Danilo Montaldi (Cremona, 1 luglio 1929 – 27 aprile 1975) è stato uno scrittore, saggista e politico italiano. Partecipa sin da giovane alla vita politica locale.
Nel 1944 entra nel Fronte della Gioventù, organizzazione promossa dai comunisti, e partecipa alla guerra di liberazione svolgendo attività di propaganda clandestina. Alla fine della guerra si iscrive al PCI, ma già nel 1946, in disaccordo con la politica di unità nazionale, esce dal partito. Da questo momento Montaldi intraprende un percorso che lo porterà, nel corso degli anni successivi, a entrare in collegamento con numerosi gruppi della sinistra radicale internazionale – tra gli altri, il Partito comunista internazionalista, il gruppo francese di Socialisme ou Barbarie, l’olandese Spartakus – con i quali collaborerà intensamente, pur senza mai aderirvi. Nel 1957 fonda a Cremona, insieme ad alcuni amici, il Gruppo di Unità Proletaria, che si propone di svolgere attività di propaganda e agitazione socialista rivoluzionaria nella provincia.
Frattanto Montaldi, che nel 1946 aveva abbandonato il liceo, era venuto sviluppando interessi intellettuali originali, all’incrocio tra storiografia, sociologia e politica. Aveva inoltre cominciato a collaborare con alcune delle principali riviste – «Discussioni», «Nuovi Argomenti», «Ragionamenti», «Opinione», «Passato e Presente» – che, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, diedero voce alle istanze di libertà e di rinnovamento della cultura italiana di sinistra in polemica con quelle che venivano considerate le degenerazioni della cultura di partito. Tali collaborazioni porteranno Montaldi a intrecciare rapporti con gli intellettuali più impegnati nel dibattito politico e culturale che animava allora la sinistra.
A partire dagli anni Sessanta Montaldi comincia a lavorare sia come consulente sia come traduttore per alcune case editrici: Einaudi, Rizzoli, Mondadori, Il Saggiatore, ma soprattutto Feltrinelli, presso cui lavorerà anche come redattore nel 1962-63. In questo periodo egli ha modo di approfondire la conoscenza di Giangiacomo Feltrinelli, con cui collaborerà strettamente negli anni successivi a progetti di carattere politico. Sarà proprio la casa editrice Feltrinelli a pubblicare nel 1960 il primo libro di Montaldi, Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati, scritto in collaborazione con Franco Alasia. Il volume raccoglieva e commentava una serie di testimonianze di immigrati a Milano, portando l’attenzione sul fenomeno dell’immigrazione, all’epoca ancora poco studiato.
Anche i due successivi libri di Montaldi saranno imperniati sulla raccolta di storie di vita, campo in cui il lavoro di Montaldi può essere considerato pionieristico. Autobiografie della leggera (Torino, Einaudi, 1961) e Militanti politici di base (Torino, Einaudi, 1970) rappresentavano i primi due capitoli, dedicati rispettivamente a vagabondi e ladri e ai militanti politici, di un’ampia inchiesta sulla cultura degli strati subalterni nella Bassa padana. Al terzo capitolo, che avrebbe dovuto riguardare la vita dei contadini, Montaldi stava lavorando quando morì prematuramente il 27 aprile 1975. Postumi saranno pubblicati: Korsch e i comunisti italiani. Contro un facile spirito di assimilazione, Roma, Samonà e Savelli, 1975 e Saggio sulla politica comunista in Italia (1919-1970) (Piacenza, Edizioni Quaderni piacentini, 1976). Nel 1994 è stato pubblicato il volume Bisogna sognare. Scritti 1952-1975, che raccoglie gli articoli pubblicati su riviste e giornali e alcuni inediti.
