Oltre
quattromila addetti, più di mille miliardi di fatturato, qualcosa
come 400 aziende in attività. Sembra incredibile ma questa è oggi
la nuova realtà del sistema estrattivo sardo e delle cave. La
nascita del Parco geominerario sembrava porre la parola fine alla
grande avventura delle miniere sarde, invece il settore è vivo e
vitale seppure in gran parte sotto mutate forme. Da questo dato
occorre allora partire per immaginare il nuovo futuro. Un futuro però,
dicono tutti, che deve tenere conto dell’esperienza e di quanto
sia importante accanto allo sviluppo economico e industriale la
salvaguardia e lo stesso sviluppo delle risorse ambientali.
Coniugare produzione e sviluppo con la difesa del patrimonio
naturale: è questa oggi la grande sfida che attende la Sardegna.
Miniere ancora vive e vegete, dunque. La conferma, se ve ne fosse
bisogno, arriva dal direttore del servizio minerario
dell’assessorato regionale all’Industria, Luigi Fadda. «Non è
affatto vero che le attività minerarie siano morte; non c’è
niente di più inesatto. Sono sicuramente chiuse le miniere
tradizionali del piombo e dello zinco, delle bariti, ma c’è uno
sviluppo del settore dei nuovi minerali, quelli ormai noti come
minerali industriali: il caolino, i feldspati, le bentoniti. Quelli
che oggi hanno mercato e consentono di fare utili».
Il bello è che questa realtà non è poi una vera novità. Da
diversi anni andava consolidandosi ormai il nuovo corso delle
miniere. Lo ha rilevato più volte Carlo Marini, docente
universitario e grande esperto proprio dei minerali industriali.
«È ormai da tempo – scriveva Marini negli atti del Convegno
sulle materie prime minerali in Sardegna tenutosi nel 1997 – che
l’intero settore estrattivo minerario va in pratica ricondotto ai
soli minerali industriali». Ed ora ci troviamo forse di fronte ad
un nuovo boom, caratterizzato ad esempio dal fatto che il 50% della
produzione nazionale di minerali industriali è “made in Sardinia”.
Nuovi prodotti e nuove richieste di mercato aumentano il valore
economico di beni in precedenza considerati poco remunerativi e
poveri.
«Si pensi soltanto alle bentoniti – ricorda Luigi Fadda –
che, per esempio, hanno un impiego così vasto e fra i più vari che
pochi prodotti riescono a starle al passo. La bentonite infatti è
impiegata nella fabbricazione degli alti forni metallurgici per il
suo alto potere refrattario, ma è anche uno dei materiali
privilegiati dall’industria cosmetica». Ma il discorso si allarga
anche alle argille, al caolino, ai feldspati, contraddistinti da
un’enorme varietà, che sono diventati una materia prima
richiestissima per l’industria delle piastrelle e delle maioliche.
I nuovi scenari dopo la chiusura dei settori tradizionali
 |
Trasporto di un minatore in una galleria del Sulcis
|
Si volta decisamente pagina, dunque, come conferma Giampiero Pinna,
ex amministratore delegato Progemisa, già presidente dell’Emsa ed
attualmente consigliere regionale e segretario della Commissione
Industria. «Ho lasciato le miniere nel 1986, quando facevano ancora
parte delle Partecipazioni statali. All’epoca ricoprivo il ruolo
di direttore del Servizio geologico nazionale della Samim e lo feci
perché la politica delle Partecipazioni statali, soprattutto per il
settore minerario, non lasciava intravedere più alcuna ulteriore
possibilità di sviluppo. Nonostante qualcuno si arrabattasse a
dimostrare che quelle miniere potevano essere recuperate dal punto
di vista economico, a mio avviso non c’era in effetti nessuna
possibilità in tal senso. Già due anni prima, dirigendo il
Servizio geologico, avevo avviato una diversificazione della ricerca
orientata verso quei minerali e metalli che invece potevano avere
una nuova prospettiva nei settori della trasformazione industriale
soprattutto nel campo delle lavorazioni delle ceramiche e nel vetro,
ma anche verso i metalli nobili di cui in Italia non si era mai
parlato ma che anche in seguito alle scoperte effettuate in Canada e
negli Stati Uniti potevano aprire opportunità di sfruttamento, ad
esempio l’oro».
LOCALIZZAZIONI
IMPIANTI MINERALI INDUSTRIALI
|
società
|
minerali
|
località
|
Maffei
|
feldspato e sabbie quarzose
|
Orani, Ottana, Siligo
|
Svi.Mi.Sa
|
feldspato, argille, caolini
|
Escalaplano, Galtellì, Mara
|
4MP
|
sabbie quarzose feldspatiche
|
Mores
|
Trexmin
|
rocce feldspatiche
|
Siurgus Donigala
|
Dore & Monni
|
sabbie quarzose feldspatiche
|
Florinas
|
Sarda Silicati
|
sabbie silicee
|
Florinas
|
Cisa
|
argille speciali
|
Nurallao
|
Sarmin
|
argille speciali
|
Laconi
|
Smit
|
argille speciali
|
Mores
|
MM2 Loriga
|
argille speciali
|
Siligo
|
S.S.B.
