltanto a ciò che si può
ottenere, alla lunga, con l'intelligenza personale, con il proprio minimo
personale. Questo sarà eventualmente raccolto da sconosciuti inaspettati.
I raggruppamenti vengono sempre dopo! È necessario evitare l'ostracismo
altrui e insieme le proprie tendenze alla chiusura, all'autoesclusione.
Evitare il settarismo altrui e quello proprio. L'astuzia galileiana vista
da Brecht, se vuoi. Di fronte a questa chiesa psicanalitica così sicura
di se stessa...
S.B. - Fa parte della sua sicurezza il fatto che la Società di
psicoanalisi abbia spostato di 180° la sua posizione sulla legge Ossicini
[nel 1987]? Prima l'ha appoggiata, poi, quando ha rischiato di passare, ha
tenuto a dire che non vuole essere riconosciuta come scuola di formazione
nei termini della proposta Ossicini.
E.F. - Ha cambiato posizione perché non aveva più interesse a inserirsi
in quel meccanismo di legge. Prima, negli anni '70 e nei primi anni '80,
si è sentita minacciata dall'esterno - dai lacaniani in primo luogo,
persino da Verdiglione! Da qui l'idea di farsi mettere un timbro
addirittura statale sulla formazio-ne, per garantirsi.
A un certo punto l'istituzione si è accorta che, mutato il clima
culturale generale, essa rimaneva al centro della nebu-losa
psicoterapeutica, e non aveva quindi bisogno di ricono-scimento statale. E
così è riemersa la posizione di fondo del movimento psicanalitico dal
tempo di Freud: «Noi psicanali-sti dobbiamo rimanere in una posizione
libera, indipendente dallo stato». Ma la giravolta è stata troppo
evidente. Col tempo, gli analisti a capo della Spi si sono resi conto che
il lacanismo, in Italia, così inquietante e minaccioso all'inizio, si è
rivelato dal punto di vista istituzionale un movimento debole,
frammentato, che non poteva certo fare concorrenza alla solida struttura
Spi e all'attrattiva che essa esercita.
S.B. - Ma questa debolezza del lacanismo in Italia non è dovuta proprio
al fatto che è rimasto un composto fluido? Che l'istituzione «École
freudienne» sia stata soft è dimostrato proprio dal suo scioglimento
finale ad opera dello stesso Lacan.
E.F. - Non credo che l’École freudienne sia stata un'istituzione soft -
ci sono testimonianze in contrasto con quanto dici, vedi per esempio
l'espulsione di Luce Irigaray e le ripetute «epurazioni» interne. Ma in
ogni caso si è trattato di una vera e propria istituzione, con
caratteristiche diverse da quella ortodossa, e però con un suo peso e un
suo destino istituzionale.
Lacan volle, come Freud, fondare una sua propria istituzione. Ho
conosciuto Lacan personalmente nel 1965, prima che egli diventasse Lacan,
per così dire, il Gran Maestro universalmente noto, prima che uscissero
gli Écríts. Seguivo da alcuni anni ciò che scriveva sulla rivista La
psychanalise e altrove. Erano saggi che bisognava andare a cercare, ed
egli era per me un vero maestro segreto, come per altri pochi in Italia,
credo, e di questi conoscevo Michel David, Andrea Zanzotto e Michele
Ranchetti, ma per nessuno psicanalista (ricordo il disprezzo di Fornari,
quando gli accennai a questa mia scoperta). Ebbene, quando lo incontrai
personalmente a Parigi, egli insistette subito sulla necessità di farsi
un'école sua, di farsi dei disciples. Mi permisi di dirgli apertamente
che non vedevo questa necessità. Prenda il caso mio, gli dissi. lo sono
venuto da lei attraverso certi suoi testi, la considero un mio maestro e
forse addirittura il mio maestro. Ma quando lei parla di un’école,
subito mi sento davanti a una prospettiva che non mi va. Così facendo lei
ripete l'errore di Freud. Ma Lacan evidentemente era sordo a questo
discorso.
