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La piazza dei desideri
In decine di città la mobilitazione del comitato
«Se non ora quando» e dei coordinamenti femministi. Le donne parlano di
dignità e autodeterminazione. E pensano a un paese libero e liberato
Cinzia Gubbini
In tante, e tanti. La giornata internazionale
delle donne in Italia parla soprattutto dalla piazza, con iniziative
ampie, ampissime e anche con qualcuno che, invece, mette i punti giusti
sulle «i».
Ci sarà anche il cotè istituzionale, con Giorgio Napolitano che
stamattina al Quirinale ospiterà l'iniziativa «Centocinquanta anni:
donne per un'Italia migliore». Dalla poltrona che più maschile non si può
un omaggio all'unità d'Italia, tema dell'anno più bipartisan dell'altro
- gettonatissimo invece nelle piazze - che è sesso e potere, forse anche
a causa della presenza di due ministre, Maristella Gelmini, Istruzione, e
Mara Carfagna, Pari Opportunità. Le donne del governo Berlusconi,
d'altronde, si sono mobilitate per esorcizzare ogni possibile riferimento
al sex-gate: «Alla piazza che parla di dignità delle donne vorrei dire
che si tratta di un concetto né di destra né di sinistra», ha detto la
ministra all'Ambiente Stefania Prestigiacomo, sottolineando che non ha
senso alludere oggi alla vicenda di Ruby, trattandosi «come tutti hanno
capito» di un vero e proprio «accanimento giudiziario».
Il riferimento di Prestigiacomo è, ovviamente, all'iniziativa più larga
in programma per oggi in decine di piazze italiane. Il «Se non ora quando»
che dopo l'oceanica manifestazione del 13 febbraio si dà di nuovo
appuntamento «nel rispetto della trasversalità e dell'autonomia che
vogliamo mantenere e rafforzare». Davvero tanti e diversi i punti
d'incontro, da Roma a Milano, da Reggio Calabria a Sidney (dove si
manifesterà davanti al consolato italiano). Con qualche elemento in
comune per riconoscere il filo di ragionamento nato dalla reazione
indignata alla rappresentazione dell'Italia in mano ai desideri del
padrone. Un fiocco rosa «benaugurante nel 150esimo dell'Unità d'Italia
per una rinascita del nostro paese» da appuntare ognuno dove vuole, e lo
slogan «Rimettiamo al mondo l'Italia» allusione sia al tema della
maternità - libera, consapevole e possibile - che alla possibilità pure
per questo paese di «stare al mondo», solidale con gli altri popoli, ma
anche in linea con i movimenti per la democrazia che hanno rivoluzionato
il Maghreb.
A Roma l'appuntamento principale, a piazza Vittorio alle 16. Dal palco si
susseguiranno diversi interventi e dalle 19 sarà possibile assistere al
teatro Ambra Jovinelli allo spettacolo di Cristina Comencini «Libere».
Ma ci sarà anche l'iniziativa messa in piedi dal coordinamento «Indecorose
e Libere» (www.riprendiamociconsultori.noblog.org) che dà appuntamento
alle 18 a piazza Bocca della Verità per un corteo notturno che raggiungerà
Campo De' Fiori. Con «voce impetuosa» le donne del coordinamento
rivendicano «diritti, welfare e autodeterminazione», rifiutando quella
«logica familista» che mette al centro la maternità per negare, di
fatto, la libertà di scelte e relazioni. Un ragionamento, questo, che
parte da più lontano e non vuole perdere il collegamento con altre grandi
manifestazioni che hanno messo al centro i diritti delle donne, come
quella del 2007 contro la violenza maschile. Violenza che, come
testimoniano gli ultimi eventi di cronaca romani, non finisce di esistere
e di essere strumentalizzata. Proprio ieri sera mentre il sidnaco Gianni
Alemanno insieme alla presidente della regione Lazio Renata Polverini
proiettava sul Colosseo illuminato i «dieci punti» per rendere la città
«più sicura». «Zone rosse: case, chiese, caserme, carceri, cie», lo
striscione calato da «Indecorose e libere». Mentre in un blitz
contemporaneo al Pincio, dove si svolgeva il «Carnevale della capitale»,
è stato esposto lo striscione «If the girls are united they will never
walk alone!». «Indecorose e Libere» dà appuntamento anche a Milano a
piazza Cordusio alle 17,30 dove verrà cantato l'inno «Sorelle di Tania»
(invece che d'Italia), componimeto cherzoso ma non troppo che non manca di
tirare qualche stilettata alle organizzatrici della manifestazione del 13
febbraio (http://consultoriautogestita.wordpress.com/).