|
bentoniti
|
Sassari, Giba, Santa Giusta
|
Miner Sarda
|
argille assorbenti e bentoniti
|
Morgongiori, Olzai
|
Stass
|
argille assorbenti e bentoniti
|
Villanovatulo
|
Ceca italiana
|
bentoniti
|
Putifigari
|
Perlite
|
perlite
|
Mogoro
|
Nuova Mineraria Silius
|
fluorite
|
Silius
|
Talco Sardegna
|
talco
|
Orani
|
Fonte:Atti del convegno “Le materie prime
minerali in Sardegna” 1997
|
Oggi i minerali industriali sono diventati leader del sistema
estrattivo non solo sardo. Come ribadisce Luigi Fadda, le miniere
metallifere a partire dal 1960 hanno cominciato a perdere economicità
in parte per l’impoverimento e l’esaurimento progressivo dei
giacimenti ed in parte, ma con esso strettamente correlata, per la
sempre più ridotta competitività delle produzioni sarde mano a
mano che cresceva e si sviluppava la mondializzazione
dell’economia.
Una normativa anacronistica
 |
Montaggio nella miniera di Nuraxi Figus del
"Taglio", l'enorme macchina per l'estrazione del
carbone
|
«Per comprendere l’evoluzione subita dal sistema produttivo
occorre definire innanzitutto i contorni della materia –
precisa Fadda – distinguendo fra attività mineraria e attività
di cava. Si tratta di due approcci assai differenti». L’attività
mineraria in effetti, è stata disciplinata da varie disposizioni,
ma un punto di riferimento è ancora oggi la legge del 1927.
Soprattutto in quel periodo storico, infatti, l’attività
mineraria ha cominciato a rivestire un ruolo ed un peso particolare,
tanto più in assenza di un processo di mondializzazione dei sistemi
economici. Per i singoli paesi le risorse del sottosuolo
rappresentavano una inestimabile ricchezza ed in particolare i
minerali metalliferi, della cui disponibilità solamente lo Stato,
pertanto, poteva decidere data la loro importanza strategica. In
questo senso l’istituto della concessione mineraria è una
questione di necessità.
I minerali sono catalogati in due categorie che li elencano
dettagliatamente. Sono di prima categoria i minerali che per la loro
validità strategica sono considerati parte del patrimonio
indisponibile dello Stato e il cui sfruttamento dipende da una
concessione apposita. Alla seconda categoria appartengono le materie
di non rilevante interesse per lo Stato e che quindi sono lasciate a
disposizione della proprietà del suolo e per la cui coltivazione è
sufficiente una semplice autorizzazione.
Nasce forse da qui la distinzione fra cave e miniere e la
differenziazione della disciplina per il relativo sfruttamento delle
singole risorse. Ma ormai, in considerazione delle mutate condizioni
di mercato e delle mutate tecnologie orientate sempre di più alla
coltivazione dei giacimenti minerari a cielo aperto, si presenta
come una differenziazione più formale che di sostanza.
Rimane il fatto che le produzioni industriali hanno ormai
valorizzato fortemente materiali che in passato non sembravano avere
valide prospettive economiche. Questi materiali, essendo
suscettibili di svariate utilizzazioni secondarie nel processo
industriale, vengono chiamati “industrial minerals”.
Ma quali sono i minerali industriali che attualmente offrono le
maggiori soddisfazioni di mercato? In primo luogo tutte le sabbie
silicee, i feldspati, i caolini che rappresentano materie prime di
pregio per la fabbricazione di ceramiche (dalle piastrelle alle
suppellettili per uso industriale o domestico). I tecnici parlano
specificamente di argille per ceramica, feldspati, caolino. E poi
bentonite ed argille assorbenti, argille per laterizi, perliti,
fluorite, carbonati cementiti.
PRODUZIONE DI MINERALI INDUSTRIALI IN
SARDEGNA
(anno 1999)
|
minerale
|
produzione (tonnellate)
|
operai
|
impiegati
|
argento
|
1,4
|
0
|
0
|
argille refrattarie
|
168.828,0
|
13
|
6
|
oro
|
1,0
|
50
|
22
|
bentonite
|
381.287,0
|
24
|
26
|
caolino
|
161.555,0
|
3
|
0
|
feldspato
|
681.391,0
|
61
|
23
|
Fluorite
|
43.367,0
|
166
|
38
|
talco
|
0,0
|
18
|
2
|
totale
|
1.436.430,4
|
335
|
117
|
Fonte:assessorato regionale Industria
|
Per quanto riguarda le argille per ceramica, i rispettivi
giacimenti più interessanti si trovano nella Sardegna
centro-orientale; in particolare a Nurallao, Escalaplano, Isili,
Orroli e Laconi. I feldspati hanno anch’essi avuto un fortissimo
impulso con l’espandersi della ricerca nell’industria ceramica.
