il manifesto 31-5-04

I padroni del ferro a vapore
La Polti licenzia tre operai calabresi: sono iscritti alla Fiom. Sciopero in tutta l'area
Come a Melfi Blocchi ai cancelli, presidi anche di notte. Da martedì scorso l'area industriale di Piano Lago è in fermento. Chiede che i tre operai siano reintegrati. Ma non solo

BEPPE MARCHETTI
Più facile, più felici. Il sito della Polti è zeppo di slogan lampeggianti, che neanche un congresso di Forza Italia. Casalinghe sorridenti che brandiscono ferri da stiro, aspirapolvere sinuosi, idropulitrici. C'è la mitica Vaporella: la stiratura professionale per tutti. O il più nuovo Vaporetto, un piccolo mostro per la pulizia della casa. Questi prodotti li fanno qui, alla Polti Sud di Piano Lago, nella comunità montana del Savuto, non lontano da Cosenza. Una piccola fabbrica, meno di 200 lavoratori. Tre dei quali licenziati dall'azienda - «con arroganza e prepotenza», si legge in un comunicato sindacale - martedì scorso. Prima a voce, il giorno dopo via lettera. Uno di loro era da poco diventato rsu; gli altri due erano iscritti Fiom. In azienda i lavoratori stavano scoprendo il sindacato e questo alla Polti proprio non va giù. Ufficialmente i tre sono stati cacciati perché l'azienda vuole esternalizzare la manutenzione. Va da sé che non ci crede nessuno: a partire da loro, i licenziati, che quelle lettere non le hanno firmate. Ma la protesta ha fatto in fretta a dilagare. Ieri uno sciopero generale ha messo insieme tutta la zona industriale di Piano Lago. Piccole aziende chimiche, manufatturiere: in tutto 800 dipendenti. Ma al corteo c'erano 5 mila persone. «È tutta la comunità montana che s'è mobilitata, s'è stretta intorno a loro», dice Francesca Re David della segreteria nazionale della Fiom. Non è difficile capire perché. In questo lembo di Calabria ci sono tassi di disoccupazione altissimi e qualche azienda sfrutta la situazione per ricattare i lavoratori. Gli stipendi sono più bassi che al nord, i turni più lunghi, le condizioni peggiori.

La Polti è un esempio perfetto: la sede principale è a Bulgarograsso, provincia di Como, profondo nord. Poi c'è la Polti Sud («il nome l'han studiato per avere i finanziamenti per il Mezzogiorno», sussurra qualcuno). Qui, raccontano, andare in bagno ogni tanto si trasforma in una gara crudele: ti cronometrano. La maggior parte degli operai sono giovani, e allora nessuno si fa grossi scrupoli se il lavoro è pesante e i carichi da trasportare schianterebbero un asino. E poi ci sono le intimidazioni, le centinaia di provvedimenti disciplinari. Ricorda Melfi, certo.

Ora lo sciopero e la manifestazione di ieri hanno dato un segno preciso: qualcosa deve cambiare. Migliaia di persone, sotto una specie di diluvio, hanno camminato dall'autostrada fino ai cancelli della Polti. Qui slogan, canti, comizi. Hanno parlato in molti: tutti chiedendo il ritiro immediato dei licenziamenti. Che rappresentano «soltanto un atto di rappresaglia e vanno dunque immediatamente ritirati». L'ha detto addirittura il presidente Ds Massimo D'Alema - le parole «ritiro immediato» ormai non gli fanno più paura - arrivato per il comizio. E Oliviero Diliberto, segretario del Pdci, ha rilanciato: «Siamo alla criminalizzazione del lavoro, agiremo in tutte le sedi per difendere i diritti dei lavoratori ».