Vanno ricordati, infine, gli interessi di Montaldi per l’arte, alimentati dalla assidua frequentazione, negli anni milanesi, degli artisti della nuova generazione di Brera. Nel 1965, con alcuni amici, apre a Cremona la galleria d’arte Renzo Botti, ove, per oltre un decennio, verranno presentate al pubblico cremonese alcune tra le più significative proposte dell’arte sia italiana sia straniera
Il significato dei fatti di
luglio 60 a Genova
di Danilo Montaldi
[…] I fatti di luglio sono stati giudicati da buona parte della
stampa nazionale come “un tentativo rivoluzionario da parte di
teddy-boys e di masse esasperate” e questa opinione è stata ripresa
anche da certi “uomini di sinistra” preoccupati che non venisse loro
attribuita la responsabilità degli avvenimenti, dato che veniva
orchestrata la campagna come se si fosse trattato di un tentativo di colpo
di Stato comunista.
I fatti di luglio non sono stati “un tentativo rivoluzionario”; sono
stati un’azione di difesa, ma svoltasi questa volta su un piano di
classe. A Genova i giovani, i lavoratori, hanno inteso difendersi con i
propri mezzi, con i propri metodi, non hanno questa volta delegato
nessuno, hanno applaudito i discorsi dei dirigenti politici quando questi
hanno parlato di lotta; ma nello stesso tempo non hanno aspettato che
arrivasse l’ordine dall’alto (che non sarebbe arrivato, come non è
arrivato); hanno stabilito nell’azione una propria, profonda unità; e
hanno tratto, infine, un insegnamento dall’azione condotta.
Si è parlato quindi di teddy-boys e di masse esasperate. Ma anche questo
è un giudizio interessato. I ragazzi di Genova che hanno bruciato le
camionette della Celere erano dei giovani che sanno quello che fanno; sono
operai e studenti che hanno maturato un profondo disprezzo nei confronti
del potere che grava su ogni momento della loro vita di giovani.
I fatti di luglio sono la prima manifestazione di classe della nuova
generazione cresciuta nel clima del dopoguerra: da parte della classe
dirigente non sono stati risparmiati mezzi perché i giovani rimanessero
imbrigliati nel sistema, ma i fatti di luglio hanno dimostrato che i
giovani rifiutano questo sistema.
Sempre, da parte borghese e opportunista, quando avvengono fatti di piazza
si parla di “masse esasperate”. I borghesi per ovvie ragioni; e gli
opportunisti lo fanno per semplificare, così, il problema, e per
dimostrare che senza la loro guida illuminata non si risolve niente. Ma i
lavoratori, se sono di qualcosa “esasperati” è di sentirsi trattati
nel lavoro, nella vita pubblica, nei partiti, nei sindacati, come gente
che va costantemente guidata. Questa volta hanno voluto guidare loro
stessi la lotta e l’hanno portata sul proprio piano, di classe.
Si sono mossi i lavoratori della Liguria, dell’Emilia, del Piemonte, i
lavoratori dell’area cosiddetta evoluta del Paese, dove ugualmente il
potere borghese non si è risparmiato in 15 anni per intralciare l’urto
di classe del proletariato; entro quest’area il livello di vita dei
lavoratori, grazie alle lotte passate, è piuttosto elevato nei confronti
del resto [del territorio] nazionale, ed è in quest’area che viene
praticata la politica del neocapitalismo tendente a risolvere la lotta di
classe in termini di consumo e di benessere. Entro quest’area ci sono
isole “privilegiate” dove tale politica ha funzionato per anni;
tuttavia è stato proprio da quelle isole che è partita la risposta di
piazza. Non erano lavoratori, quelli scesi contro la polizia nelle
giornate tra giugno e luglio, esasperati dalla fame e dalla miseria; non
erano lavoratori in preda all’elementare bisogno del pane; sono operai
industriali, cui il lavoro non manca, i quali hanno dimostrato che quando
cessa la fame e la miseria non cessano i motivi per mettersi contro
l’attuale società, le classi che la governano, e la polizia che la
difende.
Situata dunque su questo terreno, la difesa dei lavoratori e dei giovani
che ha avuto inizio da Genova è stata in Italia la manifestazione
politica più notevole degli ultimi anni proprio per le modalità nelle
quali si è svolta e per le qualità classiste dei suoi protagonisti: i
lavoratori delle zone industriali.