I giacimenti sardi sono fra i più ricchi e di pregio dell’intera
penisola. Quindi il caolino che dopo l’utilizzo come materiale
refrattario ha esteso il suo “raggio d’azione” nel campo della
ceramica e delle vernici. Nell’isola, citiamo sempre gli atti del
convegno su “Le materie prime minerali”, i giacimenti più
ricchi si trovano nella zona compresa fra i comuni di Padria,
Cossoine, Romana e Tresnuraghes. Per quanto riguarda le bentonite e
le argille assorbenti, la Sardegna rappresenta in un certo senso la
riserva principale dell’industria nazionale. La produzione
nostrana rappresenta il 90% dell’intera produzione nazionale.Per
quanto concerne gli impieghi esse sono utilizzate nell’industria
metallurgica, nell’ambito delle perforazioni petrolifere, e in
altri settori industriali, come ad esempio l’industria cosmetica.
I giacimenti sono sparsi in molte aree di tutta la Sardegna
occidentale.
Proseguendo nella lunga carrellata sui minerali industriali, non
si possono non ricordare le argille per laterizi nel cui ambito
operano ben undici cave, i minerali di fluoro, in particolare la
fluorite. E quindi le perliti, concentrate soprattutto nella zona
del Monte Arci, che vengono utilizzate come isolante in edilizia,
nell’industria delle vernici ed in quella del cemento. Ancora
fiorente il mercato per i carbonati per il cemento, mentre più
recente lo sfruttamento delle sabbie silicee per l’industria
vetraria.
Questa breve panoramica può essere conclusa con il talco
estratto ad Orani, che viene utilizzato nell’industria della
gomma, della carta e nel settore degli isolanti elettrici.
Una nuova occasione di sviluppo?
Le cifre parlano chiaro: si tratta di un business, come si vede,
di estrema importanza. Soltanto per quanto riguarda il settore dei
minerali industriali, secondo dati relativi al 1999, in possesso
dell’assessorato all’Industria, la produzione ha superato il
milione e 400 mila tonnellate con oltre 450 dipendenti diretti cui
si devono aggiungere gli oltre 300 addetti nell’indotto, ai quali
occorre sommare però i lavoratori impiegati nelle cave, che
superano le 2.850 unità. Solamente un leggero decremento rispetto a
cinque anni fa quando, in occasione del convegno sulle miniere a
cielo aperto, furono forniti dati leggermente superiori per ragioni
congiunturali. Come si può desumere dalle tabelle, riportate in
queste pagine, la produzione complessiva ammontava nel 1999 a
1.500.000 tonnellate di minerali industriali, cui si aggiungevano i
15 milioni di tonnellate di materiali da cava e rocce ornamentali,
per un ammontare (compresi i lavoratori del settore cave e
l’indotto) di 3.095 addetti, che aggiunti agli 874 addetti nelle
aziende di trasformazione localizzate in Sardegna portava la forza
lavoro dell’intero comparto a 3.979 unità.
Dell’importante valenza economica del “nuovo corso” del
sistema estrattivo regionale è buon testimone Giampiero Pinna: «Nel
1987 ebbi l’incarico di amministratore delegato della Progemisa e
constatai che anche fra le partecipate regionali la ricerca era
tutta orientata ai settori tradizionali. Cominciai invece a
rivoluzionare tutta l’impostazione della ricerca orientandola
soprattutto verso i minerali industriali e quindi i feldspati, i
caolini, le sabbie silicee e verso i metalli preziosi. La ricerca
dell’oro iniziò proprio nell’87 quando arrivai in Progemisa».
«Da queste ricerche si sono ottenuti risultati importanti. In
quel periodo – ricorda Pinna – è stato valorizzato il
giacimento di sabbie silicee e di feldspati e caolino di Florinas,
Ossi, Cargeghe e Mores che rappresenta il più grande giacimento
italiano. Si tratta di un giacimento sfruttato in passato solo per
sabbia da intonaci. Si è visto inoltre che quelle sabbie
contenevano il miglior quarzo che si poteva produrre in Italia. E
che poteva sostituire gran parte delle importazioni dall’estero.
Si tratta di materiali di altissimo pregio e molto ricercati. Una
delle caratteristiche più apprezzabili del caolino che si trova in
Sardegna, ad esempio, è che può essere adoperato senza alcuna
lavorazione ulteriore per la produzione di gres porcellanato».
Sergio Usai, della Segreteria regionale Cgil, così ricorda quel
periodo. «Il panorama estrattivo che fino agli anni Ottanta era
solamente improntato al metallifero tradizionale, cioè piombo,
zinco, fluoriti e carbone, stava cominciando a indicare un nuovo
corso che molti stentavano ancora a vedere. La Sardegna è di fatto
la regione con la più alta concentrazione di minerali di seconda
categoria che approvvigiona per oltre il 50% la produzione delle
paste ceramiche, in particolare composte da feldspati, caolini e
sabbie silicee che oggi trovano in Sardegna
quell’approvvigionamento che prima proveniva dalla Germania, dai
giacimenti emiliani, o dalla Spagna. Oggi il ruolo della Sardegna è
ben noto ai grossi gruppi ceramici che operano nell’isola, come
Iris Marazzi, che governa quasi l’intero mercato mondiale delle
ceramiche. Sottolineo l’importanza che hanno in questa direzione i
giacimenti del triangolo Ottana, Sarule Oniferi, dove si realizza la
gran parte della produzione».