ROMPENDO I CONFINI
Ida Dominijanni
Ci hanno messo pochissimo, le donne egiziane, a
realizzare quanto sia abile il potere maschile a ricomporsi dopo le
rotture rivoluzionarie. Loro sono state protagoniste decisive della lotta
di piazza Tahrir e di tutto ciò che l'ha preparata e fatta crescere,
eppure, dicono adesso, il governo militare che s'è insediato al posto di
Mubarak se n'è già dimenticato: per questo oggi celebreranno l'8 marzo
tornando in piazza. Non si creda che sia un problema solo laddove i
militari subentrano ai despoti, o dove, come in Iran dove pure domani sarà
una giornata di lotta femminile, sono andate al potere rivoluzioni
islamiche con un segno, e con delle legislazioni, esplicitamente
patriarcali. Accade anche nelle democrazie occidentali, ed è precisamente
quello che è accaduto nell'Italia democratica degli ultimi decenni, dove
una estenuante e infinita «transizione» ha potuto compiere tutte le sue
giravolte, di centrodestra e di centrosinistra, berlusconiane e
antiberlusconiane, nella pervicace sottovalutazione e dimenticanza della
rivoluzione femminista. La contro-rivoluzione tentata dal sultanato di
Arcore, giova ricordarlo, è stata possibile grazie a questa più vasta e
generalizzata rimozione: e non va imputata, com'è diventato vezzo diffuso
anche nella stampa di sinistra, al fallimento del femminismo degli anni
Settanta, peraltro tutt'ora vivo e vegeto, ma al fallimento della classe
politica (maschile) dagli anni Ottanta in poi, nonché alla cecità
dell'informazione mainstream. E non ci sarà solidarietà credibile e non
sospetta di strumentalità con noi donne oggi che non passi per
un'autocritica severa e sincera, della classe politica e
dell'informazione.
Le rivoluzioni però, come diceva quel tale, scavano nel tempo e in
profondità, e approfittano delle ironie della storia. Per un'ironia della
storia, grazie alla contro-rivoluzione del sultanato la rivoluzione
femminista, che non ha mai smesso di essere all'ordine del giorno, torna
anche al centro della scena. E il laboratorio italiano, volente o nolente,
torna all'avanguardia della battaglia epocale che si gioca sul fronte del
rapporto fra i sessi. Dove non c'è più la vecchia questione femminile,
ma una nuova questione maschile, della quale finalmente si fa strada, fra
uomini, una qualche consapevolezza. Mentre fra donne si riallacciano fili
generazionali e culturali, messi alla prova da un ventennio che ha
cambiato l'antropologia del paese tentando di rifare del «femminile» il
giocattolo plastificato di un immaginario colonizzato. Senza dimenticare
il negativo che lo macchia oggi come cento anni fa - le operaie asfissiate
del 1911, le ragazze massacrate di oggi come Sara e Yara - facciamo di
questo 8 marzo davvero un giorno di festa. Più di rimessa al mondo della
libertà che di difesa della dignità, più di lotta contro il lavoro
disumanizzato che di rivendicazione di un lavoro paritario, più di
rilancio del desiderio sequestrato che di censura del sesso esibito, più
di sconfinamento in altri mondi che di ricostruzione dei profili della
nazione. Se oggi il Cairo è più vicino di quanto non fosse cento anni fa
New York, lo si deve anche se non in primo luogo alla rivoluzione
femminile.
8 MARZO
Tutti i nomi della scintilla
Alessandro Portelli
Oggi vorrei parlare di Francesca Caputo. Aveva
diciassette anni. Morì cento anni fa, in un giorno di marzo del 1911,
asfissiata o bruciata, insieme con altre 145 donne, nell'incendio di una
fabbrica, la Triangle Shirtwaist Factory, a New York, Stati Uniti
d'America. Donna, operaia, immigrata - tre volte senza diritti. Anzi,
quattro: era anche minorenne.
Vorrei parlare di lei, ma questo è tutto quello che so: il nome, l'età,
dove lavorava, dove abitava (81, Degraw Street, Brooklyn), dove e quando
è morta. CONTINUA | PAGINA 3
Ma basta a commuovere e a fare rabbia, perché ci dà i contorni di una
vita, e così ci ricorda una cosa elementare che però dimentichiamo
spesso di fronte alle tragedie di massa. Quel 25 marzo a New York, come il
24 marzo 1944 a Roma, come in qualunque bombardamento in Afghanistan o in
Libia, non è accaduta una strage, un massacro - ma: centoquarantasei
omicidi sul lavoro, trecentotrentacinque esecuzioni a sangue freddo, una
per una.