Ai fatti di luglio la borghesia nazionale, che già cantava da anni
vittoria contro una classe operaia che si sarebbe appagata di alti salari,
frigoriferi e ferie pagate, ai fatti di luglio la “generosa” borghesia
nazionale ha reagito facendo sparare sui lavoratori. Ai fatti di luglio
gli opportunisti, che in nome del “progresso raggiunto” escludevano
che si potesse ancora ricorrere all’agitazione di piazza e cercavano di
convincere tutti che soltanto in Parlamento possono essere condotte azioni
efficaci, ai fatti di luglio gli opportunisti hanno reagito cercando di
diminuire la portata degli avvenimenti affinché non gliene venisse
attribuita la responsabilità.
Nei fatti di luglio i lavoratori, i quali sanno perfettamente che non si dà
alcun progresso reale senza il loro diretto intervento sul terreno
sociale, i lavoratori hanno detto no non soltanto al potere borghese ma
anche agli opportunisti: a Genova è stata capovolta anche l’automobile
della Camera del Lavoro dalla quale si lanciavano appelli perché
l’azione venisse fermata, a Roma un burocrate del PCI che faceva opera
crumira di “convincimento” ne è uscito con la testa rotta, altrove si
sono verificati scontri tra lavoratori e sindacalisti che volevano
rimandare tutti a casa, dovunque l’interessata indecisione dei partiti
di sinistra e del sindacato è stata criticata dai lavoratori e dai
giovani.
Di tutti questi fatti va condotta un’analisi che possa liberarne
l’interno significato politico.
[da “Quaderni di unità proletaria”, Cremona, 1960]
tenuto il giorno 1.2.1992 presso il Centro Sociale Scaldasole di Milano
L'avventura politica, se così possiamo definirla, di Danilo Montaldi
inizia quando la Seconda Guerra Mondiale volge al termine. Io penso che,
in questo periodo, il giovane Montaldi sia stato coinvolto in quella
prospettiva palingenetica che era presente nelle lotte
"resistenziali".
Ma la delusione è sopravvenuta ben presto. La Resistenza non ha dato i
frutti sperati da molti, che vi avevano partecipato con convinzione,
abnegazione ed anche con eroismo. Lo stesso Montaldi in un articolo del
1953 ricorda, forse in senso autobiografico, che molti giovani avevano
allora sperato che l'ultima guerra fosse veramente l'ultima e che essa
rappresentasse il prologo della «vera rivoluzione».
Penso che Montaldi abbia subìto nell'immediato dopoguerra quel
ripensamento che è avvenuto in diversi militanti che avevano
partecipato alla Resistenza con lo spirito che ho detto. Non mi sembra
un caso che egli abbia dedicato uno studio ad una rivista pubblicata
nell'immediato dopoguerra - «La Verità» - i cui redattori avevano
partecipato ai moti resistenziali considerandoli potenzialmente positivi
per un mutamento sociale complessivo, ma che in seguito avevano subito
una delusione cocente per ciò che era sopravvenuto. E nella redazione
di questa rivista - occorre ricordarlo - vi era anche Claudio Pavone,
che recentemente ha cercato di rinverdire il dibattito sulla Resistenza
riallacciandosi, più o meno, a quelle tematiche.
Penso che in Montaldi sia avvenuto un ripensamento anche nei confronti
della politica condotta nel dopoguerra dal PCI, al quale rimase legato
fino al 1946.
In quel periodo il PCI era un partito di governo; condivideva le
responsabilità del potere con la DC e con tutti gli altri partiti che
si riconoscevano nell'arco democratico resistenziale. I suoi dirigenti
avevano anche assunto cariche ministeriali e di sottogoverno. Nonostante
ciò non furono moltissimi i militanti di sinistra e gli operai che se
ne allontanarono. Bene o male i lavoratori lo riconoscevano come il loro
rappresentante sebbene questo propugnasse apertamente la ricostruzione
del paese a spese della classe operaia e nonostante si comportasse nei
confronti del mondo del lavoro come un qualsiasi partito conservatore.