SITI
MINERARI METALLIFERI IN SARDEGNA ORMAI CHIUSI
|
miniera
|
località
|
proprietà
|
Santa Lucia
|
Fluminimaggiore
|
Gruppo Eni
|
Arenas
|
Fluminimaggiore
|
Gruppo Eni
|
Su Zurfuru
|
Fluntinimaggiore
|
Gruppo Eni
|
Gutturu Pala
|
Fluminimaggiore
|
Gruppo Eni
|
Candiazzus
|
Fluminimaggiore
|
Gruppo Eni
|
Malfidano
|
Fluminimaggiore
|
Gruppo Eni
|
Santu Luisu
|
Fluntinimaggiore
|
Gruppo Eni
|
Is Scalittas
|
Buggerru
|
Gruppo Eni
|
Acquaresi
|
Buggerru
|
Gruppo Eni
|
San Benedetto
|
Iglesias
|
Gruppo Eni
|
Montecani
|
Iglesias
|
Gruppo Eni
|
Monteponi
|
Iglesias
|
Gruppo Eni
|
San Giovanni
|
Iglesias
|
Gruppo Eni
|
Campo Pisano
|
Iglesias
|
Gruppo Eni
|
Monte Scorra
|
Iglesias
|
Gruppo Eni
|
Nebida-Masua
|
Iglesias
|
Gruppo Eni
|
Sa Duchessa
|
Domusnovas
|
Piombo zincifera sarda
|
Sa Giovanni
|
Donausnovas
|
Piombo zincifera sarda
|
Monte Onixedda
|
Gonnesa
|
Piombo zincifera sarda
|
Sedda Moddizzis
|
Gonnesa
|
Piombo zincifera sarda
|
Berga
|
Carbonia
|
Emsa
|
Barex
|
Carbonia
|
Baroid
|
Santa Ceriana
|
Carbonia
|
Edem
|
Santa Maria
|
Carbonia
|
Edem
|
Mont'Ega
|
Narcao
|
Emsa
|
Rosas
|
Narcao
|
Gruppo Eni
|
Su Bermatzu
|
Santadi
|
Edem
|
Orbai
|
Villamassargia
|
Baroid
|
fonte “Sardegna industriale”
|
La discesa a valle e le diseconomie
Ma è prematuro, si afferma fra gli addetti ai lavori, esprimere
facili entusiasmi. Non tutto, a ben guardare, va ancora bene. «Purtroppo
siamo alle solite. Dietro l’estrazione di questi materiali non
esiste alcun livello di verticalizzazione. Contrariamente a quanto
potrebbe invece offrire il mercato e a dispetto della qualità delle
nostre materie prime non riusciamo tuttavia a far nascere un
distretto ceramico come è avvenuto ad esempio in Emilia. Invece
dovrebbe essere questa una delle tappe di una rivendicazione che è
stata sottovalutata da parte degli organi politici regionali. Già
negli anni Ottanta il Sindacato Cgil-Cisl-Uil proponeva che si
raccordasse il rilascio delle concessioni estrattive ad una ipotesi
di lavorazione in Sardegna di almeno il 50% di queste materie prime.
Voglio solo ricordare che la linea merci notturna Olbia-Livorno è
nata prevalentemente in funzione del trasporto di questi materiali».
«Altro settore da valorizzare è quello delle piastrelle e della
ceramica. Ma queste attività – precisa ancora Giampiero Pinna –
non possono nascere dall’oggi al domani; occorre creare un sistema
ed una rete infrastrutturale adeguata, che favorisca nuove
localizzazioni industriali e nuovi investimenti. L’esempio che
viene in mente è quello dell’azienda “Terrecotte” il cui
problema, che non abbiamo mai risolto, è quello del costo
dell’energia e dei trasporti. La mancanza del metano, ad esempio,
è stata deleteria. È indispensabile avere fonti di energie che
abbiano il medesimo costo delle altre zone del Paese. Così pure per
il sistema dei trasporti, che è la garanzia dell’esportazione dei
prodotti».
E invece si continua con la logica della “rapina”. «Purtroppo
è così – dice l’esponente politico –. Anche il grande
giacimento di Florinas è oggetto di grande contestazione da parte
delle popolazioni perché ad eccezione della Sardasilicati (società
mista regionale con un imprenditore serio e capace) che ha avviato
una prima trasformazione dei prodotti, gli operatori della zona
estraggono il materiale con gli escavatori e lo caricano
direttamente sui camion in partenza per Sassuolo. Questa è una
vergogna inaccettabile. Ed il risultato è che l’unica società
che trasforma i minerali realizzando investimenti per oltre 30
miliardi è la Sardasilicati, nata per volontà della Progemisa di
allora, e che riesce a dare valore aggiunto a questo prodotto
separando i diversi prodotti ciascuno dei quali può vantare
maggiore valore aggiunto: sabbie per il vetro bianco, sabbie per il
gres porcellanato, il feldspato potassico, il caolino. Si tratta di
una prima lavorazione, è vero, ma è già tanto, perché oltretutto
consente di impiegare alcune decine di addetti, mentre gli altri
operatori che producono anche quantità maggiori hanno alle
dipendenze due o tre persone».