Ma il ritiro dei licenziamenti dovrà essere solo il primo passo. I lavoratori sono ormai decisi nella protesta: dormono davanti alla fabbrica, presidiano i cancelli giorno e notte. Da martedì non entrano più merci. E si preparano proteste ancor più clamorose. Insomma il tappo sembra proprio saltato, per la Polti e per tutta la zona industriale. «La maggior parte degli operai - racconta Re David, di ritorno da Piano Lago - sono giovanissimi: 24, 25 anni. Per loro questi giorni senza stipendio sono pesanti. Per questo ieri si raccoglievano offerte e anche la Fiom interverrà con la cassa di resistenza». C'è solidarietà e determinazione tra chi protesta, insomma. Lavorano come gli altri, come i ragazzi del nord. E vogliono essere trattati allo stesso modo.

L'azienda, convocata anche dalla Provincia, finora ha rifiutato ogni dialogo. Ci sono molte pressioni perché accetti il confronto. Politici di ogni schieramento (ci sono le elezioni), autorità locali. C'è soprattutto la pressione dei lavoratori e del sindacato. La Fiom, già oggi, chiederà l'intervento del ministro delle attività produttive. «La Polti Sud riceve dallo stato molti soldi - dice Re David - forse è il caso che il governo chieda conto di come vengono spesi». Sarebbe facile e saremmo tutti più felici.

ASTI
Sciopero a oltranza degli operai Dierre
Lotta dura alla Dierre di Villanova d'Asti, come a Melfi: blocchi delle merci in entrata ed uscita, produzione ferma da martedì scorso. Gli ottocento operai dell'industria di porte blindate, casseforti e serrature difendono con passione la piattaforma di rinnovo, redatta unitariamente da Fim, Fiom e Uilm e approvata dalle assemblee. Tre i punti qulificanti, descritti da Liviana Guariento, della Fiom Cgil di Asti: «Il primo riguarda i diritti e la lotta al precariato; il secondo la retribuzione, con richiesta economica riparametrata; infine, c'è il premio di risultato 2003-2006: noi chiediamo 600 euro a chiusura del 2003, e per gli altri anni 600 euro fissi e il resto variabile. L'azienda ci offre solo 300 euro fissi e poche altre "noccioline". A questo punto, dopo diversi incontri andati sostanzialmente a vuoto, abbiamo deciso di avviare gli scioperi a oltranza». Gli scioperi non hanno impedito che si tenessero altri due-tre incontri con l'azienda, ma questa non si è ancora decisa a cedere. E dunque gli operai continueranno a scioperare, finché non si vedrà qualche risultato.

 

DATI CENSIS
Milioni di persone si inventano il lavoro
L'Italia ha superato nel 2001 quota 4 milioni di imprese. Lo dice il Censis, nel rapporto «Com'è cambiata l'Italia». Questo significa che, anche mettendo nel conto anziani e bambini, ci sono 7,2 imprese ogni 100 abitanti. Ma il dato più interessante è che quasi 2 milioni e mezzo sono le imprese singole: il 58,6% del totale. In vent'anni le ditte individuali sono quasi raddoppiate. Un boom di bar, negozietti, artigiani? Non proprio: in realtà, spiega il Censis, la crescita riguarda le piccole società di servizi. Il terziario tira, specie nei settori in crescita: e allora ecco che - in dieci anni - raddoppiano gli informatori medici, gli avvocati, i commercialisti. E quadriplicano gli agenti immobiliari. Ma il vero exploit è degli agenti immobiliari: +705,6%. Quello che il Censis non dice (non può dire), invece, è quanti di questi imprenditori fai-da-te sono persone costrette a prendere la partita Iva per continuare a lavorare. Queste figure, con l'approvazione della legge 30 (dello scorso anno), verosimilmente aumenteranno molto. Perché i lavoratori non assunti a tempo indeterminato vengono spinti dalle aziende ad aprire una partita Iva tutte le volte che non s'individua un progetto preciso da affidare loro, contrattualizzabile sotto forma dei precari «contratti a progetto». E quindi a svolgere un lavoro a tempo pieno, in un ufficio, con capi e orari da rispettare - insomma, da subordinati - ma come «liberi professionisti». C'è da scommettere, insomma, che la tendenza che ha portato all'aumento delle imprese individuali non s'interromperà.

