DONNE NELLA RESISTENZA ITALIANA |
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N. 4653 donne furono arrestate, condannate a morte e torturate. - N. 2750 donne furono deportate nei campi di sterminio nazisti, le sopravvissute solo il 4% a guerra finita. - N. 2000 donne cadute in combattimento o fucilate alla cattura. - N. 18 donne decorate con medaglia d’oro al valore militare.
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LE DONNE NELLA RESISTENZA Le donne ebbero un ruolo molto importante nella Resistenza: si
distinsero per coraggio e talvolta per astuzia, e si dimostrarono una
spalla importantissima per le organizzazioni partigiane. Esse entrarono
nella Resistenza per varie ragioni: per ideali politici nettamente
contrapposti al fascismo, per aiutare parenti o amici facenti parte delle
bande partigiane, oppure per contribuire al ritorno della giustizia; in
ogni caso furono attive su più fronti: nelle città (dove prendevano
parte perlopiù alla Resistenza politica e civile), nelle campagne e
soprattutto nei paesi di montagna (in qualità di “staffette”). Le
donne che aderirono alla Resistenza civile, soprattutto nelle città,
facevano parte - o comunque avevano il sostegno - di organizzazioni come i
GAP (Gruppi di Azione Patriottica, che
si occupavano di sabotaggio, guerriglia e propaganda politica con
volantinaggio e distribuzione di giornali censurati dal regime), e le SAP
(Squadre di Azione Patriottica, che cercavano di raccogliere soprattutto
all’interno delle fabbriche il maggior numero di consensi a favore dei
movimenti resistenti); esse organizzavano scioperi e manifestazioni contro
il fascismo proprio in quelle fabbriche nelle quali lavoravano al posto
degli uomini impegnati in guerra o nella Resistenza. Inoltre diedero vita ai “Gruppi di Difesa della Donna”,
occupandosi di garantire i diritti delle donne (diventate ormai – di
fatto - capifamiglia, poiché i
loro mariti erano arruolati nell’esercito oppure facevano parte della
Resistenza e dunque erano nelle formazioni partigiane in montagna) e dei
loro bambini; racconta Nelia Bessone Costa
(“Vittoria”), attiva nella Resistenza civile e politica a Torino dal
1938 fino alla fine della guerra: «[…] ho organizzato una
manifestazione di protesta ai docks Dora (grandi magazzini a Torino). Le
donne non avevano più avuto distribuzioni di riso, di pasta, di zucchero
da un mese […]»[1]. Fu
molto importante, poi, il ruolo delle donne nella raccolta di indumenti,
cibo, medicinali e informazioni: tutto veniva fatto arrivare - grazie ad
una organizzazione capillare - alle staffette, le quali poi raggiungevano
in montagna i partigiani. Questo, tuttavia, non era l’unico modo per
dare un contributo alla Resistenza civile; infatti, soprattutto nelle
campagne e nei luoghi più accessibili ai partigiani, le donne mettevano a
disposizione le loro case per fornire un nascondiglio ai feriti o ai
convalescenti e per assicurare loro un pasto. Irene Baral, residente a
Inverso Pinasca, sorella di una staffetta (Alma Baral), e impegnata
attivamente nell’aiuto ai partigiani, racconta: «Io avevo spesso trenta
o trentacinque partigiani a casa mia; davo da mangiare e aiuto a tutti, ma
non era facile, perché più di una volta i tedeschi hanno perquisito casa
mia; tuttavia ho sempre sostenuto la causa della Resistenza perché avevo
mio fratello e mio cognato in una formazione partigiana, e mia sorella era
staffetta»[2]. La
staffetta aveva il compito di tenere i contatti fra le diverse brigate, o
fra i partigiani nelle formazioni e le loro famiglie; ma molto spesso portava anche munizioni e armi che si procurava
grazie al disarmo di alcuni tedeschi, o che riusciva ad ottenere grazie a
collegamenti clandestini con chi militava nelle città. Quando godeva di particolare fiducia da parte dei capi partigiani,
la staffetta aveva anche l’importantissimo compito di reclutare e
accompagnare in formazione i potenziali resistenti (che non di rado erano
fascisti “sbandati” o addirittura tedeschi). All’interno della
brigata, poi, aveva ancora altri compiti: era l’amica, per il sostegno e
la disponibilità che dava ai partigiani, ma soprattutto era
l’infermiera; teneva infatti i contatti con il medico e con il
farmacista del paese più vicino e tentava di procurarsi il necessario per
curare i pidocchi e la scabbia (che molto spesso erano un vero flagello
per i partigiani) o le ferite procurate in battaglia. Denyse Baral, residente a Inverso Pinasca e staffetta
“supplente” della I Divisione Autonoma
Alpina Val Chisone, nella brigata “Marcellin” di Pragelato e
Sestriere, ricorda di esser andata con una compagna da Gran Dubbione
a Bout du Col in bicicletta per curare un partigiano ferito. Le
staffette, di norma, non erano armate, per evitare di essere identificate
e arrestate nel corso di un’eventuale perquisizione; anzi, erano vestite
in modo comune il più comune possibile, ed erano spesso fornite
di una borsa col doppio fondo per poter nascondere al meglio il
materiale che portavano con sé. Il loro primo obbiettivo era quello di
passare inosservate dinnanzi ai posti di blocco tedeschi; Denyse Baral
dice: «I tedeschi ci conoscevano già, però spesso chiudevano un occhio!