C'è una struggente canzone di Utah Phillips, il grande folksinger
anarchico scomparso pochi anni fa, che racconta un'altra strage, ventisei
lavoratori migranti sepolti senza nome in una fossa comune a Yuba City,
California, negli anni '60: «se avessi una lista, se solo li sapessi, vi
canterei i loro nomi uno per uno, e arrivato alla fine li ricanterei di
nuovo». I rituali e i monumenti più efficaci e struggenti della nostra
epoca - dalla commemorazione dell'11 settembre a quella delle Ardeatine,
fino al monumento di Washington ai caduti americani del Vietnam sono
infine nude liste di nomi.
I nomi delle vittime dell'incendio della Triangle Shirtwaist Factory li
conosciamo, e adesso una lista li mette finalmente insieme, con le età,
persino gli indirizzi. Con Francesca Caputo morirono Vincenza Billota, che
di anni ne aveva 16; e Michelina Cordiano, che ne aveva 25 e abitava a
Bleecker Street, in quel Greenwich Villae allora ghetto di immigrati e
futuro quartiere degli artisti dove in altri tempi sarebbe andato ad
abitare Bob Dylan; e Annie L'Abate, sedici anni anche lei - la stessa età
di Tillie Kupferschmidt. Morirono con loro Daisy Lopez Fitze, Nettie
Leibowitz, Bettina e Frances Maiale (18 e 21 anni), Caterina, Lucia e Anna
Maltese (39, 20, 14 anni: madre e figlie?), Rosie Makowski, Sadie Nussbaum
(18 anni anche lei), Providenza Panno, che ne aveva 43, e Antonietta
Pasqualicchio, sedicenne; e Golda Schpunt, Jenie Stiglitz, Clotilde
Terranova, Frieda Velakovski... C'era anche qualche uomo: Theodore Rotten,
Israel Rosen (17 anni). Nomi di italiane, qualche nome ispanico (Loped,
Del Castillo), soprattutto nomi ebraici, ben 102: il 1 marzo (centesimo
anniversario secondo l calendario ebraico), nel cimitero di Staten Island,
davanti a una tomba dove sono ammucchiati 22 dei loro corpi (4 uomini, 18
donne), poche decine di persone si sono radunate in una giornata di vento
ad ascoltare dalla voce del Rabbi Shmuel Plafker intonare i loro nomi
ebraici: Leah bas Leib (Lizzie Adler), Chaya bas Eli ben Zion (Ida Brodsky),
Sarah bas Mordechai (Sarah Brodsky), Aidel bas Asher (Ada Brook), Masha
bas Meir (Molly Gerstein), Rashka Mirel bas Reb Moishe Leib (Mary
Goldstein), Dina bas Dovid (Diana Greenberg), Perel bas Tzvi (Pauline
Horowitz), Rivkah bas Yosef (Becky Kappelman)...
Erano addette alla macchine da cucire, facevano un nuovo tipo di
camicette, con la fila di bottoni sul davanti come quelle degli uomini,
molto alla moda. Lizzie Adler era arrivata in America solo tre mesi prima,
e aveva già cominciato a mandare soldi alla famiglia in Romania; Sara
Brodsky avrebbe dovuto sosarsi fra un mese, e il fidanzato riconobbe i
corpo dall'anello di fidanzamento che aveva ancora al dito. Venivano dagli
shtetl dell'Europa orientale e dai paesi dell'Italia del Sud, italiane ed
ebree: le grandi ondate migratorie a cavallo del ventesimo secolo, le
donne di cui era fatta l'industria di New York,- la Ladies' Garment
Workers Union, la Amalgamated Clothing Workers' Union, sindacati un tempo
militanti in una New York proletaria, migrante, femminile - sindacati di
donne diretti sempre da uomini... La tragedia della Triangle Shirtwaist
Factory fu la scintilla di una campagna per la sicurezza sul lavoro:
morendo, queste donne hanno salvato molte vite future.
Per decenni ci hanno raccontato la favola degli Stati Uniti come un paese
senza classi e senza lotta di classe. Eppure le due ricorrenze che tutto
il mondo ricorda - il 1 maggio e l'8 marzo - vengono tutte da lì, dalla
piazza di Haymarket a Chicago nel 1886 dalla Triangle Shirtwaist Factory a
New York nel 1911. Soprattutto, la più ispirata delle rivendicazioni -
vogliamo il pane, ma vogliamo anche le rose - l'hanno inventata altre
donne migranti, le operaie tessili di Lawrence, Massachusetts, nel 1912.