Ma l’esperienza di cinquant’anni di battaglie e di
rivendicazioni per la verticalizzazione delle produzioni dei
minerali metalliferi, c’è da chiedersi, non ha dunque insegnato
nulla? «Purtroppo tutto il sistema è rimasto incompiuto –
contesta il sindacalista Sergio Usai –. L’avvento di una vera
lavorazione manifatturiera non c’è mai stato; se non parzialmente
nel processo di fusione di San Gavino che però ha visto solamente
la produzione dei pallini per le cartucce da caccia e delle batterie
per auto».
Secondo Usai, che condivide pienamente il giudizio di Pinna, «esistono
le opportunità, ma abbiamo bisogno di creare le condizioni
infrastrutturali di contorno per favorire gli investimenti
industriali manifatturieri. Gli impianti metallurgici di Portovesme
producono oggi il 78% del fabbisogno nazionale. Si tratta di una
risorsa primaria della Sardegna; nonostante la chiusura delle
miniere metallifere l’industria metallurgica resta in vita. In
passato la metallurgia di Portovesme era approvvigionata per il 50%
in Sardegna e per il resto dalle importazioni. Oggi la materia prima
è tutta d’importazione. Manca però un sistema di imprenditoria
privata che si schieri a valle delle produzioni primarie per attuare
le seconde e le terze lavorazioni. A Cagliari abbiamo un esempio
particolarmente emblematico, con un produttore sardo di
componentistica di alluminio che lavora quasi esclusivamente per la
Mercedes. Al punto da dover importare dalla stessa Germania la
materia prima che viene poi lavorata nello stabilimento sardo.
Questa è la risposta: non occorre essere nel triangolo industriale
del Nord Italia, ma occorre essere capaci imprenditori, fare
produzioni di qualità ed essere competitivi».
Ma cosa ha fatto il Sindacato per combattere questa deriva? «Il
Sindacato ha cercato di fare in pieno tutto quanto possibile –
risponde Usai – percorrendo strade anche molto impegnative,
sindacalmente onerose, tanto più difficili per una organizzazione
che rappresenta i lavoratori minerari sempre considerati fra i più
duri, i più rigidi e ostili all’impresa. È stata superata questa
visione, si sono introdotti livelli di flessibilità molto
accentuata. Nel territorio tradizionalmente minerario si è riusciti
ad attuare il contratto d’area, sono state accettate forme di
organizzazione del lavoro molto aperte all’impresa, che a Melfi,
ad esempio, creano invece forti difficoltà alla Fiat. Sono esempi
per dimostrare che vi sono notevoli convenienze agli insediamenti
industriali».
Secondo il Sindacato, esistono in tutto ciò errori e carenze
anche da parte del sistema istituzionale regionale, oltre ché dal
mondo dell’imprenditoria sarda. «La prima è che il sistema
politico regionale non ha capito tempestivamente quale sarebbe stata
la conseguenza della scomparsa delle Partecipazioni statali –
sostiene il sindacalista Sergio Usai –. Perché tutti siamo stati
ad un certo punto concordi sulla necessità di superare la fase
dell’impresa pubblica, ma le istituzioni non sono state capaci di
capire che era allo stesso tempo necessario creare le condizioni per
la crescita di una nuova classe imprenditoriale isolana capace di
gestire quanto veniva lasciato libero dalle Partecipazioni statali.
Si è creata una instabilità e una precarietà del sistema
economico caratterizzato da un sistema di piccoli imprenditori che
si definivano tali solo perché avevano le commesse d’appalto
delle imprese pubbliche. Quando le imprese pubbliche sono passate
nelle mani degli imprenditori privati e delle multinazionali che
hanno superato la fase delle elargizioni e delle connivenze con la
politica, le stesse commesse d’appalto sono state gestite con una
nuova logica economicistica e privatistica che ha posto fine alle
elargizioni».
«Tutto ciò – a detta di Usai – con la conseguenza
disastrosa del tracrollo di molte imprese locali ed il fallimento di
decine e decine di piccoli imprenditori il cui unico fatturato fino
ad allora era determinato dalle sole commesse d’appalto. In molti
casi siamo tuttavia ancora in attesa di voltare del tutto pagina
perché moltissime opportunità potrebbero essere esplorate se il
sistema imprenditoriale svolgesse in prima persona quel ruolo di
protagonista, anche in termini di investimento, del settore
manifatturiero. E non si tratta dei soli minerali industriali, perché
possiamo ormai affermare che l’industria chimica, e l’industria
metallurgica dell’alluminio, del piombo e dello zinco sono per la
Sardegna settori produttivi primari, autentiche risorse prime
regionali suscettibili di ulteriore sviluppo e valorizzazione».
«Credo che abbiamo bisogno di una forte azione di supporto da
parte del sistema economico del Paese – soggiunge Usai –.
