Adriana Bernardotti
Buones Aires- nostro servizio- liberazione 23-04-06
Superata la crisi economica del 2001, oggi Buones Aires viaggia al 9% di crescita. Ma la vetrina che attira un turismo internazionale crescente e coccola le classi medie con il miraggio di un nuovo ritorno al lusso sfrenato, nasconde profonde contraddzioni.

Il 30 marzo scorso, quando l’incendio di un laboratorio clandestino di abbigliamento nel quartiere residenziale di Caballito ha causato la morte di due adulti e quattro bambini di origine boliviana, Buenos Aires si è scoperta meta di un traffico di essere umani ridotti in condizioni di lavoro schiavile.

Negli anni ’90 - con la politica di parità cambiaria con il dollaro e l’apertura indiscriminata all’importazione - l’industria tessile è stata al centro del processo di deindustrializzazione dell’Argentina. La crisi del modello e la grande svalutazione del pesos nel 2002 favoriscono la ripresa del settore. Oggi le condizioni, tuttavia, sono cambiate: manca ormai personale qualificato e la maggior parte della produzione (60%) si realizza nel sommerso, così come documentato dalla Camera dell’industria dell’abbigliamento.

I lavoratori boliviani vengono apprezzati per la loro dedizione e conoscenza del mestiere e costituiscono un segmento importante dei flussi immigratori irregolari che, secondo stime ufficiali, ammontano a 750.000 -1 milione di persone. Gli operai - rivela una inchiesta del quotidiano “La Nación” - vengono reclutati nei laboratori clandestini di El Alto, nella città di La Paz, dove si guadagna 2,5 dollari per 14 ore di lavoro; in Argentina si promettono stipendi di 100 dollari e tutte le spese coperte. «E’ la solita storia», rivela Gustavo Vega, il fondatore del sindacato UTC (Unione Lavoratori del Cucito): «l’operaio generalmente firma un falso contratto, dove si specifica che il proprietario del laboratorio si farà carico del trasferimento e altre spese che dopo dovranno essere rimborsate. Siccome si tratta di una mafia, nella stazione di La Paz a ogni singolo lavoratore vengono offerti “in prestito” tra 500 e 600 dollari in modo che questo possa entrare al paese come turista».

Vega è un militante sociale argentino che anima la cooperativa “La Alameda”, dove hanno trovato rifugio 40 operai boliviani fuggiti alla schiavitù dei laboratori. Assieme hanno costruito anche un sindacato, l’Utc, che da tempo denuncia le condizioni di lavoro nel settore. Il centro sociale “La Alameda” di Parco Avellaneda è un luogo chiave del movimento di protesta cittadino. Nell’ottobre 2005 hanno presentato una denuncia al Difensore Civile che ha fatto emergere per la prima volta i tratti del fenomeno: luoghi sovraffollati, dove vivono e lavorano intere famiglie, senza le minime condizioni di sicurezza, lavoro minorile, servitù per debito e trattenimento dei documenti di identità, giornate di 12 a 18 ore di lavoro più ogni sorta di maltrattamenti e abusi. Secondo le stime ufficiali ci sono in città 1.600 laboratori tessili e per il 10% dei si riscontrerebbero fenomeni di questo tipo (400 secondo “La Alameda”). I boliviani impiegati sarebbero di 15.000, di cui 4.000 in condizioni di semi-schiavitù e il resto di lavoro nero.

Nei laboratori si lavora a cottimo producendo merce sia per le grande firme che per le sottomarche e le industria della contraffazione. Le prime pagano in media 1,50 pesos (0,50 dollari) per capi che mettono sul mercato a 100-300 dollari; nella produzione di seconda scelta la paga è di 0,70-0,80 pesos a capo finito (0,25 dollari). Il laboratorio incendiato fabbricava merce del secondo tipo: jeans venduti a 30-40 pesos (10-15 dollari) dai grossisti in aree commerciali popolari della città e dei sobborghi.