In questi giorni, in cui la lotta di classe si fa sempre più feroce,
sotto forma di offensiva padronale, da Pomigliano d'Arco a Madison,
Wisconsin, sono le facce delle maestre di scuola e delle impiegate statali
in prima fila nella grande protesta contro le leggi antisindacali del
Wisconsin a dire che si può ancora resistere.
E ce n'è bisogno. Uno degli eventi di commemorazione del disastro del
1911 ha preso la fiorma di un cerchio di donne che si sono riunite per
cucire insieme, e per ricordare le 25 donne uccise non più tardi del
dicembre scorso un incendio a Dacca, in Bangladesh, in una fabbrica
tessile che produce indumenti distribuiti da marche come Gap e J.C. Penney.
A questo serve la memoria, a ricordare non solo il passato, ma soprattutto
il presente.
E allora, per resistere e non dimenticare, leggiamo e ascoltiamo ancora:
... Annie Ciminello, Rosina Cirrito, Anna Cohen, Annie Colletti, Sarah
Cooper, Michelina Cordiano, Bessie Dashefsky, Josie Del Castillo, Clara
Dockman, Kalman Donick, Celia Eisenberg, Dora Evans, Rebecca Feibisch,
Yetta Fichtenholtz...
IN MOVIMENTO
Ripartiamo da noi stesse Il dibattito è aperto
Action_a *
In un paese in cui il presidente del consiglio,
come i dittatori al centro delle rivolte di questi mesi, «ha confuso l'Io
con la nazione», concentrando il suo potere attorno al «culto della
personalità», si è persa la facoltà di ritrovare noi stessi, la nostra
storia e quindi il nostro futuro. La situazione delle donne è solo la
punta dell'iceberg del degrado generale di cui in molte e molti si
iniziano a preoccupare solo ora. Non sono bastati i tagli alla sanità,
all'istruzione, al welfare, la fine dell'informazione libera, il collasso
della democrazia.
Abbiamo avuto bisogno dello scandalo, delle foto di una minorenne sui
giornali. I famosi «indifferenti» allora si sono svegliati. Non di
fronte ai morti nel Mediterraneo, non per le violenze nei Cie, non per la
miseria che vediamo per la strada, la discarica a cielo aperto di Napoli o
per la tragedia e la rivoltante speculazione che ne è seguita a L'Aquila.
E nella manifestazione del 13 febbraio le donne hanno riconvertito lo
scandalo inondando le piazze e spalancando le porte cigolanti che
rinchiudevano le proteste sociali.
Dopo l'emozionante giornata è iniziato il mormorio sulle «solite»
divisioni nel movimento delle donne. Invece di farci spaventare dalla
mancanza di unitarietà dei nostri pensieri e percorsi politici questa
volta potremmo piacevolmente sorprenderci per la varietà delle nostre
posizioni: in una situazione in cui il ragionamento politico è
difficilmente rintracciabile nei numerosi discorsi, interviste e comizi
dei politici di professione, i confronti nei movimenti delle donne sono
una boccata d'aria fresca, a patto che non frammentino il percorso verso
la prima meta comune: riappropriarci dei discorsi e delle politiche per le
donne.
Perché abbiamo voglia di discutere, di ritrovarci in una situazione dalla
quale abbiamo capito tardi di essere uscite: quella in cui ci si può
confrontare, dibattere, separare. In cui i diritti di base, la dignità
non sono messi in discussione. Smettere di essere costrette a stringerci
intorno a rivendicazioni elementari:maternità consapevole e diritto a non
essere licenziata perché si è incinta. Vogliamo parlare della pillola Ru
486 e della sua diffusione, dell'ampliamento dei diritti civili a single e
gay, della procreazione assistita. Insomma di quegli argomenti per cui è
ancora storicamente accettabile discutere.
Le donne hanno ricominciato a parlare di se stesse, di dignità, di
diritti. Il diritto alla non discriminazione prima di tutto, alla «sessualità
libera», ma libera da cosa? Innanzitutto libera da tutto ciò che sesso
non è. Il sesso per il potere, per la posizione sociale o per la
procreazione. Ci troviamo di fronte due alternative, espressione della
doppia morale, quella pubblica e quella di palazzo. Per alcune donne il
sesso legato alla procreazione, come nel grigio revival delle leggi
fasciste sulla maternità rappresentato dalla proposta di legge Tarzia nel
Lazio. Per altre donne, il sesso può essere legato al conseguimento di
posti importanti e ben pagati, posizioni di «rilievo». Scompare la
possibilità di essere donne e basta.