Dobbiamo riuscire a far capire quali sono i grandissimi vantaggi
(sicuramente non inferiori a quelli di altre realtà) derivanti da
una localizzazione in Sardegna. Dall’esperienza del contratto
d’area del Sulcis Iglesiente – ricorda ancora il rappresentante
della Cgil – abbiamo preso atto di un fatto: dai rapporti avuti
con la Confindustria milanese o con gli imprenditori trevigiani,
abbiamo notato interesse ad investire in Sardegna. Però ci siamo
mossi senza avere al nostro fianco il supporto istituzionale. Non
possono essere la Cgil, la Cisl e la Uil del Sulcis a dialogare
direttamente con le istituzioni imprenditoriali del Nord: deve
essere direttamente la Regione, deve esservi una azione congiunta».
Anche secondo Giampiero Pinna, esistono certamente gli spazi per
creare un sistema imprenditoriale in grado di valorizzare le nostre
risorse primarie. «Per tornare alla questione della valorizzazione
delle materie prime sarde – ricorda l’esponente del Consiglio
regionale – devo dire che negli anni Ottanta ho ideato e
progettato, e poi fatto nascere nel mio lavoro all’Emsa, la Società
Lana di roccia, e poi l’ho anche privatizzata. Questa azienda è
un perfetto esempio del modo in cui da un materiale povero (il
basalto) si può produrre ricchezza».
Miniere, territorio e turismo
«Ma c’è un aspetto su cui va fatta la battaglia – rivendica
Giampiero Pinna – ed è che su questi materiali si gioca una sfida
importante: quella della valorizzazione dello sviluppo coniugata
alla salvaguardia dell’ambiente e del territorio. L’attività
mineraria, soprattutto quella a cielo aperto, consuma fortemente il
territorio. Vi è il problema delle nuove autorizzazioni. Esse
devono essere tutte corredate da uno studio di impatto ambientale e
con un impegno coercitivo nei confronti dei concessionari perché
venga rispettato il progetto di ripristino e recupero ambientale. Su
tutto questo occorre una vigilanza molto ferma e severa».
Perché allora non puntare tutto sulla valorizzazione delle
risorse ambientali attraverso l’industria del turismo? Su questo
piano il Sindacato esprime però forti perplessità.
«L’industria è un settore economico che difficilmente può
essere soppiantato o superato quanto a peso economico dai cosiddetti
settori emergenti, ad esempio il turismo o i servizi – dice Usai
–. Tutti i settori devono reciprocamente bilanciarsi ed integrarsi
a formare un sistema compiuto. Basta un esempio: nel Sulcis le
attività industriali producono complessivamente oltre 300 miliardi
all’anno in termini di redditi per le famiglie, con una massa
complessiva di 7 mila addetti fra il settore metallurgico e
carbonifero. Da un rapido calcolo è facile verificare che per
assicurare lo stesso ammontare di redditi il turismo dovrebbe poter
contare sulla presenza fissa (per tutto l’anno intendo) di 5
milioni di turisti nella sola Sardegna sud-occidentale. Per altro
verso vi è l’esigenza che qualsiasi sviluppo industriale deve
essere compatibile con il rispetto dell’ambiente».
Carbone e gassificazione
 |
L'assessore regionale dell'Industria Andrea Pirastu
|
E mentre “esplode” il business dei minerali industriali, resta
più che mai incerta la sorte delle miniere di carbone, e del
progetto per la gassificazione. Recentemente dalla Associazione
temporanea di imprese, Ati, che secondo l’accordo di programma
dovrà costruire e gestire gassificatore e miniera, è stato
proposto un rinvio della fase operativa. Intanto si sta anche
chiedendo il momentaneo riavvio della produzione nella miniera di
Nuraxi Figus che dovrebbe sfornare entro i prossimi mesi 300 mila
tonnellate di carbone. Si tratterebbe di una messa in produzione
soltanto temporanea per alleviare i costi fissi di una azienda da
anni posta in stand by e che tuttavia deve far fronte a pesanti
obblighi finanziari per evitare il deterioramento degli impianti.
Fra Ati ed il Comitato di coordinamento dell’Accordo di programma,
è in atto un contenzioso. L’Ati sembra avanzare pretese che
invece la Regione afferma pretestuose. Da tempo i termini per
l’avvio del progetto sono scaduti.
«Più che in un regime di proroga – afferma l’assessore
regionale all’Industria della Regione, Andrea Pirastu – ci
troviamo in realtà in un regime di tolleranza. Il Comitato di
coordinamento ha fatto tutto quello che doveva fare. L’Ati non può
continuare così all’infinito. A questo punto è necessario un
accordo integrativo. La Regione chiede date certe ed in tal senso il
Comitato mi ha dato mandato».
Nella sua ultima seduta il Comitato di coordinamento, che è
presieduto dallo stesso assessore all’Industria, ha stabilito di
avviare una verifica presso l’Ati per un accordo integrativo alla
convenzione di concessione «che consenta una gestione provvisoria
congiunta della miniera, da parte di Ati e Carbosulcis, in attesa
che vengano completati gli adempimenti ancora mancanti». La nota
del Comitato precisa che «si tratta dell’ultima opportunità
concessa all’Ati per salvare la realizzazione del progetto di
gassificazione». La gestione congiunta, secondo il Comitato, «consentirebbe
un incremento della presenza dei tecnici Ati nella miniera,
l’avvio delle azioni di formazione e addestramento del personale,
il riavvio dell’attività mineraria per l’estrazione di 300 mila
tonnellate/anno».