Ci lasciavano passare; abbiamo avuto molta, molta fortuna! Ma il segreto
era non dar troppo nell’occhio, comportarsi normalmente, non scappare
mai, non mostrarsi mai nervose dinnanzi ai tedeschi»[3].
Tuttavia, alcune staffette decisero di armarsi
(alcune addirittura combattendo alla stregua dei partigiani, ma queste
furono poche rispetto al totale: mediamente una su cento): un esempio è
l’inversina Carlotta Genre, che tutte le staffette e resistenti civili
ricordano per coraggio e astuzia; in particolare, Denyse Baral dice: «Carlotta
(ormai morta), staffetta attiva soprattutto fra Inverso, Pramollo e San
Germano Chisone, era armata fino ai denti, e si è distinta in più di
un’occasione, mettendo a repentaglio la propria vita per salvare il
maggior numero di partigiani dalle retate tedesche». Irene Baral dice
ancora di lei: “Carlotta ha combattuto come un uomo, a volte anche di più”. La
figura della staffetta fu
molto rispettata, soprattutto all’interno delle formazioni, poiché si
riconosceva l’importanza del lavoro che essa svolgeva; la donna che
decideva di fare la staffetta era animata da un forte sentimento di
giustizia, da una grande forza d’animo, e da un grande coraggio che la
spingeva ad anteporre alle proprie esigenze personali quelle della causa
per la quale combatteva con tutti i propri mezzi. Irene Baral ricorda
Viola Lageard e dice: «Viola faceva la staffetta di mestiere;
andava dappertutto, ovunque ci fosse bisogno di lei! Si occupava dei
contatti di due vallate: la Val Chisone e la Val Germanasca». In effetti
Viola Lageard aveva compiti piuttosto importanti e ampi: si occupava, tra
le altre cose, anche di mantenere la corrispondenza fra la brigata “Val
di Dora” (della Valle di Susa), il comando della Val Chisone e il
Comando Militare Regionale Piemontese (C.M.R.P.), che aveva sede a Torino.
Il suo nome di battaglia era “Rosa”. In merito a questa sua attività
si dice: «Il viaggio era quasi sempre difficile: occorreva un
lasciapassare tedesco per giungere a Bussoleno, e Viola ne aveva uno falso
come impiegata del Cotonificio Valle Susa»[4]. Non
fu facile, soprattutto per le donne, entrare a far parte della Resistenza:
tante erano le responsabilità, tanti i doveri, ma tanti anche gli
obbiettivi; eppure, molte donne decisero di dedicare le loro forze, oltre
che ai normali doveri di madri e mogli, a una causa superiore, che mise in
luce la loro importanza all’interno della società. Proprio con la
Resistenza le donne si sono rivelate la “spalla” irrinunciabile per
gli uomini; in circa 35.000 - soltanto in Italia - hanno dato vita a “una
Resistenza davvero sofferta e taciuta”[5]. FONTI: - Anna BRAVO, Anna FOA,
Lucetta SCARAFFIA, I nuovi fili
della memoria 3. Uomini e donne nella storia dal 1900 ad oggi,
Roma-Bari, Laterza, 2003. - Anna Maria BRUZZONE,
Rachele FARINA, La Resistenza
Taciuta: dodici vite di partigiane piemontesi, Torino, Bollati
Boringhieri, 2003 (1^ ed. 1976). - Angela TRABUCCO, Resistenza
in Val Chisone e nel Pinerolese, Pinerolo, 1984, 333 p. - Colloqui con le signore
Denyse Baral e Irene Baral residenti a Inverso Pinasca (16 febbraio 2006). - Montoso – 45 anni dopo. Il prezzo della libertà e della pace, a
cura di Maria Airaudo, Bagnolo Piemonte, 1990, pp. 199-201. [1]
La Resistenza taciuta: dodici
vite di partigiane piemontesi, a
cura di Annamaria Bruzzone e Rachele Farina, Torino,
Bollati Boringhieri, 2003 (1^ ed. 1976), p. 40. [2]
Testimonianza orale raccolta nel corso di una mia intervista alla
signora Irene il 16 febbraio 2006 a Inverso Pinasca. [3]
Testimonianza orale raccolta nel corso di una mia intervista alla
signora Denyse, il 16 febbraio 2006 a Inverso Pinasca. [4] Angela TRABUCCO, Resistenza in Val Chisone e nel Pinerolese, Pinerolo, 1984, p. 250. [5] La Resistenza taciuta, cit., presentazione del libro. |