Quando il sesso e la morale sono al centro del dibattito si creano
contrapposizioni, rotture. Ma non saranno le fratture interne alla
discussione a rompere il movimento, perché il movimento è unito dalla
voglia di parlare e di riaprire cassetti chiusi da troppo tempo. Questa
volontà è la nostra forza, quella che terrà di nuovo insieme le donne.
Per questo abbiamo deciso di tornare in piazza l'8 marzo, per tenere vivo
uno spazio in cui si discuta di pratiche comuni che rivendichino e
agiscano la libertà di ogni donna.
*Casa delle Donne Lucha Y siesta, Action_a, associazione per i diritti in
movimento
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Come boicottare l'aborto in nome della lotta alla
violenza
Un buon esempio di dove possa arrivare la logica
istituzionale delle pari opportunità viene dall'omonimo comitato della
Provincia di Catanzaro, che ha avuto la brillante idea di festeggiare l'8
marzo con un concerto i cui proventi saranno destinati a un centro di quel
Movimento per la vita che da trent'anni si occupa attivamente di
boicottare l'applicazione della legge sull'interruzione di gravidanza. E
il concerto, va da sé, viene pubblicizzato come iniziativa «contro ogni
forma di violenza sulle donne». «Ma non è forse una forma di violenza
questa? - scrivono le «Donne catanzaresi in Rete» -. Non è violenza la
volontà di imporre una scelta sui corpi altrui?Non siamo incubatrici ma
persone, non siamo proprietà della Chiesa e nemmeno dello Stato, siamo, o
vorremmo essere, libere cittadine». Le firmatarie fanno anche presente
che l'ospedale cittadino annovera soltanto due medici non obiettori.
SESSUALITÀ - UNA RICERCA
DELLE STUDENTESSE
Tre metri sopra il cielo, la fabbrica del piacere
Serena Orazi *
Quanto sia difficile oggi articolare, da parte di donna, un discorso
compiuto sul tema della sessualità è indicato dalla ripetizione dei
singulti di piazza, la cui cifra resta la genericità dei contenuti,
risolta nella scelta di termini quali «indignazione» o «dignità». Non
si tratta di fare le pulci alla grande giornata del 13 febbraio scorso, si
tratta, piuttosto, di capire come questa «indignazione» si tramuti in un
ragionamento pubblico non solo sulle questioni (urgentissime) del lavoro e
del welfare, ma anche sulla sessualità, l'immaginario e il loro legame
con il potere.
Il vuoto di discorso sul tema da parte delle donne merita attenzione, non
fosse altro perché è stata la molla che ha fatto scattare l'onda «reattiva».
Vale a dire che ci si indigna pubblicamente anche e soprattutto perché
l'immagine e il ruolo delle donne nel nostro paese sono continuamente
sviliti dalle politiche del governo e dai comportamenti del raìs di
Arcore. Va bene... ma equivale a stizzirsi quando ci si vede tolta la
sedia da sotto il sedere. Una riflessione, invece, andrebbe articolata sul
rapporto Sesso-Potere.
A partire dalla rivoluzione sessuale degli anni '60 il femminismo italiano
ha fatto della sessualità la sua tematica centrale (da Lonzi a Staderini)
e della ricerca della «vera sessualità femminile» uno degli obiettivi
più importanti. L'affermazione del piacere femminile e della sua ricerca
ha moltiplicato sperimentazioni e pratiche del corpo. In merito le
formidabili riflessioni di Carla Lonzi restano centrali, nonostante le
mistificazioni sull'esistenza o meno del punto G (nella vagina, of course!).
Viene da chiedersi quanto di tutto ciò sia giunto fino a noi. I continui
tentativi di erosione degli spazi di libertà delle donne, l'arretramento
sul terreno dei diritti, il successo dell'immaginario e dell'estetica di
Drive-in e Colpo grosso, produzione e condivisione di «materiale sessuale»
di ogni genere, indicano che i risultati raggiunti in passato hanno
prodotto uno spostamento e un capovolgimento tattici, non strategici, del
dispositivo sessuale patriarcale, che ha affinato nuovi meccanismi di
controllo, facendosi esso stesso «fabbrica» del desiderio.