Vorrei ricordare che la politica del PCI si concretizzava nel favorire
il ritorno all'ordine nelle fabbriche, nello sblocco dei licenziamenti,
avvenuto agli inizi del 1946, e nella repressione che si abbattè sui
lavoratori che confusamente cercavano di difendere le proprie condizioni
di vita. Vorrei ricordare, per chiarire meglio quale fosse
l'atteggiamento del PCI verso coloro che scendevano nelle piazze per
difendere l'occupazione o per reclamare un lavoro, una circolare che
Togliatti inviò ai magistrati, nella veste di Ministro di Grazia e
Giustizia, nella quale li invitava ad esercitare «una pronta ed
esemplare repressione» nei confronti dei lavoratori o dei disoccupati
arrestati in manifestazioni di piazza.
Il PCI in pratica condivideva il potere e continuò, paradossalmente, a
condividerlo anche dopo il 1948, cioé dall'opposizione, attraverso il
controllo della classe operaia. Le lotte che intraprese o che appoggiò
dopo la sua estromissione dal governo furono lotte inserite in un
contesto che tendeva a rafforzare non la classe operaia ma il PCI stesso
e a soffocare qualsiasi possibilità di lotte veramente alternative ed
indipendenti.
Era più che naturale che Montaldi comprendesse ben presto la natura di
questo partito e se allontanasse. Ed era anche naturale che cercasse una
alternativa tra le minoranze presenti allora in Italia.
In quel periodo le minoranze rivoluzionarie, o almeno che si
pretendevano tali, erano ridotte a sparute pattuglie. Vi erano gli
anarchici, i trotskysti e i comunisti internazionalisti. I primi, che
avevano avuto un certo seguito nel primo dopoguerra, erano ormai ridotti
a piccoli gruppi il cui centro propulsore si trovava a Carrara. Essi,
sempre fedeli a se stessi, riproponevano il loro bagaglio storico che li
aveva caratterizzati da sempre: il rifiuto del lavoro politico e la
lotta sindacale, che molti di loro filtravano attraverso la CGIL. Ma
anche all'interno del movimento anarchico iniziò a serpeggiare la
contestazione verso l'"ortodossia". Vi fu chi si allontanò da
destra, finendo poi nel neonato partito socialdemocratico, e chi si
orientò verso sinistra, cercando di superare lo storico rifiuto
dell'organizzazione politica. Questi ultimi li rincontreremo
successivamente perché muteranno la loro posizione politica, diventando
marxisti, ma anche perchè parteciperanno ad un tentativo di
accorpamento dei gruppi della sinistra comunista a cui Montaldi presterà
una certa attenzione.
Le vicissitudini dei trotskysti italiani sono abbastanza note. La
maggior parte di loro si formò all'interno delle file della
socialdemocrazia e costituirono la sezione ufficiale italiana della IV
Internazionale solo nel 1948.
Il Partito Comunista Internazionalista si era costituito invece nel
corso della guerra, all'incirca nel 1942-43, sulle medesime basi
programmatiche del vecchio PCd'I, fondato a Livorno nel 1921, a cui si
aggiunse l'esperienza della lotta antistalinista condotta dalla sinistra
negli anni venti e trenta. Ciò che lo caratterizzava, al di là
dell'intransigenza nella difesa delle condizioni di vita degli operai,
era il netto rifiuto dell'esperienza della cosidetta costruzione del
socialismo in Russia, che esso giudicava come la realizzazione di una
società di tipo capitalista, nella forma del capitalismo di stato.
Montaldi si avvicina a quest'ultimo movimento, probabilmente favorito
dalla presenza a Cremona di una sezione del Partiro Comunista
Internaziuonalista. Lavora con dei vecchi militanti che avevano
partecipato alla fondazione del PCd'I nel 1921 o che avevano subìto le
persecuzioni fasciste e che erano stati costretti ad emigrare
all'estero. Da essi inizia a conoscere le tappe che avevano scandito la
degenerazione della rivoluzione russa e senz'altro comprende che il PCI
non può essere giudicato per questo o quel fatto isolato ma deve essere
considerato per la sua politica complessiva e nella sua evoluzione
storica. E questa storia era, in ogni caso, parallela alla dinamica
della rivoluzione russa e della sua involuzione.