Dopo l’incendio il governo cittadino ha lanciato una massiccia campagna contro i laboratori clandestini. Anche perché c’è stat mancanza di controlli da parte delle autorità, e tangenti pagate dai proprietari dei laboratori alla polizia. In pochi giorni sono stati ispezionati 196 laboratori di cui 84 sono stati chiusi. Si è addirittura aperto un numero verde per denunciare il lavoro nero, ma c’è qualcosa di paradossale quando le statistiche ufficiali parlano di più del 45% dei lavoratori in queste condizioni.

Le ispezioni parlano di sfruttamento e rischi per la sicurezza. I lavoratori boliviani, però, resistono agli sgomberi. La situazione è complessa: gli operai difendono i proprietari dei laboratori e il proprio diritto al lavoro. I laboratori non sono tutti uguali - riconosce la responsabile della Segreteria dei Diritti Umani della città al quotidiano Pagina/12 -: «da una parte ci sono quelli schiavili, reato per il quale devono essere perseguiti penalmente. Ci sono anche laboratori gestiti da gruppi di famiglie, che lavorano in condizioni insicure e precarie». «Vogliamo accompagnarli - sottolinea la responsabile - affinché possano continuare a esercitare il loro diritto al lavoro». Il governo offre accoglienza transitoria, sussidi e l’inclusione in programmi sociali, ma niente serve ormai a contenere gli animi. Le paure di rimanere senza lavoro, le continue discriminazioni subite, l’imperizia dei responsabili creano un cocktail micidiale.

Un corteo di 2.500 persone nei giorni scorsi ha attraversato la città per chiedere alle autorità di fermare le ispezioni e dare una moratoria di 6 mesi per regolarizzare i laboratori. “Qui non ci sono schiavi ma lavoratori”, recitavano i manifesti. La comunità boliviana accusa gli argentini di razzismo e discriminazione nei loro confronti: nei loro racconti c’è la campagna lanciata dal governo di Menem e avvallata dai sindacati alla fine degli anni ’90, quando l’imperniarsi della disoccupazione dimostrava che il “miracolo” dell’Argentina neoliberale arrivava al capolinea. Contro le imprese di abbigliamento, proprietari di laboratori e operai hanno anche proclamato uno sciopero di 15 giorni sollecitando l’aumento dei prezzi a cottimo.

«Finora non è stata pressa nessuna misura contro i colpevoli dello sfruttamento, i fabbricanti che pagano centesimi per ogni capo di abbigliamento», affermano i dirigenti sindacali del movimento. Secondo la normativa del lavoro a domicilio per conto terzi esiste diretta solidarietà penale tra i fabbricanti e i gestori dei laboratori, ragione per cui dovrebbero essere anche indagate le sedi dei fabbricanti che danno lavoro ai laboratori». L’Utc chiede l’applicazione del Protocollo di Palermo per le vittime di tratta e incalza i legislatori ad approvare una loro proposta di legge per il sequestro dei macchinari a favore degli operai allo scopo di costituire cooperative di lavoro.

In questi giorni è arrivata a Buenos Aires una delegazione del governo boliviano formata da funzionari di diversi ministeri e guidata dal vice-cancelliere agli Esteri. Il console boliviano è stato denunciato dalla Lega Argentina dei Diritti dell’Uomo di connivenze con trafficanti e sfruttatori e il caso ha acquisito rilevanza internazionale. Il capitolo dell’immigrazione, d’altra parte, è inserito nell’agenda bilaterale stipulata tra i governi di Nestor Kirchner e Evo Morales. Nel frattempo 800 lavoratori sarebbero rimasti per strada e senza lavoro a causa delle chiusure o perchè espulsi dai laboratori che sospendono l’attività per evitare le ispezioni.

C’è però un dato positivo: il governo finalmente ha avviato la procedura per la regolarizzazione degli immigrati sudamericani prevista dalla nuova normativa del 2003, che sostituisce la legge discriminatoria e repressiva della dittatura.