L'inchiesta centrata sull'immaginario e la sessualità delle giovanissime
(18-19 anni), pubblicata sul prossimo numero in uscita di DWF
DonneWomanFemme, ci segnala spunti molto interessanti. Ancora prima di
sperimentare direttamente il sesso, esperienza che per lo più accade in
età giovanissima, attorno ai 14, è centrale, nella costruzione
dell'immaginario della relazione amorosa e sessuale delle ragazze, la
rappresentazione che di essa danno alcuni autori di best seller come
Federico Moccia, che mentono sapendo di mentire, perché fa parte del
gioco. È chiaro a tutte, infatti, che la prima volta non sarà affatto «per
sempre», né necessariamente qualcosa di indimenticabile, ma è comunque
importante fare come se lo fosse e crederci un po', rispettare, in un
certo senso, l'etichetta, perché sarebbe sconveniente esordire
dichiarando di sapere ciò che si sa già da tempo: che si tratta del
primo di una lunga serie di rapporti sessuali. La rappresentazione del
sesso occupa progressivamente nuovi piani esperienziali. Il sesso è
divenuto, in qualche modo, la cifra della scoperta di sé, il medium
attraverso il quale esprimere la propria identità. Conseguentemente il
Desiderio, con la D maiuscola, diventa desiderio sessuale e il Piacere è
sistematizzato attraverso il sesso. Un piacere «liquido» che rende agili
- seguendo il discorso delle ragazze - le sperimentazioni, dalla
condivisione del/dei partner al passaggio da relazioni etero a omo e
viceversa, a una certa omologazione nell'estetica tra i generi (si pensi
agli emo).
Il discorso femminista sulla sessualità necessita allora di un
ripensamento radicale. Occorre individuare con urgenza quali e quanti
sono, ad esempio, i nuovi luoghi della formazione dell'immaginario
sessuale, giovanile ma non solo. Senza ostinarsi a ripercorrere strade
conosciute, bisogna rendersi conto che, talvolta, lo stesso concetto di
autodeterminazione, traslato nelle relazioni e/o nei rapporti sessuali,
risulta un limite, di fronte al desiderio (o al bisogno) di passività.
Insomma, è necessaria una nuova riflessione a voce alta delle donne.
Occorre rioccupare lo spazio pubblico sperimentando, senza timidezze, ma
con grande fantasia.
Con questo spirito di ricerca, e con una rabbia senza pari per gli episodi
di violenza sessuale che disseminano le cronache dei nostri giorni, l'8
marzo a Roma ci riprenderemo la notte, convinte che la strada da
percorrere sia ancora tanta, consapevoli che il futuro è ancora tutto da
scrivere.
*info sexes - atelier Roma
8 MARZO
Pillay: i diritti delle donne al centro dei
cambiamenti
«Rendo omaggio alle donne del Medio Oriente e del
Nord Africa, e alle donne di tutto il mondo che stanno affrontando grossi
rischi per lottare per la dignità, la giustizia e i diritti umani, per sé
stesse e per i loro compatrioti». E' il messaggio di Navi Pillay,
commissario dell'Onu per i diritti umani, in occasione della giornata
dell'8 marzo. In Egitto e in Tunisia, sottolinea Pillay, «donne
provenienti da tutti i ceti sociali marciavano insieme agli uomini,
premendo per la rottura degli stereotipi di genere, desiderose di
cambiamento, per i diritti umani e la democrazia». Ma la battaglia non è
finita. « In questi momenti di transizione storica in Egitto e Tunisia,
bisogna assicurare che i diritti delle donne (...) restino in cima alla
lista delle nuove priorità».
FEMMINISMI
Una rete di genere latino americana
Per quattro giorni all'Università bolivariana di
Caracas, in Venezuela, si sono svolti incontri e seminari della «conferenza
mondiale delle donne di base», promossa da reti di donne «in lotta
contro l'oppressione di genere e il capitalismo». Autonome da partiti e
da governi progressisti che pure le sostengono
Geraldina Colotti
CARACAS
Indigene, contadine, sindacaliste, attiviste per i diritti civili: per
quattro giorni, all'Università bolivariana di Caracas e al Nuevo Circo,
hanno dato vita alla «Conferencia mundial de mujeres de base». E' una
rete di genere che attraversa la politica dei singoli paesi, ma con una
spinta alternativa e «dalla base», come dice l'appello di convocazione,
autonoma dai partiti e dai governi: anche dai governi progressisti
dell'America latina che pure queste reti sostengono.
Obiettivi delle giornate, «promuovere la partecipazione ampia,
democratica e ugualitaria di tutte le presenti; favorire il rafforzamento
delle organizzazioni di base; recuperare le esperienze storiche di lotta
delle donne per la conquista dei loro diritti; creare meccanismi di
solidarietà e appoggio alle diverse azioni delle donne nella loro lotta
contro l'oppressione di genere, il capitalismo, gli effetti della crisi
mondiale, e le discriminazioni etniche e culturali». Molti i temi in
agenda, che hanno al centro l'autoderminazione femminile e il diritto a
decidere del proprio corpo: in relazione al lavoro, all'ambiente, alla
resistenza alle guerre di aggressione, alla partecipazione politica.