Oggi possiamo guardare con una certa sufficienza ciò che è accaduto
all'Est e respingere tranquillamente l'esperienza del
"socialismo" russo come un'esperienza che non riguarda il
socialismo, ma occorre ricordare che allora, e per diversi anni ancora,
moltissimi erano attratti dal mito sovietico, che influenzava non solo
coloro che si richiamavano direttamente alla politica del PCI ma anche
vasti strati della popolazione operaia.
Nel P.C. Internazionalista, al quale Montaldi pur non iscrivendosi
collabora attivamente, acquisisce un retroterra politico e culturale che
non abbandonerà mai, anche quando se ne allontanerà per divergenze che
riguardavano fondamentalmente il lavoro nei confronti della classe
operaia e la concezione del partito.
Ma vi è un altro movimento politico che ad un certo momento entra
nell'orbita di Montaldi e dal quale egli è molto attratto. Mi riferisco
a Socialisme ou Barbarie. Si è cercato di sottovalutare questa
influenza, sostenendo che esso fu solamente uno dei tanti movimenti a
cui Montaldi prestava attenzione, ma a mio avviso essa fu molto
importante sia riguardo alla concezione del partito che svilupperà in
seguito che al suo modo di rapportarsi alla classe operaia.
Questo movimento era nato all'interno dell'opposizione trotskysta
francese nell'immediato dopoguerra e si era reso autonomo da essa nel
1949 respingendone l'approccio verso lo stalinismo e verso la natura
sociale della Russia. Le divergenze con il trotskysmo non erano di poco
conto in quanto se per i trotskysti l'Urss fondamentalmente
rappresentava una società che aveva superato il capitalismo e si era
incamminata verso il socialismo, per Socialisme ou Barbarie invece la
natura di questo stato era capitalista, anche se vi individuava una
peculiarità rappresentata dalla forma assunta dalla classe dominante
che veniva identificata, a mio avviso un po' semplicisticamente, nella
burocrazia. La burocrazia era però, per Socialisme ou Barbarie, una
forma sociale nuova che non era solo una caratteristica dell'Unione
Sovietica, ma si estendeva, con gradazioni diverse, a tutto il sistema
capitalista.
Ne discendeva quindi una analisi del capitalismo in parte nuova in
quanto alcune sue caratteristiche si erano modificate. Il capitalismo,
per Socialisme ou Barbarie, attraverso l'intervento
"burocratico" dello Stato, sarebbe stato in grado di superare
alcune delle contraddizioni che lo avevano attanagliato nel passato, in
particolare esso era riuscito ad eliminare le crisi economiche. Quanto
sia fallace questa analisi lo ha dimostrato la realtà in seguito.
Comunque, il ripensamento di Socialisme ou Barbarie ben presto andò
oltre la problematica della natura della Russia e si estese anche al
problema della concezione del partito della classe operaia e alla sua
formazione.
E' proprio grazie all'influenza di Socialisme ou Barbarie che Montaldi
inizia a riflettere sul problema del partito, o meglio, come si diceva
allora, sull'organizzazione della classe.
Egli pensa alla formazione di un'organizzazione basata sull'attività
politica cosciente dei rivoluzionari, dentro le esperienze di lotta, di
vita, di rapporti sociali con la classe.
L'elaborazione della teoria del partito viene intesa come sintesi del
momento pratico, attivo, cosciente e antagonistico dell'esperienza
diretta proletaria. Montaldi dirà che gli aderenti a questo partito
devono essere dei militanti organici non al partito, ma alla classe.
Da qui il suo rifiuto di quello che solitamente viene definito
"attendismo" bordighiano che vede il partito formale, cioè il
partito concreto, formarsi solo in determinati momenti storici di crisi
sociale.
Da queste premesse comprendiamo anche perché, in seguito alla scissione
del Partito Comunista Internazionalista, avvenuta nel 1951-52, egli
scieglie di seguire il filone di Battaglia Comunista il quale, tra le
divergenze con il bordighismo, fa emergere la necessità di sviluparre
il partito in costante rapporto con le lotte operaie.
Egli, da questo momento, e in particolare dal 1953, collabora
attivamente alla stampa del Partito Comunista Internazionalista,
intervenendo sui suoi organi «Battaglia Comunista» e «Prometeo».