«Si è perso molto tempo, addirittura 10 anni – lamenta la
Cgil –, con la gestione dell’Eni che non ha mai consentito di
metter in produzione la miniera ed ha gestito l’attività con una
logica esclusivamente assistenzialistica. Con la cacciata dell’Eni
e l’apertura della fase di privatizzazione si pensava ad una
ripresa energica dell’intero progetto, ma siamo tuttora fermi. Non
si può imputare ai lavoratori se il processo di privatizzazione è
così lungo».
Quello di Carbosulcis è un progetto da 2.600 miliardi, che
dovrebbero essere finanziati dalle banche. La gassificazione per
produrre energia elettrica sarebbe il sistema ecologicamente più
avanzato al mondo. Il progetto della Associazione temporanea di
imprese prevede la realizzazione di un impianto di produzione di
energia elettrica attraverso l’utilizzazione del gas prodotto dal
carbone, per una potenza di 450 megawatt. Al termine di una gara
internazionale l’Ati Sulcis, costituita principalmente da Ansaldo
Energia spa e Sondel spa, si è aggiudicata la concessione per la
realizzazione degli impianti e la concessione mineraria per
l’estrazione della materia prima. La concessione prevede
finanziamenti per oltre 400 miliardi, lo sfruttamento della miniera
per 30 anni, la garanzia che l’Enel acquisterà l’energia
elettrica prodotta e una tariffa agevolata del kWh per i primi otto
anni di esercizio. La contropartita ad opera dei concessionari
dovrebbe essere, oltre alla relativa realizzazione degli impianti,
gli oneri derivanti dalla gestione della miniera, il rispetto dei
vincoli ambientali, l’utilizzazione di carbone Sulcis nella misura
di almeno il 50% dell’intera produzione, la garanzia dei livelli
occupazionali della Carbosulcis.
La metallurgia
Mentre proseguiva il declino delle miniere metallifere, tuttavia,
il settore metallurgico si ristrutturava. Oggi le maggiori società
operanti sono sette: Alcoa Italia, Eurallumina, Portovesme srl (già
Nuova Samim), Portovesme ex Comsal, Carbosulcis, Enel.
Complessivamente vi sono impiegati 3.600 dipendenti diretti cui si
aggiungono circa 2.300 addetti degli appalti e dei servizi. La
chiusura delle miniere non ha avuto in modo diretto ripercussioni
eccessive sulle aziende operanti nel settore della metallurgia del
piombo e dello zinco. Se in passato l’approvvigionamento delle
materie prime avveniva in parte dalle produzioni minerarie, ora
queste sono tutte di importazione. Al dicembre 2000 la società
“Portovesme srl” (ex Nuova Samim) vantava una produzione di 290
mila tonnellate di prodotti metallurgici, di cui circa 120 mila
tonnellate di piombo e 170 mila tonnellate di zinco. Nell’azienda
sono impiegati 800 addetti. A questi ultimi si devono aggiungere poi
i circa 600 lavoratori impiegati nell’indotto.
Nel settore dell’alluminio, l’Eurallumina, dopo una serie di
problemi derivanti dallo smaltimento delle scorie (i fanghi rossi),
sembra aver avuto un adeguato assestamento, anche se permangono le
difficoltà derivanti dallo smaltimento dei sottoprodotti della
lavorazione. Attualmente produce circa 1.020 mila tonnellate di
allumina attraverso la estrazione del metallo dalla bauxite. I
dipendenti diretti sono circa 450, mentre 160 sono gli occupati
dell’indotto.
L’Alcoa Italia (ex Alluminio Italia) utilizza l’allumina
prodotta da Eurallumina per produrre nello stabilimento di
Portovesme 250 mila tonnellate di alluminio primario e in quello di
Iglesias 7 mila tonnellate di estrusi. I dipendenti sono
rispettivamente 700 nello stabilimento di Portovesme e 70 in quello
di Iglesias.
La ex Comsal, ora Ila Portovesme, è impegnata nella produzione
di laminati di alluminio, di cui sforna 20.000 tonnellate all’anno
con 254 dipendenti.
Infine l’Enel, che nelle due centrali di Portoscuso produce 560
Mw di energia elettrica dando lavoro a 425 dipendenti.
Contraccolpi pesanti hanno invece subito, a causa del processo di
deindustrializzazione complessivo cui è stata sottoposto tutto il
Sud Ovest dell’isola, le aziende metallurgiche di San Gavino. La
nuova Scaini, infatti, ha attraversato un pesante periodo di crisi
culminato con un drammatico incendio di alcuni reparti nel 1989.
Dopo la ricostruzione e le ripresa della produzione di accumulatori
elettrici per auto, l’azienda sembra aver ottenuto un positivo
recupero. Il processo di privatizzazione ha avviato una ripresa
produttiva importante ma non sembra aver ancora dissipato
completamente i timori dei dipendenti che ammontano a 250 unità.