Fra le promotrici dell'iniziativa, il collettivo venezuelano Ana Soto, dal
nome di «una grande condottiera indigena di etnia Gayon che - ci spiega
Dilia Josephina Mejias - combatté valorosamente contro gli spagnoli e
venne impalata a Barquisimento nell'agosto del 1668». Le componenti di
Ana Soto sono, come Dilia, tutte giovani, attive «in diverse regioni del
Venezuela all'interno dei settori operai, contadini, indigeni». Un
collettivo che si richiama «al socialismo scientifico» e con questo
spirito costruisce «alternativa nei barrios, nei consigli comunali, con
le radio e televisioni comunitarie».
In Venezuela, le elette sono quasi il 50% in tutti gli organismi di
governo: «E' il riflesso istituzionale di una grande partecipazione
popolare - spiega Dilia - Il proceso bolivariano ha consentito alle donne
di avanzare in molti campi: l'educazione, la salute, la partecipazione
politica. Abbiamo una buona legge contro la violenza di genere, ma ci
capita di dover scendere in piazza perché queste leggi vengano applicate.
Ci sono molte resistenze».
Una delle più forti è quella contro l'aborto, che non è consentito. Di
recente Araña Feminista, una rete di 20 collettivi a cui partecipa Ana
Soto, ha incontrato una rappresentanza del governo per chiedere che nel
nuovo codice di procedura penale sia depenalizzato l'aborto. Un tema
presente anche nella Conferenza, che oggi si concluderà con una marcia
per i 100 anni dall'istituzione dell'8 marzo.
Agnes Mirqueya Mateo, un'altra delle organizzatrici, delegata per la
Repubblica Dominicana, è invece una femminista di lungo corso.
Economista, dirige il Dipartimento per gli studi di genere all'Università
autonoma di Santo Domingo (Uasd). La sua militanza - racconta al manifesto
- è iniziata nei quartieri poveri di Santo Domingo, nel solco di quel
movimento democratico chiamato «14 giugno» in cui agivano le sorelle
Mirabal, eroine della lotta contro il dittatore Trujillo - che scatenò
contro di loro i suoi killer ma provocò così anche l'ondata di rivolta
che condusse al suo assassinio, nel 1961. Alle sorelle - le «farfalle» -
uccise il 25 novembre del '60, è stata poi dedicata la giornata mondiale
contro la violenza di genere.
«Abitavo nel quartiere in cui venne ucciso il tiranno - ricorda Agnes -.
Il nostro collettivo prese il nome di Minerva Mirabal, una donna speciale.
Eravamo un gruppo piccolo ma con tante giovani. Il 14 febbraio decidemmo
di donare un cuore con su scritto: 'chi ama non uccide'. Quando poi,
nell'85, nacque mio figlio era il figlio del barrio, erano le donne del
quartiere a tenerlo quando lavoravo». Determinante, per Agnes, fu «l'incontro
con lo studio dell'economia marxista. In quell'ottica ho cercato di
indagare le ragioni della disuguaglianza di genere. Nella Repubblica
dominicana, le donne sono attive in tutti i settori della società, ma a
parità di lavoro, guadagnano il 17% in meno degli uomini. La donna è la
più povera fra i poveri, la povertà si femminilizza sempre più».
Nel suo lavoro di accademica, Agnes studia l'incidenza del lavoro
domestico sull'economia dei paesi dell'America latina. «Occorre - afferma
- un lavoro di educazione alle pari opportunità, bisogna disegnare
strategie economico-politiche per la prospettiva di genere. Nell'università,
cerchiamo di sviluppare programmi educativi e quella che abbiamo chiamato
la trasversalità della questione di genere in tutte le discipline: in
modo che uomini e donne abbiano uguale coscienza delle disuguaglianze, ne
conoscano le cause e possano combatterle insieme».
Radicale e diretta, anche Cecilia Caramijos, è docente universitaria.
Delegata per l'Ecuador, fa parte del comitato promotore della Conferenza.
In primo piano nei movimenti di lotta che nel suo paese hanno fatto cadere
diversi presidenti e portato al governo di Rafael Correa, è una delle
fondatrici della Confederacion des mujeres por el cambio (Confemec),
organizzazione nata nel '99. Raggruppa donne dei settori popolari,
intellettuali, artiste, molte indigene e afrodiscendenti.