E' proprio attraverso Battaglia Comunista che cominciamo a vedere
emergere in Montaldi l'interesse per la ricerca della effettiva
situazione dei lavoratori. Egli dapprima traduce uno scritto di Paul
Romano sull'operaio americano - non a caso già apparso su Socialisme ou
Barbarie - apponendovi anche un'introduzione dove egli sottolinea che è
nel processo della produzione che si forma la coscienza dello
sfruttamento, si sviluppa sia la solidarietà di classe che la coscienza
della necessità della realizzazione di un tipo di società superiore.
Per questo motivo Montaldi insiste nel continuare ad analizzare la reale
condizione e situazione della classe, e non solo comunque all'interno
della fabbrica ma anche nelle sue relazioni con l'intera società. Penso
che dobbiamo a lui la rubrica che appare su «Battaglia Comunista»
intitolata "operai che parlano della condizione operaia", che
il periodico inizierà a pubblicare nel 1954. Appaiono così i primi
documenti sulla vita degli operai scritta dagli operai stessi. Montaldi
inizia a sperimentare la ricerca come intervento politico e che avrà
come ricerca più compiuta Militanti politici di base.
In Montaldi la nozione di partito e di avanguardia viene collegata alla
tradizione della Sinistra Comunista italiana, come momento di continuità
con la vecchia sinistra - attraverso il lavoro di raccolta di fatti,
storie e documenti - intendendo questo come restituzione alla storia dei
vari livelli di coscienza sociale, di tutte le voci culturali, sia
sociali che politiche, di un arco eterogeneo di soggetti.
Montaldi ripropone, rinnovandolo a modo suo, il dibattito della Sinistra
Comunista sulla traduzione in Occidente del leninismo, sulla
costituzione del partito come scissione immanente alla classe. Ma il
leninismo di Montaldi è del tutto particolare. Stefano Merli ha parlato
a questo proposito di "estremismo leninista". Il Che fare? di
Lenin viene riletto con gli occhi del Lenin che si occupa delle
"multe nelle fabbriche". Al partito "piano" si
sovrappone e si sostituisce il "partito processo". Ciò che
conta per lui nella prassi è il processo di aggregazione dal basso,
contrapposto sia all'attendismo bordighiano che alla disciplina
burocratica del partiti storici di sinistra. Potremmo parlare di
costituzione molecolare del partito, partendo dalla classe, dalle sue
esigenze immediate e dalle sue condizioni concrete.
Questa concezione, a mio avviso, lo avvicina molto all'esperienza di
Socialisme ou Barbarie dal quale lo differenzia però la valutazione del
pensiero leniniano. Se il movimento francese sviluppa una esperienza che
sostiene essere "oltre Lenin", anche perché la concezione
leniniana del partito avrebbe contenuto i germi della sua evoluzione
futura nello stalinismo, in Montaldi - forse perché formatosi alla
scuola della sinistra italiana - non vi è un rifiuto aprioristico di
Lenin. Solo però - come ho già detto - egli, pur richiamandosi
costantemente al suo insegnamento, lo trasfigura infondendogli una nuova
visione derivata dalla situazione del capitalismo moderno.
In Montaldi comunque troviamo sempre un richiamo stretto all'esperienza
dei primissimi anni dell'Internazionale Comunista così come del PCd'I,
come sarà poi esplicitato in modo più che evidente, nel suo saggio
postumo sulla politica comunista.
Il richiamo a Lenin avviene anche per il rapporto classe-coscienza. Nel
prendere in considerazione il nesso che dovrebbe intercorrere tra
l'avanguardia e il resto della classe egli non nega che debba esistere
un travaso dalla prima alla seconda, ma nega - come ha scritto - che
questo debba avvenire "dall'alto", inserendovi forzatamente
idee e concezioni che non possono essere recepite, bensì legandole
"dal basso" ai momenti concreti di lotta e alla situazione
reale.
Per Montaldi occorre partire dalla situazione concreta dell'operaio il
quale, prigioniero del sistema borghese che lo sfrutta, non ha ancora
una coscienza politica compiuta del mondo in cui vive.