Il Parco geominerario
Ed i vecchi siti piombo zinciferi che futuro avranno? L’epilogo
nel 1999, anno che ha segnato prima la lenta riduzione delle
produzioni, quindi l’avvio delle procedure di fermata degli
impianti. Ma proprio da lì è cominciato di fatto un nuovo capitolo
per tanti aspetti inedito ed anche entusiasmante: la nascita del
Parco geominerario. È la testimonianza ed insieme una scommessa di
riconversione fra due opposti: da una parte le miniere, attività di
per sé devastante per il territorio, e dall’altra la salvaguardia
ambientale che diventa risorsa economica da sfruttare.
Il Parco nasce per prima cosa con l’obiettivo di risanare e
mettere in sicurezza un territorio che secoli di sfruttamento
minerario hanno fortemente degradato e reso pericoloso se
abbandonato a se stesso. Ma con l’obiettivo di prospettiva di
valorizzare economicamente i siti minerari dimessi attraverso un uso
culturale e turistico dell’intera zona. Il progetto ha ormai
ottenuto il beneplacito degli organismi europei, e l’Unesco ha
dichiarato il parco un patrimonio culturale dell’Umanità.
Dopo anni, e pur in mezzo mille difficoltà e polemiche,
finalmente il Parco è stato consacrato da una legge dello Stato e
da un decreto ministeriale che proprio in queste settimane attende
di poter divenire operativo. Dovrebbero avere così risposta anche
gli oltre 500 lavoratori socialmente utili che in gran parte sono
fuoriusciti dalle produzioni minerarie ormai terminate e che
attendono di essere riutilizzati in altri settori. Ma la battaglia
non è ancora conclusa, nonostante giganteschi passi avanti siano
stati fatti e ancora si attenda la costituzione dell’organismo di
gestione, che per il momento sarà provvisorio. Tale Comitato di
gestione dovrà avviare le iniziative operative necessarie.
Uno dei protagonisti delle vicende del Parco, che si è battuto
con determinazione per la sua nascita, tanto da attuare una
lunghissima occupazione della miniera di Monteponi, a Iglesias,
vivendo per quattro mesi all’interno dei pozzi, è Giampiero
Pinna. «La millenaria attività di sfruttamento dei giacimenti
minerari metalliferi ha avuto un fortissimo impatto sul territorio.
Un disastro lasciato dalle compagnie minerarie, pubbliche in via
residuale, ma soprattutto da quelle private italiane e straniere. In
conseguenza di ciò è stato elaborato un piano di disinquinamento e
di recupero ambientale da parte della regione nel 1997 per il quale
occorrono mille miliardi, una cifra enorme».
Il primo obiettivo del Parco geominerario è pertanto quello di
risanare il territorio, per poterlo utilizzare attraverso altre
attività economiche e principalmente per la valorizzazione del
patrimonio di storia, di cultura e di archeologia industriale. Si
tratta di ottomila anni di storia che rappresentano una parte
importante della cultura sarda. Ma allora, perché tante difficoltà
sul Parco? Probabilmente solo per “diritti di gestione”.
Come ricorda ancora Pinna, «questo è un parco del tutto
particolare, concepito in modo del tutto singolare dopo che l’Unesco
ha riconosciuto l’area mineraria un patrimonio naturale di tutta
l’umanità. Soprattutto si è cercato di evitare che fosse il
risultato di un’imposizione caduta dall’alto, secondo la nota
logica centralistica da parte dello Stato». Era inoltre
indispensabile che il parco avesse un riconoscimento internazionale
affinché lo Stato si assumesse l’incarico finanziario del
risanamento, e di pagare i costi, come per altri parchi nazionali,
della gestione, «però doveva anche nascere dal cuore della
Sardegna e quindi con un diretto aggancio all’articolo 31 dello
Statuto sardo, attraverso una legge nazionale di iniziativa
regionale. Doveva essere il Consiglio regionale a presentare una
propria proposta di legge – ricorda Pinna –. Volevamo un parco
che, pure se finanziato dallo Stato, non avesse vincoli posti dallo
Stato e quindi abbiamo scelto un altro strumento legislativo diverso
da quello adottato per gli altri parchi».
Ma perché l’occupazione dei pozzi? «Quando è stata firmata
la “Carta di Cagliari” con l’Unesco – si rammarica Pinna –
c’era l’impegno di varare una legge apposita. L’iniziativa
legislativa non è partita dal Consiglio regionale. E questa è una
responsabilità della Giunta di centro sinistra. Dopo tre anni la
proposta di legge è stata quindi presentata dai parlamentari
sardi.Ma la legislatura stava finendo e vi era il rischio che la
proposta decadesse. Per questa ragione ho fatto questa azione di
protesta (quattro mesi in galleria). Alla fine questa legge è stata
fatta, quindi abbiamo mosso il Parlamento, e sono uscito dalla
miniera quando a Roma, attorno a un tavolo, si sono ritrovate tutte
le istituzioni dello Stato: Governo, Regione, Province, Comuni per
concordare il decreto istitutivo previsto dalla legge».

Ma l’orizzonte è carico di nubi.
“La nuova frontiera”. Potrebbe essere questo, dunque,
l’incipit di una seconda puntata della “Storia delle miniere”.
Una nuova frontiera che non mancherà – ne siamo certi – di
incidere ancora una volta fortemente nella storia stessa di
un’intera regione.