«La nostra costituzione - ci dice Caramijos - è una delle più
democratiche del mondo, garantisce i diritti delle donne e la loro
rappresentanza al 50% negli organismi di governo. E' frutto di una grande
mobilitazione popolare. Nel 2008, io ero rappresentante all'Assemblea. Mi
battei perché fosse inserito il diritto alla resistenza, come stabilisce
la carta per i diritti umani. Servirà anche oggi che il governo sta
progressivamente cedendo agli interessi delle multinazionali minerarie e
petrolifere e consente la presenza di 10.000 soldati Usa alla frontiera
con la Colombia». Un giudizio severo, che considera le politiche
assistenziali verso le donne niente più che «un sonnifero» e vede
nuovamente in campo la corruzione di una «cricca di tecnocrati incurante
delle capacità della sua gente e favorevole alle élite che hanno
studiato all'estero».
Un appuntamento preparato per anni, questo della Conferenza, e messo a
punto nell'autunno scorso a Dusseldorf, in Germania. In quell'occasione,
si sono incontrate delegazioni di 31 paesi: dall'Africa all'Asia, dal
Medioriente all'Europa all'America latina. La maggior parte delle donne è
venuta direttamente dai singoli paesi, ma numerose sono state anche le
migranti che le hanno raggiunte dalla Francia, dal Portogallo,
dall'Olanda. Grandi numeri e tanti volti giovani, incredibilmente
partecipi e attenti, capaci ancora di chiedersi se «può la cuoca
dirigere lo stato».
Per giorni, qui è stato a confronto il femminismo marxista dell'America
latina con le Donne in nero di Zagabria e i movimenti Glbtq dell'Est, le
associazioni di migranti haitiane - e poi con le diaspore kurde, irachene,
afghane, iraniane che denunciano restrizioni e persecuzioni. L'oscurità
della guerra, ma anche della «pace» quando lascia mano libera a chi ruba
«le ricchezze dei paesi dipendenti, ostacola lo sviluppo autonomo e
impedisce alla donna di vivere con dignità».
SOLIDARIETÀ
«Lucia y siesta», dal Tuscolano a Caracas
Ge. Co.
La Casa Internazionale delle donne di Roma, il
collettivo Medea a Torino, diversi centri sociali come il Leoncavallo di
Milano, il Forte Prenestino di Roma o il 32. Verso Caracas si sono mosse
in tante: sia per sostenere finanziariamente la Conferenza mondiale delle
donne «di base» che si conclude oggi, sia per parteciparvi. E c'è chi,
come la Casa delle donne Lucha y siesta, ha deciso di festeggiare il
proprio «compleanno» inviando una piccola delegazione che metta in
circolo l'esperienza di questa casa occupata nel quartiere Tuscolano a
Roma l'8 marzo del 2008. Una casa autogestita in cui trovano asilo donne
in difficoltà. Molte le migranti ospiti della struttura - un vecchio
stabile dell'Atac con giardino, vuoto e inutilizzato da oltre 10 anni -
provenienti dall'America latina, dai paesi dell'est o dal Medioriente.
Alcune di loro hanno figli e in questo luogo che sembra una piccola oasi
di tranquillità nella metropoli cercano di riprendere in mano la propria
vita. In tante lo hanno già fatto: hanno trovato un lavoro, hanno
ricongiunto la famiglia, e hanno comunque continuato a sostenere le
attività sociali di Action-Diritti in movimento.
Una reatà in bilico, però, legata allo sviluppo di una trattativa con il
Comune e la proprietà che si è aperta 18 mesi fa ma per ora non ha dato
esito. Anzi. A fine gennaio, l'Acea ha staccato la luce a seguito di una
richiesta dell'Atac, proprietaria dello stabile, creando problemi e
scompiglio. Poi la corrente è stata ripristinata, ma si teme per il
futuro delle ragazze impegnate in molti progetti messi in campo nonostante
difficoltà materiali e assenze di finanziamenti: uno sportello di primo
ascolto e accoglienza per le donne in situazioni di difficoltà
socio-economiche, in rete con i servizi di assistenza sociale del
municipio e con le realtà cittadine che offrono assistenza alle donne
(centri antiviolenza, telefono rosa....); un corso di italiano per donne
migranti; corsi di inglese e psicoterapia di gruppo per migliorare la vita
di comunità e facilitare la comunicazione; un laboratorio di sartoria che
si propone di diventare una fonte di autoreddito per le partecipanti.
Attività aperte al quartiere che ha potuto fruire dello spazio verde
rimesso a nuovo dalle ragazze. Un luogo da difendere.
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