Oggi però mi chiedo se la dissoluzione generale dell'école che egli ha
pronunciato alla fine - questo gesto ammirevole e nello stesso tempo del
tutto vano - non sia nato proprio dalla consapevolezza di questo errore.
L’errore di aver creduto che il suo discorso, il testo Lacan, avesse
bisogno di un supporto istituzionale. Un supporto che in fin dei conti,
nel bel mezzo di una marea di lacaniani, nel pieno del successo, di fatto
lo isolava, limitava le sue possibilità di comunicazione. Per usare una
sua definizione, la parola piena diventava, attraverso il salmodiare
lacaniano dell’istituzione, una parola vuota.
La debolezza del lacanismo in Italia può quindi essere legata, come dici
tu, anche al fatto di non essere un'istituzione come la Spi, di essere più
fluida. Ma da un altro punto di vista, questa debolezza poteva essere una
forza. Poteva essere il nucleo di un'irradiazione a tutto il resto, purché
il lacanismo si fosse presentato come un nucleo di ricerca, una punta
viva. C'è stato invece il conato di costruire un'istituzione, e questo
direttamente per iniziativa di Lacan; ma diventando un'istituzione,
appariva subito perdente rispetto alla Spi.
S.B. - Che cosa pensi della sua idea della passe?
E.F. - È stata una delle sue innovazioni più note e più controverse e
nello stesso tempo, mi pare, è rimasto un oggetto misterioso per chi non
fa parte direttamente dì un gruppo lacaniano. Quest'innovazione trovava
il suo punto forte nel mettere al centro il momento di passaggio alla
posizione di analista, che è un momento chiave dell'analisi. Lacan ha
cercato di legare questo momento personale, autonomo, che è un movimento
reale, alle esigenze dell'istituzione, vista come garante dell'autenticità
di questo passaggio. Per raggiungere quest'obiettivo, ha inventato la
figura di un testimone, il passeur (che in italiano si potrebbe tradurre
con passatore o traghettatore, se questo termine non evocasse in primo
luogo la figura di un bandito molto noto), insomma un testimone dell'école
al quale chi vuole essere accettato come membro dell'école, cioè il
passant, il passante, deve parlare della propria analisi. Il passeur si
trova nella stessa posizione del passant, cioè in posizione di passe e
deve riferire al jury d'agrément, cioè alla commissione di accettazione,
di quanto ha sentito, dopo di che il jury decide se accettare o meno il
passant.
Questo mi pare lo schema originario di Lacan, che suscitò subito una
frattura nel gruppo e si risolse, secondo Lacan stesso, in una impasse. In
sostanza Lacan si proponeva di distanziare istituzione e candidato
attraverso la creazione di una figura intermedia - si potrebbe dire una
figura di fratello, al quale spetta il peso di testimoniare per procura
sull'attendibilità della richiesta fatta e dal quale dipende quindi in
buona parte la responsabilità della decisione finale, anche se non fa
parte del collegio giudicante (il jury).
La soluzione escogitata da Lacan ha una meta condivisibile - evitare la
cooptazione paternalistica e burocratica insieme delle società freudiane
- ma nello stesso tempo non risolve affatto il problema del peso della
società accogliente, che diventa ancora più incombente e onnipresente
attraverso la figura ambigua del passeur. Questi infatti ha in sé i
connotati indecisi, e forse indecidibili, del testimone per la verità,
del testimone a favore del reo e del «testimone della corona», per usare
termini giudiziari. Per non parlare della rottura della riservatezza
analitica che si viene a compiere attraverso questo parlare della propria
analisi a un estraneo e delle conseguenze che questo ha nei rapporti tra
le varie figure dì «fratelli» in fase di passe. È un procedimento
confusivo, che rischia di creare un certo tipo di società perversa, in
cui assumono enorme importanza le dicerie circolanti... un po' come nella
repubblica di Venezia al tempo delle accuse anonime.
In effetti Lacan si accorse dello scacco e lo dichiarò apertamente. E
forse anche da questa consapevolezza nacque la decisione di sciogliere l'école
stessa. In ogni caso, non conosco finora un resoconto completo e
circostanziato dell'esperienza. Moustapha Safouan imputa lo scacco a una
deficienza fattuale dell'école, fondata sul carisma del leader e divenuta
in breve una società di massa. Non credo a questa spiegazione, che
intende salvare a ogni costo la proposta di Lacan contro Lacan stesso.