«Io, discriminato e poi licenziato»
Seydi, operaio e delegato senegalese. Era costretto a lavorare al gelo, con macchine vecchie e pericolose
ORSOLA CASAGRANDE
TORINO
Storia di Seydi, operaio senegalese da sedici anni in Italia. La sua è una vicenda paradigmatica, che ha il sapore di avvenimenti spesso considerati di altri tempi, fatti di persecuzioni e intimidazioni. Seydi è uno dei delegati sindacali intervenuti al congresso provinciale della Fiom torinese, qualche giorno fa, e ci ha colpito particolarmente per la sua drammaticità. I lavoratori stranieri sono soltanto gli ultimi a essere oggetto di forme odiose di repressione, che vanno dai richiami disciplinari al «mobbing» fino al licenziamento (come nel caso di Seydi). E spesso la ragione di queste discriminazioni è legata al fatto stesso che sono lavoratori stranieri: l'idea che chiedano di essere equiparati ai loro colleghi italiani è vissuta con insofferenza e rifiuto da parte di datori di lavoro, che per molti versi si rifanno sui lavoratori più deboli, avendo (almeno in parte) perso la battaglia con i lavoratori autoctoni e i loro sindacati.

Seydi, ci racconti la sua storia.

Lavoravo alla Esex di Pianezza, una fabbrica metalmeccanica a gestione familiare con una sessantina di dipendenti, per lo più stranieri. Senegalesi, marocchini, cinesi, rumeni, nigeriani. Noi facciamo stampi. La nostra è una fabbrica con macchinari molto vecchi. Che si guastano spesso. Quando la macchina sta ferma, stiamo fermi anche noi ma il padrone ci fa recuperare, gratuitamente, il tempo «perso». Ci sono lavoratori con contratti diversissimi, molti sono interinali, a termine. Alcuni hanno contratti settimanali. Lo stabilimento è gelido quando fa freddo e caldissimo quando i forni sono in funzione. Ma anche d'inverno, nonostante si geli, siamo costretti ad aprire le porte perché altrimenti i fumi che escono dai macchinari ci intossiccherebbero.

Le condizioni di lavoro sono davvero precarie. Inoltre è difficile comunicare con molti degli altri operai che non parlano italiano. Con i ragazzi cinesi non ci capiamo e questo rende difficile spiegare il funzionamento delle macchine e quindi pericoloso il lavoro. Abbiamo deciso di organizzarci per difenderci. Siamo stati eletti in tre, io, un ragazzo marocchino e un italiano. Dopo le elezioni abbiamo cercato da una parte il contatto con i vertici dell'azienda, dall'altra abbiamo chiesto una bacheca.

E qual è stata la risposta?

Molto violenta. I padroni si sono arrabbiati per alcuni articoli comparsi sulla stampa locale in cui denunciavamo le condizioni di vita nello stabilimento. Ci hanno detto che quegli articoli avevano creato problemi con le banche, con i clienti e che questo avrebbe avuto ripercussioni anche su di noi. Nel senso che non si sapeva se sarebbero più arrivati i soldi degli stipendi.

Il capo officina allora ha cercato di farci mollare il nostro impegno sindacale e ci ha chiesto di firmare una lettera di scuse al padrone. Noi abbiamo rifiutato, ma loro cercavano la scusa buona per farcela pagare.

E la scusa l'hanno presto trovata...

Il 26 aprile scorso si è guastata una macchina. Mentre pulivo l'officina, il capo mi ha detto di andare a pulire gli uffici. Io gli ho risposto che non era mio compito e che c'è un'impresa di pulizie per questo. Mi hanno convocato dal direttore che in quel momento non c'era. Il giorno dopo però ho ricevuto una lettera con una sospensione cautelare per insubordinazione, massimo sei giorni. Invece subito dopo ho ricevuto la lettera di licenziamento. Il sindacato si è subito preoccupato di farmi fare la causa contro il licenziamento. Attendo la sentenza tra poco: forse già nei prossimi giorni.