La critica ai militanti della Sinistra Comunista, a mio avviso, era
dovuta al fatto che questi, secondo Montaldi, si astraevano dal
movimento e dal lavoro concreto. Egli avrà modo di dire che magari essi
sapevano in quanti tronconi si era scissa la IV Internazionale ma non
sapevano nulla delle paghe operaie o contadine.
Il retroterra politico e culturale dalla Sinistra Comunista è anche al
fondo del suo rifiuto del gramscismo, allora imperante, che vedeva
nell'arretratezza la sopravvivenza del feudalesimo. La "questione
meridionale", ad esempio, non deve essere trattata come un problema
di "arretratezza feudale", come sosteneva allora il PCI. Per
Montaldi l'arretratezza fa parte integrante del capitalismo; anzi, esso
è uno dei suoi aspetti. Cosicché egli cerca di cogliere il legame
esistente tra zone altamente sviluppate e zone che non lo sono.
E' all'interno di questa concezione che possiamo comprendere la sua
ricerca sociologica sui sottoproletari e, soprattutto, sul mondo
agricolo. Egli cerca di individuare le linee di tendenza dei
comportamenti sociali in tutti i punti dello sviluppo capitalista, anche
in quelli meno sviluppati, perché questi sono strettamente connessi con
l'accumulazione generale del capitale.
L'analisi della campagna, in particolar modo quella della pianura
Padana, rientra quindi in uno dei suoi settori di ricerca-intervento.
Proprio negli anni cinquanta, incalzate dalla ristrutturazione
capitalistica, le campagne iniziano a registrare lo spopolamento e
l'esodo verso le città. Per Montaldi questa zona del capitalismo, in
questa fase particolare, deve non solo essere esplorata attraverso la
strumentazione sociologica sul campo ma diventare anche settore di
intervento costante, rivolgendo particolare attenzione alle lotte
contadine che negli anni cinquanta non avevano cessato di essere fonte
di grattacapi per la burocrazia sindacale.
Ma la ricerca sociologica non è confinata, per Montaldi, solo al
settore rurale. Egli cerca di svilupparla costantemente anche verso
tutti gli altri momenti della vita sociale. La sua sociologia però non
è una sociologia "neutra", è una sociologia di parte; non è
solo una rilevazione di fatti o di situazioni ma una ricerca e una
conoscenza per un intervento politico.
Nel fare questo però egli mette in ombra il marxismo come critica
dell'economia politica per far emergere un marxismo concepito
essenzialmente come sociologia.
Partendo da questo punto di vista Montaldi tenta di saldare la cultura
politica della sinistra comunista con la ricerca sociale. La sua
sociologia ha al fondo queste concezioni. E perciò, pur accostandosi
alla nuova ricerca sociologica che emerge in questo periodo, egli
mantiene sempre la sua "diversità". Una "diversità"
derivata dalla natura politica di "parte", che non dimentica
che l'oggetto di ricerca non è un oggetto, ma è un soggetto attivo che
vive tutte le contraddizioni della società, che è una società di
sfruttamento che deve essere cambiata radicalmente mediante l'azione
cosciente delle masse.
Il cambiamento rivoluzionario però non può prescindere dall'organizzione
del proletariato. Ecco allora la necessità di agire per sviluppare
l'organizzazione della classe.
Agli inizi degli anni cinquanta dalla diaspora del trotskysmo si erano
sviluppati diversi movimenti politici. Non solo in Francia, come ho già
detto, ma anche in altri paesi come, ad esempio, negli Stati Uniti.
I temi centrali che legano questi nuovi movimenti, al di là del rifiuto
dello stalinismo in tutte le sue varianti (che viene considerato come
espressione di una forma di capitalismo), spaziano dai problemi
dell'alienazione in fabbrica al rapporto fra lavoro intellettuale e
manuale, alla critica della burocrazia (in particolare quella
sindacale), partendo dalla vita reale di fabbrica.
Con essi Montaldi manterrà un legame costante tanto che nel 1961 il
gruppo di Unità Proletaria, che si era formato nel 1957 su sua
iniziativa e di alcuni militanti a lui vicini, parteciperà ad una
Conferenza internazionale che aveva come fine la ricostruzione di un
movimento socialista rivoluzionario internazionale.
