Ma si può uccidere un'icona?
La notizia dell’uccisione di Bin Laden mi ha colto di sorpresa. Come quando scopro, dai notiziari, la morte di un personaggio pubblico del passato che, semplicemente, non sospettavo fosse ancora vivo. Perché scomparso dai media, da molto tempo. E, si sa, scomparire dai media, per un personaggio pubblico, significa morire. In questo caso si tratta del caso opposto. La morte di Bin Laden mi ha sorpreso perché non sospettavo che lui, Osama, esistesse davvero. Perché in fondo non è importante. Lo percepivo e lo percepisco come una figura tenuta in vita per ragioni politiche e simboliche. (Come ad esempio, da qualche tempo, Fidel.) Ma in realtà, trasfigurato e trasferito in un’altra dimensione. Da tempo. Perché Osama Bin Laden è l’icona del terrorismo e della guerra al tempo della globalizzazione. Quando tutto è drammaticamente vero e drammaticamente fiction, al tempo stesso. Dove tutto accade sempre “qui”, in diretta. Le Torri Gemelle si sbriciolano sotto gli occhi di tutti, sotto i nostri occhi. Nel momento stesso in cui vengono colpite. Migliaia di vittime reali, esibite al mondo come trofei. Un videogame. Al Qaeda, d’altronde, è anch’essa, un’entità indefinita. Una rete informe e informale. Che agisce associando terrore reale e mediale. Dovunque colpisca, a Madrid, in Marocco oppure in India. Le vittime reali diventano gli attori e i comprimari nello spettacolo della guerra in diretta.Parallelamente, la guerra lanciata dall’Occidente
Così, nell’era della violenza globale tutto si confonde. Vita, morte e fiction. Rappresentate e trasfigurate dalle tecnologie informatiche. Dalla comunicazione. Dalla rete. Dai social network.
Per questo mi ha sorpreso l’uccisione di Osama Bin Laden. Per me e per molti altri, in fondo, non era così “essenziale”, che fosse fisicamente “vivo”. Perché non è più un corpo, una persona, ma un’icona. Il guerriero con la lunga barba, il fucile brandito come una bandiera, accovacciato con le gambe intrecciate. La barba e il turbante. La voce metallica. Lancia, periodicamente, minacce all’Occidente. L’immagine e la voce che tornano, sui media, a ogni attentato, in Occidente. Un’icona. Come il mullah Omar, che fugge in motocicletta, in Afghanistan, inseguito dagli eserciti dell’Occidente. (È ancora vivo?). L’immagine del volto insanguinato di Bin Laden, trasmessa dalla tivù pachistana, d’altronde, è risultata falsa. E ogni altra foto, ogni altra immagina – del suo volto, del suo corpo - diffusa nei prossimi giorni, difficilmente potrà provare qualcosa. Perché anche le immagini “vere”, trasmesse sui media, assumono un significato – e un effetto - “mitico”. Metaforico. Così è difficile non leggere l’uccisione di Bin Laden come un “messaggio”. Il segnale della fine di un ciclo. “Un simbolo abbattuto”, come ha scritto Ezio Mauro.
Dieci anni dopo l’attentato alle Torri Gemelle.
Simbolicamente: segna la fine della guerra condotta contro il terrorismo integralista islamico. E prelude all’abbandono, da parte dell’Occidente, dei teatri delle guerre globali nel Medio Oriente. Simbolicamente: annuncia la fine della parabola di al Qaeda. Le rivolte nei paesi arabi e islamici, d’altronde, oggi, usano parole d’ordine diverse. Evocano la domanda di democrazia, libertà, lavoro. Al Qaeda non compare in questo nuovo orizzonte.
Ma nell’era della violenza globale, la morte non è sufficiente per morire davvero. Osama Bin Laden, per morire davvero, dovrebbe scomparire davvero. Dai media e dalla rete. Essere dimenticato. Difficile che possa avvenire. Unica alternativa, per ucciderlo davvero e definitivamente: saturarne l’immagine. Svuotarne il significato. Trasformarlo in un consumo globale. Una statuetta, una figurina. Un’immagine impressa sulle magliette o sui posacenere. Sui poster. Un prodotto venduto e comprato sui mercatini di tutto il mondo. Oppure su e-Bay. Tra il Che, Mussolini e Michael Jackson.
( 03 maggio 2011 ) © Riproduzione riservata- repubblica.it