Credo che lo scacco fosse implicito nella proposta originaria, come
notarono subito i dissenzienti.
Per tornare all'Italia, ho l'impressione che una difficoltà del lacanismo
sia stata legata allo sforzo pervicace di Lacan stesso, di amalgamare in
una sua società persone molto diverse tra loro, come per esempio Giacomo
Contri e Armando Verdiglione. Una volta ho detto a Contri che Verdiglione
era il suo coboldo, un diavoletto ribaldo antitetico alla sua figura
ascetica… Insomma persone assolutamente diverse.
S.B. - Lacan propose nel 1975 un «tripode», come lui lo definì, che
comprendeva suoi analizzanti. E cioè Verdiglione, Muriel Drazien e
Giacomo Contri. Tre suoi analizzanti che avevano formato un gruppo di
seguaci attorno a loro. Eppure in un primo tempo lui pensò proprio a te,
che pure non avevi avuto nessun rapporto analitico con lui, come a un
punto di riferimento privilegiato.
La cosa mi stupì sin da allora: anche pubblicamente tu allora eri noto
per le tue prese di posizione anti-istituzionali, fosti molto duro nel
dire «perché formare un 'istituzione?». Ebbene, viene a chiedere
proprio a te di diventare il perno di una nuova istituzione! Mi chiedo
allora se in questa richiesta a te non trasparisse come un'ambivalenza da
parte di Lacan: da una parte fondare un'istituzione, dall'altra parte
distruggerla.
E.F. - L'istanza contraddittoria si è rivelata alla fine, all'atto della
dissoluzione della sua scuola; forse è stata una rivelazione enorme anche
per Lacan... Ma nelle sue venute in Italia certo egli non le manifestava.
Voleva fortissimamente la sua scuola in Italia; e voleva fermamente che io
ne facessi parte. Per raggiungere questo obiettivo, egli trascurava
completamente le mie obiezioni, che dal suo punto di vista istituzionale
gli apparivano marginali; o che comprendeva, ma nei confronti di un'altra
istituzione, non della sua... C'era ovviamente in Lacan un tratto
dispotico, che i membri dell'école hanno provato sulla loro pelle, e di
cui molti portano ancora le tracce. La sua contraddizione consisteva nel
fatto che, pur avendo parlato in modo straordinariamente lucido
dell'analista come soggetto supposto sapere, nel momento in cui dirigeva
la sua scuola e dispensava il suo insegnamento lui era il sapere, anzi
l'unico assoluto sapere, e lo affermava orgogliosamente.
S.B. - Mi sembri comunque tuttora molto interessato alla storia del
lacanismo, pur senza essere stato seguace di Lacan.
E.F. - Ma bastava leggere dieci righe di Lacan per accorgersi che egli
volava alto - o altrove... - rispetto alla maggioranza degli analisti
contemporanei! La sua idea di fondare la psicanalisi come scienza del
significante era certo parziale, perché tagliava fuori per sua esplicita
ammissione una parte notevole di quel che succede in analisi, ma era
un'idea nuova, originale, trainante. Lacan è un testo - complicato,
barocco... - anzi, curiosamente, a distanza, mi sembra una sorta di poema
fantastico come in musica c'è Berlioz... un poema che pesca in ogni punto
della cultura... è strano quest'effetto, per un uomo che tutta la vita ha
cercato di fondare una scienza rigorosa. In ogni caso, è questo testo o
poema che mi ha sempre interessato in Lacan - molto più dei suoi tripodi
e delle sue società. La sua invenzione della passe mi è sembrata, vista
da fuori, una provocazione nei confronti delle società freudiane, di
Freud stesso se vuoi, e insieme la rivelazione su scala enorme, e quindi
buffa, di un suo personale aspetto sadiano. «Psychanalistes, encore un
effort pour être vraiment…» Che cosa? Mah, è uno degli scherzi che
Lacan ci ha giocato.
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