Questa iniziativa non avrà ulteriori sviluppi, ma l'intento di giungere
alla formazione di una organizzazione internazionale del proletariato
dimostra che in Montaldi era vivo l'insegnamento internazionalista che
la classe operaia è una classe mondiale, che i suoi problemi sono
problemi che non possono essere risolti all'interno dei confini di
questo o quel paese, e in ogni caso non lo possono essere senza una
organizzazione internazionale.
Il suo intervento comunque non si preclude la possibilità di
raggiungere la base dei partiti di sinistra. Quando le crisi polacca e
ungherese diventano una fattore dirompente per lo stalinismo italiano
egli cerca di intervenire anche attraverso la stampa istituzionale di
sinistra. Così si spiega il suo intervento sull'«Avanti!», che in
questo periodo aveva aperto degli spazi alla critica, spazi che tuttavia
saranno ben presto chiusi.
Montaldi in ogni caso vedeva positivamente l'aggregamento, la ricerca di
un lavoro comune o uno scambio di esperienze tra i vari movimenti
politici che cercavano di sganciarsi e rendersi autonomi dallo
stalinismo. Così, quando in Italia, verso la metà degli anni
cinquanta, si forma il movimento di Azione Comunista egli vi presterà
particolare attenzione.
Azione Comunista era nata all'interno del PCI, ad opera di un fronte
eterogeneo di militanti, alcuni perché scontenti della politica
comunista che non avrebbe tradotto correttamente in Italia le
indicazioni del Partito Comunista russo, altri invece perché
criticavano il PCI per essersi allontanato dalle sue radici originarie.
In genere la critica avveniva nel senso di recuperare le tematiche del
PCI delle sue fasi iniziali.
A questo eterogeneo movimento iniziale, che la crisi del XX Congresso e
i fatti di Ungheria aveva rafforzato, si aggiunsero organizzazioni della
sinistra esterne al PCI.
Il primo tentativo di amalgama avvenne, a cavallo tra il 1956 e il 1957,
con il coinvolgimento nell'operazione dei trotskysti, del Partito
Comunista Internazionalista (il troncone di Battaglia Comunista) e dei
Gruppi Anarchici di Azione Proletaria.
Essendo l'espressione di un movimento fluido, con componenti di diversa
provenienza, Azione Comunista non fu in grado di creare un movimento
omogeneo. Sia i trotskysti che Battaglia Comunista si allontanarono ben
presto.
Rimasero all'interno solamente i promotori provenienti dal PCI e i
Gruppi Anarchici di Azione Proletaria, che nel frattempo avevano
abbandonato l'anarchismo per abbracciare il marxismo.
Montaldi inizia a collaborare attivamente con «Azione Comunista» nel
1958 con articoli di vario genere che spaziano dalla problematica del
partito, alle lotte contadine, alla situazione francese e con note di
cinema.
Io penso che il suo allontamento da questo movimento sia dovuto al
prevalere al suo interno della corrente leninista, che riprendeva le
medesime tamatiche relative al partito che egli aveva già criticato
nella Sinistra Comunista.
Io non so se il pensiero politico di Montaldi sia attuale o non attuale.
Non penso nemmeno che occorra fare un bilancio di "ciò che e vivo
e di ciò che è morto" del suo insegnamento. Ma oggi, quando
vediamo persone che, dopo essere rimaste sepolte sotto il crollo dei
muri, escono dalle macerie, si scrollano di dosso i calcinacci e, come
se nulla fosse successo, si rimettono in cattedra ad insegnare agli
altri come va il mondo e che cosa bisogna fare per cambiarlo, un tuffo
nel pensiero di Montaldi, - e non solo di Montaldi ma anche in quello
delle minoranze rivoluzionarie degli anni 40 e 50, le quali cercavano di
scalfire il granitico capitalismo di allora senza avere a disposizione
nemmeno un piccone -, penso che sia benefico e salutare per coloro che
pensano che il socialismo abbia ancora un futuro.